CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 4668 depositata il 21 febbraio 2024
canone concessorio idrico – sanzioni tributari – l’ulteriore importo del contributo unificato (c.d. doppio contributo) non trova applicazione nei giudizi di merito tributari – l’incertezza normativa oggettiva, rilevante ai fini dell’esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, implica una situazione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, che deve essere riferita all’attività giudice, quale unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere- dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 392/03/2018, depositata in data 22 febbraio 2018 e non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, confermava la sentenza n. 1275/05/2016 della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, che aveva rigettato l’impugnazione proposta dalla società F.B. s.r.l. avverso due atti di accertamento emessi dalla Regione Toscana per l’imposta regionale anno 2009 relativa alla concessione del demanio rilasciata dall’Autorità portuale di Livorno, con condanna di parte contribuente al pagamento delle spese di lite ed al doppio del contributo unificato.
1.1. La Commissione Tributaria Regionale, richiamata la normativa di riferimento, riteneva che la pretesa impositiva della regione Toscana era pienamente legittima in quanto trovava il suo presupposto nella concessione demaniale che era statale mentre alla regione Toscana e/o all’ Autorità portuale erano state solamente delegate le funzioni amministrative relative ai beni demaniali rimasti nella titolarità dello Stato.
Rilevava che, nel caso in esame, era la legge a fissare gli elementi essenziali del tributo: i soggetti passivi (i concessionari dei beni dello Stato), il presupposto dell’imposta (esistenza di un canone di concessione), la base imponibile (il canone concessorio), la aliquota da applicare (il 15% del canone statale) e gli interessi moratori, restando unicamente demandata alt’ Autorità portuale di determinare, con normativa secondaria, la base imponibile, nel rispetto del principio della riserva di legge, sulla scorta di criteri prestabiliti.
2. Avverso la suindicata sentenza la F.B. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
3. La regione Toscana resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la società contribuente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in relazione all’art. 360 primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per avere il giudice di secondo grado erroneamente ritenuto che dal rigetto dell’appello discendeva il raddoppio a suo carico del contributo unificato nel giudizio tributario di merito.
2. Con il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 legge n. 281/1970, art.1 legge reg. Toscana n.2/1971, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Ad avviso di parte ricorrente la sentenza impugnata risulta viziata per violazione e/o errata applicazione dei suindicati articoli 2 legge n.281/70 e 1 legge reg. Toscana n.2/71 che si riferiscono entrambi a concessioni “statali” mentre nel caso di specie, per quanto lo Stato permanga titolare del diritto dominicale sui beni del demanio marittimo, la concessione rilasciata dall’Autorità portuale di Livorno non potrebbe definirsi propriamente “statale”, perché lo Stato non delega all’Autorità portuale solo la gestione delle funzioni amministrative relative a detti beni, né lo Stato percepisce il canone, o parte di esso, dalle relative concessioni sui beni del demanio di cui è titolare.
Osserva che per i beni del demanio marittimo, affidati alla gestione delle Autorità portuali, contrariamente a quanto statuito nella sentenza, non vi è alcuna delega di funzioni da parte dello Stato, ma una diretta attribuzione istituzionale di competenze, funzioni e poteri avvenuta con apposita legge (legge n. 84/1994), successiva sia alla legge n. 281/1970, che ha istituito l’imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del demanio e del patrimonio, che a quella regionale n.2/1971, con cui la regione Toscana ha dato attuazione alla precedente previsione.
Evidenzia che le concessioni rilasciate dalle Autorità portuali sono, infatti, rilasciate “per competenza” e non su delega, come avviene per le regioni e gli altri enti territoriali, con il risultato che le funzioni in ambito demaniale marittimo delle Autorità portuali non sono in alcun modo comparabili con quelle delegate e svolte dalle regioni ed, anzi, si distinguono del tutto da queste.
