CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 12398 depositata il  maggio 2024

caparra penitenziale – tassazione ai fini dell’imposta di registro

FATTI DI CAUSA

1. Il notaio C.P., le società B.U. s.p.a. e W.P.C. s.p.a. hanno impugnato gli avvisi di liquidazione, con cui l’Agenzia delle Entrate ha rettificato l’imposta di registro dovuta in ordine al contratto preliminare stipulato tra le parti, applicando alla somma pattuita a titolo di caparra penitenziale l’aliquota del 3% in luogo di quella di 0,5%.

2. I ricorsi riuniti sono stati accolti in primo grado, con sentenza confermata in appello.

3. Avverso tale sentenza della Commissione tributaria regionale ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

4. Si sono costituite con controricorso il notaio e W.P.C. p.a., che hanno depositato successiva memoria. Il notaio ha insistito anche nelle questioni assorbite.

5. Il ricorso, originariamente fissato ad adunanza camerale presso la Sesta Sezione, è stato successivamente rinviato alla pubblica udienza.

6. La Procura Generale presso la Corte di cassazione ha depositato nota di conclusioni scritte con cui ha chiesto accogliersi il ricorso e cassarsi la causa con rinvio.

7. La causa è stata trattata e decisa all’udienza pubblica del 12 aprile 2024.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’Agenzia delle Entrate ha dedotto: 1) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 9 della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, atteso che la caparra penitenziale non è espressamente prevista dalla nota dell’art. 10 della tariffa e va, quindi, assoggettata all’aliquota del 3% di cui all’art. 9 della tariffa, che disciplina, in via residuale, tutte le disposizioni non altrove previste; 2) la violazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ., degli artt. 27 e 43 del d.P.R. n. 131 del 1986, non potendo equipararsi l’atto in cui è inserita la caparra penitenziale ad un atto sottoposto a condizione sospensiva, come fatto nella sentenza di appello.

2. Il ricorso va rigettato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc. civ.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi.

2.1 Come stabilisce l’art. 1386 civ., la caparra penitenziale ha la funzione di corrispettivo del recesso ed il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella ricevuta, se esercita il relativo diritto di recesso. Si tratta di una pattuizione, collegata ad un altro contratto, che attribuisce un diritto potestativo di recesso a fronte di un corrispettivo e che, quindi, ha un contenuto patrimoniale.

In effetti, la caparra penitenziale non è, da un punto di vista civilistico, un negozio sospensivamente condizionato, ma piuttosto un negozio da cui deriva immediatamente, in virtù del consenso delle parti, la costituzione del diritto potestativo di recesso. Difatti, è solo il pagamento del corrispettivo pattuito (in termini di trattenimento della caparra o di obbligo di corrispondere il doppio dell’importo ricevuto) ad essere subordinato all’esercizio del diritto di recesso e a condizionarne gli effetti, in virtù della previsione dell’art. 1373, terzo comma, cod.civ. («qualora sia prevista la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita»).

Va, inoltre, evidenziato che le clausole che attribuiscono il diritto di recesso, laddove dirette a rimuovere gli effetti contrattuali già prodotti (cd. recesso caducatorio) invece che ad impedire la produzione di quelli non ancora realizzati (in deroga all’art. 1376, primo comma, cod.civ., come consentito dall’ultimo comma della medesima disposizione), si traducono sostanzialmente in una condizione risolutiva espressa di tipo non meramente potestativo, salva l’esistenza di talune trascurabili differenze (ad esempio, il carattere recettizio del recesso, da contrapporre all’automaticità delle altre condizioni potestative).