Conclude rilevando che il tributo in questione non può e non deve trovare applicazione alle concessioni demaniali marittime rilasciate dalle Autorità portuali sia per la natura giuridica di enti pubblici non economici di dette Autorità, distinte dallo Stato, sia per il fatto che la gestione del demanio loro affidata viene svolta in piena autonomia dall’Autorità portuale che, nel perseguimento dei propri fini istituzionali (sopra richiamati e di cui all’art.6 legge n. 84/94), valuta e decide, nell’ottica di promozione dello scalo amministrato e di sviluppo dei traffici, a chi affidare in concessione le aree e le banchine del porto per lo svolgimento dei servizi e delle operazioni portuali, con il risultato che dette concessioni non possono tecnicamente qualificarsi come statali, restando così fuori dall’ambito di applicazione della norma istitutiva dell’imposta regionale che si applica, appunto, alle concessioni statali.
3. Con il terzo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 legge n. 281/1970, 2 legge reg. Toscana n.2/1971 e 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per essere stata erroneamente esclusa dal giudice di secondo grado l’esimente dell’obiettiva incertezza normativa sulla portata applicativa dell’art. 2 della legge 16 maggio 1970, n. 281, dell’art. 1 della legge reg. Toscana 30 dicembre 1971, n. 2, sulla scorta delle indicazioni risultanti dalla circolare emanata dal Ministero delle Finanze – Direzione Generale del Demanio il 27 maggio 1972, n. 365, prot. n. 20740, dalla circolare emanata dal Ministero dei Trasporti e della Navigazione – Unità di Gestione delle Infrastrutture per la Navigazione ed il Demanio Marittimo il 25 maggio 2000, prot. n. DEM2A-0909, dalla nota diramata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Direzione del Federalismo Fiscale il 19 aprile 2007, prot. n. 10389 nota diramata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze direzione del Federalismo Fiscale il 19 aprile 2007,prot. n. 10389 dalla nota diramata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Direzione del Federalismo Fiscale il 28 febbraio 2012, prot. n. 3049, e dalla circolare emanata dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – Direzione Generale per i Porti il 15 marzo 2012, n. 45, con la conseguente disapplicazione degli interessi moratori e della sanzione amministrativa.
4. Con il quarto motivo lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5 e 6, comma secondo, d.lgs. 471/1997 e 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. per essere stata omessa dal giudice di secondo grado ogni valutazione in ordine alla totale carenza dell’ elemento soggettivo della colpevolezza nell’ autore della violazione tributaria ed alla sussistenza di una situazione di totale incertezza sulla norma tributaria sulla scorta delle circolari richiamati e dalla medesima condotta della regione Toscana.
5. Il primo motivo è fondato.
5.1. La sentenza impugnata ha ritenuto l’applicabilità al processo tributario di appello dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, il quale prevede che, «quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma della comma 1-bis». Più precisamente, secondo il giudice del gravame:
«Al rigetto integrale dell’appello consegue, ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del DPR 115/2002 la declaratoria della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del contribuente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già dovuto per l’appello predetto, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13; normativa che questo collegio ritiene applicabile al processo tributario in adesione a quell’orientamento della Suprema Corte desumibile da Cass. Sez. V tributaria ord. 26652/2017, che ha applicato tale normativa a ricorso per cassazione in materia tributaria (essendo la sentenza n. 18/2018 della Corte Costituzionale una pronunzia di inammissibilità della questione di costituzionalità proposta come tale non vincolante per quanto riguarda il merito della questione medesima)».
5.2. Invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, sulla condanna al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nell’ipotesi di declaratoria di infondatezza o inammissibilità dell’impugnazione, non trova applicazione nei giudizi tributari, trattandosi, come del resto evidenziato anche dalla Corte Cast., con la pronunzia 2 febbraio 2018, n. 18) di una misura eccezionale di carattere sanzionatorio, la cui operatività deve, pertanto, essere circoscritta al processo civile (in termini: Cass., Sez. 6″-5, 11giugno 2018, n. 15111; Cass., Sez. 6″-5, 27 luglio 2018, n. 20018; Cass., Sez. 6″-5, 10 maggio 2019, n. 12594; Cass., Sez. 5″, 19 novembre 2020, n. 26313; Cass., Sez. 5″, 27 novembre 2020, n. 27131; Cass., Sez. 5″, 3 marzo 2021, n. 5757; Cass., Sez. 5″, 15 settembre 2022, n. 27243).