2.2 Ai fini dell’individuazione del regime impositivo della caparra penitenziale, deve escludersi l’applicazione della disciplina prevista per la caparra confirmatoria, attesa la differenza strutturale e funzionale delle due clausole (Cass., Sez. 6 – 3, 9 febbrai 2023, n. 3954, secondo cui la caparra penitenziale – che ricorre quando alla previsione del diritto di recesso si accompagna la dazione di una somma di danaro o di altra quantità di cose fungibili – e la multa penitenziale – cioè, il corrispettivo previsto per il recesso – non integrano, a differenza della caparra confirmatoria, un risarcimento del danno per la mancata esecuzione del contratto, bensì il corrispettivo del recesso per determinazione unilaterale e l’accertamento della volontà delle parti di dar vita all’una o all’altra figura compete al giudice del merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione esauriente ed immune da vizi logici e giuridici). Non può, pertanto, operare l’art. 6 della Part I degli allegati al d.P.R. n. 131 del 1986, a cui rinvia il primo periodo della nota dell’art. 10, che fa riferimento esclusivamente alla caparra confirmatoria («se il contratto preliminare prevede la dazione di somme a titolo di caparra confirmatoria si applica il precedente art. 6»).

2.3 La disciplina applicabile va piuttosto rinvenuta nell’art. 28 del d.P.R. n. 131 del 1986, ai sensi del quale la risoluzione del contratto è soggetta all’imposta in misura fissa se dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto e, laddove sia previsto un corrispettivo per la risoluzione, sul relativo ammontare si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 6 o quella prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa.

Lo scioglimento del contratto derivante dall’esercizio del diritto di recesso ha, difatti, gli stessi effetti di quelli della risoluzione del contratto. Peraltro, come già ricordato il recesso cd. caducatorio viene ricostruito, da una parte della dottrina, come una condizione risolutiva espressa di tipo potestativo, mentre il recesso cd. impeditivo integra una clausola a cui si collega lo scioglimento e, dunque, la risoluzione del vincolo contrattuale.

Da tale premessa deriva, quindi, che laddove si verifichi lo scioglimento del contratto in conseguenza dell’esercizio del diritto di recesso, sull’ammontare previsto quale corrispettivo per il recesso si applica l’imposta proporzionale prevista dall’art. 9 della parte prima della tariffa del d.P.R. n. 131 del 1986 (e, cioè, 3%), salva l’ipotesi in cui il corrispettivo sia oggetto di quietanza, assoggettata, ai sensi dell’art. 6 della parte prima della tariffa del d.P.R. n. 131 del 1986, all’aliquota dello 0,5% (come appunto avvenuto, nel caso di specie, al momento della conclusione del contratto preliminare).

Dunque, l’aliquota prevista dall’art. 6 della prima parte della tariffa del d.P.R. n. 131 del 1986 si applica con riferimento alle eventuali quietanze, mentre non può condividersi la tesi del notaio e delle parti del contratto, che invocano tale disposizione assimilando ad una garanzia la caparra penitenziale, che, al contrario, non costituisce alcun diritto personale o reale di garanzia.

Pertanto, l’aliquota applicabile in via ordinaria alla caparra penitenziale è quella di cui all’art. 9 della prima parte della tariffa, indicata dall’Agenzia, ma, contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente Amministrazione, non si applica al momento della registrazione del contratto in cui è inserita la pattuizione, ma solo in caso di scioglimento del contratto per effetto dell’esercizio del diritto di recesso.

Invero, la lettera dell’art. 28 d.P.R. n. 131 del 1986 è chiara nel collegare l’applicazione dell’imposta di registro sull’ammontare del corrispettivo pattuito per la risoluzione al momento in cui si verifica lo scioglimento del vincolo contrattuale in virtù della clausola contrattuale, escludendo l’imposizione immediata. Difatti, è la «risoluzione» del contratto ad essere soggetta all’imposizione – in base ad un regime differenziato se lo scioglimento del contratto dipende da clausola o da condizione risolutiva espressa contenuta nel contratto stesso ovvero stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata entro il secondo giorno non festivo successivo a quello in cui è stato concluso il contratto (comma 1) o in ogni altro caso (comma 2). La previsione dell’applicazione dell’imposta di registro al momento della risoluzione del contratto esclude, da un punto di vista sistematico, l’imposizione immediata dalla clausola, che si tradurrebbe in una inammissibile doppia imposizione ed andrebbe a colpire la medesima capacità contributiva. In base all’art. 28 del d. P.R. n. 131 del 1986 si può, quindi, configurare, ma solo ed esclusivamente in un’ottica tributaria e non civilistica, la caparra o multa penitenziale come negozio sospensivamente condizionato, nel senso che l’applicazione del regime impositivo è condizionata all’esercizio del diritto di recesso ed allo scioglimento del contratto.

Del resto, tale conclusione è confermata, con riguardo alla fattispecie in esame, che ha ad oggetto un contratto preliminare, dalla nota all’art. 10 della prima parte della tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, ai sensi della quale «se il contratto preliminare prevede la dazione di somme a titolo di caparra confirmatoria si applica il precedente art. 6; se prevede il pagamento di acconti di prezzo non soggetti all’imposta sul valore aggiunto ai sensi degli articoli 5, comma 2, e 40 del testo unico si applica il precedente art. 9; in entrambi i casi l’imposta pagata è imputata all’imposta principale dovuta per la registrazione del contratto definitivo». La scelta del legislatore è quella di tassare, al momento della conclusione del contratto preliminare, la sola caparra confirmatoria e non quella penitenziale, che, al contrario, non è soggetta a tassazione immediata, perché la concretizzazione della sua funzione è solo eventuale. Inoltre, tale nota conferma che le somme corrisposte, nel corso della procedura di formazione della fattispecie contrattuale, ad altro titolo, laddove successivamente siano imputate al pagamento del corrispettivo, rilevano ai soli fini della dell’imposta dovuta per il contratto definitivo: regola che, essendo posta, oltre che per la caparra confirmatoria, anche per gli acconti, assume una valenza generale e opera, quindi, necessariamente anche per la caparra penitenziale, laddove il recesso non sia esercitato e la somma corrisposta al momento della conclusione del contratto preliminare sia imputata al pagamento del prezzo.

Solo per completezza va ricordato che sussiste l’obbligo di denuncia dell’eventuale esercizio del diritto di recesso, ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. n. 131 del 1986, che stabilisce che l’avveramento della condizione sospensiva apposta ad un atto, l’esecuzione di tale atto prima dell’avveramento della condizione e il verificarsi di eventi che, a norma del presente testo unico, diano luogo ad ulteriore liquidazione di imposta devono essere denunciati entro trenta giorni, a cura delle parti contraenti o dei loro aventi causa e di coloro nel cui interesse è stata richiesta la registrazione, all’ufficio che ha registrato l’atto al quale si riferiscono).

3. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: ai fini dell’imposta di registro, la caparra penitenziale, che è un negozio accessorio, da cui deriva l’attribuzione del diritto di recesso a fronte della previsione di un corrispettivo per il suo esercizio, ricade nell’ambito applicativo dell’art. 28 del d.P.R. 131 del 1986, in quanto l’esercizio del diritto di recesso ha gli stessi effetti della risoluzione, sicché all’ammontare previsto quale corrispettivo del recesso si applica l’aliquota del 3% di cui all’art. 9 della parte prima della tariffa del d.P.R. n. 131 del 1986, ma solo al momento del suo eventuale esercizio e dello scioglimento del vincolo contrattuale, riconducibile alla clausola contrattuale, salva, da un lato, l’applicazione dell’aliquota dello 0,5% di cui all’art. 6 della parte prima della tariffa del d.P.R. n. 131 del 1986 in presenza di quietanze e, dall’altro lato, l’imputazione dell’imposta pagata a quella principale dovuta per la stipulazione del contratto definitivo, laddove il diritto di recesso, conferito in un contratto preliminare, non sia esercitato e la somma corrisposta a titolo di caparra penitenziale si traduca in un acconto o saldo del prezzo.

Le spese devono essere integralmente compensate, stante la novità e complessità della questione.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

dichiara integralmente compensate le spese del presente giudizio.