Sul presupposto che la statuizione relativa al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non riguardando l’oggetto del contendere tra le parti in causa, ha natura amministrativa (Cass., Sez. 6″, 11 giugno 2018, n. 15111) alcuni precedenti di questa Corte hanno, tuttavia, ritenuto che la deduzione della corrispondente questione sia inammissibile come specifica ragione di impugnazione, stante l’indifferenza della controparte del giudizio rispetto ad essa e la piena possibilità di affrontare la medesima, se del caso, attraverso la contestazione, nelle sedi proprie, della pretesa che si ritenesse indebitamente esercitata dall’amministrazione finanziaria a tale titolo (in termini: Cass., Sez. Lav., 13 novembre 2019, n. 29424; Cass., Sez. 5″, 27 novembre 2020 n. 27131).
Ferma la ritenuta inammissibilità del suddetto motivo si è, però, anche affermato che la doglianza deve essere, comunque, valutata dalla Corte, la quale, attesa la natura di carattere amministrativo della relativa statuizione (Cass., Sez. 6″-Lav., 9 novembre 2017, n. 2017), che non attiene alla sfera della decisione sullo ius litigatoris, riguardando il rapporto del contribuente con l’erario relativamente alle condizioni per l’accesso alla giustizia, è tenuta, comunque, a rilevare anche d’ufficio l’erroneità della suddetta statuizione (Cass., Sez. 6″- 5, 11 giugno 2018, n. 15111; Cass., Sez. 5″, 27 novembre 2020, n. 27131).
Il Collegio ritiene, per contro, di dare continuità in questa sede ad un più recente arresto della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 5″, 3 marzo 2021, n. 5757), il quale – sul fondamento delle medesime conclusioni in punto di diritto – ha, per contro, accolto il motivo di ricorso ed ha cassato in parte qua la sentenza impugnata sull’implicito presupposto che la natura amministrativa dell’erronea statuizione sul raddoppio del contributo unificato nel giudizio tributario di merito non escludesse l’interesse della parte pregiudicata ad ottenerne la rimozione in sede giudiziaria attraverso l’esperimento degli ordinari mezzi di impugnazione (appello o cassazione). Per cui, la rilevabilità d’ufficio dell’errore in cui il giudice di grado inferiore è incorso non preclude alla parte gravata dall’onere del raddoppio del contributo unificato di adire nelle forme di rito il giudice di grado superiore per caducare la ingiusta statuizione, non essendovi altro rimedio per sollecitare l’esercizio di tale potere soprattutto quando nessuna delle parti impugni il provvedimento adottato per errores in iudicando o in procedendo. D’altra parte, appare illogico da un lato rilevare “inammissibilità” del motivo di appello o di cassazione, disponendosi “ufficio” l’annullamento del raddoppio del contributo unificato, laddove la parte gravata ha manifestato la chiara ed inequivoca volontà di ottenere la riforma della sentenza impugnata (solo o anche) in relazione a tale statuizione.
Si è, condivisibilmente precisato, (vedi Cass., Sez. T., n. 13289/2023) che “A maggior ragione, poi, la dicotomia tra natura giudiziaria del provvedimento (negato) e natura amministrativa del provvedimento (reso) sull’istanza della parte onerata perde ogni ragion d’essere nell’ambito dei procedimenti dinanzi alla giurisdizione tributaria, alla quale è riservata la cognizione sulle controversie in tema di contributo unificato (art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). Difatti, è orientamento consolidato di questa Corte che l’ulteriore importo del contributo unificato (c.d. doppio contributo) che la parte impugnante è obbligata a versare allorquando ricorrano i presupposti di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ha natura di debito tributario, in quanto partecipa della natura del contributo unificato iniziale ed è volto a ristorare l’amministrazione della giustizia dei costi sopportati per la trattazione della controversia; ne consegue che la questione circa la sua debenza è estranea alla cognizione della giurisdizione civile ordinaria, spettando invece alla giurisdizione del giudice tributario (Cass., Sez. Un., 5 maggio 2011, n. 9840; Cass., Sez. Un., 17 aprile 2012, n. 5994; Cass., Sez. Un., 20 febbraio 2020, n. 4315)”.
Il suddetto motivo deve essere, quindi, accolto non apparendo decisivo in senso difforme quanto sostenuto dal precedente (Cass. 9628/2023) richiamato dal P.G. della Cassazione che, peraltro, attiene a controversia di natura non tributaria.
6. Il secondo motivo è, per contro, privo di fondamento.
6.1. Occorre, in primo luogo, richiamare la normativa di riferimento: In base alla legge n. 281 del 1970, art. 2: “1. L’imposta sulle concessioni statali si applica alle concessioni per l’occupazione e l’uso di beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato siti nel territorio della Regione, ad eccezione delle concessioni per le grandi derivazioni di acque pubbliche. 2. Le Regioni determinano l’ammontare dell’imposta in misura non superiore al triplo del canone di concessione. 3. L’imposta è dovuta dal concessionario, contestualmente e con le medesime modalità del canone di concessione ed è riscossa, per conto delle Regioni, dagli uffici competenti alla riscossione del canone stesso”.
La legge reg. Toscana n. 2 del 1971, art. 1, comma 1, ha introdotto in tale regione, conformemente a quanto così stabilito, “l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato, situati nell’ambito territoriale della Regione”. Questa disposizione, comma 2, lett. c), commisurava l’imposta regionale “relativamente alle concessioni di beni del demanio marittimo, al 25% (nel periodo in esame 15%) del canone statale di concessione e del canone assunto a base di calcolo degli indennizzi di cui al d.l. 5 ottobre 1993, n. 400, art. 8 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 dicembre 1993, n. 494”.
L’art. 01 del d.l. n. 400/1993, conv. dalla legge n. 494/1993, ha previsto, alla lett. d) tra le concessioni demaniali marittime, in relazione all’oggetto, quelle per attività di gestione di strutture ricettive ed attività ricreative e sportive. La successiva norma d’interpretazione autentica di cui all’art. 13 della legge 8 luglio 2003, n. 172 ne fa, per un verso espresso riferimento, stabilendo, per altro, con l’aggiunta di un ulteriore periodo al comma 2 del citato art. 01, che le disposizioni di detto comma, che attengono esclusivamente alla durata delle concessioni, indipendentemente dalla natura, non si applicano alle concessioni rilasciate nell’ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84. L’art. 03 del succitato d.l. n. 400/1993, ha poi stabilito i criteri direttivi per la determinazione dei canoni annui per concessioni con finalità turistico – ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei, per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo, stabilendo gli importi a mq. in ragione delle diverse categorie di beni (trn cui gli specchi acquei) ivi previste e della diversa natura degli impianti funzionali all’occupazione. L’art. 7 del decreto medesimo al primo comma ha previsto che gli enti portuali (Autorità portuali, ai sensi della citata legge n. 84/1994) possano adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel decreto, “che comunque non comportino l’applicazione di canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall’applicazione del decreto stesso”. L’art. 8, comma 1, del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68, ha quindi previsto che, “Ferma la facoltà per le regioni di sopprimerli, a decorrere dal 10 gennaio 2013 sono trasformati in tributi propri” oltre agli altri tributi indicati dalla norma, “l’imposta regionale sulle concessioni statali dei beni del demanio marittimo, l’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso dei beni del patrimonio indisponibile”.
Successivamente la legge reg. Toscana n. 77 del 2012, art. 11, ha eliminato il tributo nei seguenti termini: “Alla L.R. 30 dicembre 1971, n. 2, art. 1, comma 2, (Istituzione dei tributi propri della Regione), dopo le parole: “acque pubbliche” sono inserite le seguenti:
“L’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso dei beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato istituita ai sensi della L. n. 281 del 1970, art. 2, non si applica, a decorrere dal periodo d’imposta 2013, alle concessioni rilasciate dall’Autorità portuale di Piombino di cui al D.P.R. 20 marzo 1996 (Istituzione dell’autorità portuale nel porto di Piombino), art. 1 e dalle Autorità portuali di Livorno e Marina di Carrara di cui alla L. 28 gennaio 1994, n. 84, art. 6 (Riordino della legislazione in materia portuale)”.
6.2. Ciò premesso, la questione del rapporto intercorrente tra il tributo regionale sul canone concessorio e la natura della concessione incisa è già stata più volte affrontata – sul piano tanto soggettivo quanto oggettivo – da questa Corte di legittimità (vedi, in particolare, ex plurimis, Cass. n. 6714/2020; Cass. nn. 12293,12294,12295 e 12296 del 2021; nonché Cass nn. 11518, 11536 e 11550 del 2023) la quale è, sul punto, pervenuta a conclusioni univoche e pienamente confacenti anche al caso di specie (concessione demaniale marittima di terminal portuale).
In sintesi è stato statuito che:
– l ‘eliminazione del tributo da parte della legge reg. Toscana n. 77 del 2012 cit., art. 11, comma 1, non ha effetto retroattivo, ma opera (come del resto testualmente previsto) solo a decorrere dall’annualità 2013, risultando pertanto ininfluente ai fini della presente causa, in quanto relativa ad annualità pregressa nella quale l’imposta era ancora vigente (Cass. n. 6061/17); questa eliminazione costituisce il frutto di una scelta puramente discrezionale del legislatore regionale (consentitagli dall’ordinamento nazionale) nell’ambito della manovra di bilancio (legge finanziaria regionale per l’anno 2013) incidente su tributi propri, sicché non può ad essa attribuirsi alcun significato o efficacia di “sostanziale riconoscimento dell’infondatezza della pretesa impositiva” riferita ad annualità pregresse (Cass. n. 6061/17 cit.);
– l’attribuzione alle Regioni, su delega da parte dello Stato, di funzioni in materia di rilascio delle concessioni e la devoluzione ad esse dei relativi canoni, non è di per sé idonea a far venire meno il presupposto dell’imposta in esame, individuato dal combinato disposto della legge n. 281 del 1970 e art. 2 legge reg. Toscana n. 2 del 1971, art. 1, “nella titolarità di una concessione statale su un bene, per l’occupazione e l’uso di beni del demanio e del patrimonio indisponibile dello Stato”, ciò perché tale presupposto va individuato non nell’esistenza di una concessione rilasciata dallo Stato bensì nel fatto oggettivo dell’occupazione e dell’uso assentiti dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile, indipendentemente dall’Autorità cui competa per legge il rilascio della relativa concessione (così Cass. n. 11655/15, in tema di concessione per lo sfruttamento di risorse geotermiche di cui al d.lgs. n. 112 del 1998, ex art. 34, comma 1, ma sulla base di un principio sistematico e di portata generale);
– la conformità del tributo alla riserva (relativa) di legge ex art. 23 Cost. deve ritenersi assicurata dal fatto che gli elementi costitutivi del tributo in questione sono fissati per legge statale, nel senso che la legge n. 281 del 1970, all’ art. 2, Individua li presupposto impositivo (come appena descritto), i soggetti passivi d’imposta (concessionari di beni del demanio e del patrimonio indisponibile) e la base imponibile (costituita dallo stesso canone di concessione), ed in ambito regionale, la cit. legge n. 2/1971 (art. 1, comma 3) prevede che l’imposta sia appunto commisurata ad una prestabilita percentuale (aliquota) del canone di concessione statale; per quanto specificamente concerne le concessioni demaniali marittime, la disciplina nazionale (d.l. n. 400 del 1993 conv. in legge n. 494 del 1993) detta altresì i criteri per la determinazione dei canoni (cioè della base imponibile), stabilendo per quanto qui rileva che (art. 7) “1. Gli enti portuali potranno adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel presente decreto, che comunque non comportino l’applicazione di canoni inferiori rispetto a quelli che deriverebbero dall’applicazione del decreto stesso” (Cass. orci. nn. 21136 – 21137 – 21138/2016 aventi riguardo a concessione di beni del demanio marittimo, da parte dell’Autorità Portuale, a favore di circoli nautici della Toscana);
– vale, sulla tematica in esame, quanto già osservato sia da Cass. SS.UU. n. 18262/04 circa il fatto che: “L’art. 23 Cost., contenente una riserva relativa di legge, vieta che le prestazioni personali o patrimoniali siano imposte direttamente da una fonte secondaria, ma non esclude che il precetto legislativo possa essere da detta fonte integrato, essendo anche ammissibile il rinvio a provvedimenti amministrativi diretti a determinare elementi o presupposti della prestazione, purché risultino assicurate, mediante la previsione di adeguati parametri, le garanzie in grado di escludere un uso arbitrario della discrezionalità amministrativa“, sia dalla Corte Costituzionale (con giurisprudenza costante: sent. nn. 343/95, 150/03, 286/04) in ordine al fatto che la potestà di imposizione e riscossione del canone demaniale segue la titolarità dominicale del bene, e non quella delle funzioni legislative o amministrative di altri enti (quali le stesse Autorità portuali) che si concretano nell’esercizio del potere concessorio, o autorizzatorio, circa l’utilizzazione del bene stesso.
6.3. Ad avviso di questo Collegio la Commissione Tributaria Regionale, nel ritenere legittima detta tassazione, ha fatto, nella sostanza, corretta applicazione dei richiamati principi.
6.4. Va osservato che le deduzioni di parte ricorrente non colgono in alcun modo nel segno, dovendosi precisare che i richiamati principi fissati dall’ assai risalente Cass. n. 10097/2001 risultano superati sulla scorta della successiva giurisprudenza consolidatasi in materia.
6.5. Le considerazioni di parte ricorrente, in generale, non sono condivisibili, basandosi su elementi e peculiarità che non sono in grado di incidere sull’assetto della materia così come sopra delineato. Si tratta, infatti, di argomentazioni che valorizzano, in asserita funzione discriminante, la particolare finalità delle concessioni in esame e le particolari modalità di autonoma determinazione dei canoni (peraltro, come anticipato, anch’esse radicate nella previsione di legge), senza però minimamente incrinare gli indicati fattori di legittimità del tributo che afferiscono ai profili della fruizione del bene demaniale marittimo da parte del privato (quale presupposto d’imposta) ed alla previsione legale degli elementi costitutivi della imposizione. Come si è detto, si tratta di profili incentrati in maniera univoca sulla fruizione del bene pubblico, indipendentemente dall’autorità investita della potestà normativa o amministrativa in materia, così come dalla maggiore o minore autonomia (rispetto alla legge) nella determinazione dei canoni, sicché non può fondatamente affermarsi che l’imposta non sia dovuta solo perché afferente ad una conn ssione demaniale marittima asseritamente “diversa” dalle altre, là dove tale “asserita” diversità non pare in alcun modo ravvisabile ai fini strettamente impositivi.
6.6. Occorre, in proposito, dare continuità a quanto statuito dalla Corte di Cassazione con l’ ordinanza n. 5741/2021 – in identica controversia vertente fra le medesime parti relativamente alle annualità 2010 e 2011 – secondo cui “Dall’esame del quadro normativo sopra riportato è evidente che, con riferimento alle annualità oggetto dell’avviso di accertamento, il tributo in questione, fissato in sede di normativa primaria, nei sui presupposti impositivi, soggetti passivi, base imponibile, aliquota e sanzioni, trova piena applicazione anche alle concessioni per l’occupazione e l’uso di beni del demanio restando unicamente demandata alla facoltà dell’Autorità portuale di determinare, con normativa secondaria, l’ammontare della base imponibile, nel rispetto del principio della riserva di legge, relativa, posta dall’art. 23 Cost., sulla base di criteri predeterminati (Cass. S.U. n. 18262/2004; 21136/2016 e 6061/2017). Va, quindi, ribadito il principio di diritto affermato da questa Corte secondo il quale «ai sensi della L. 16 maggio 1970, n. 281, art. 2, comma 1, nonchè ai sensi della L.R. Toscana 30 dicembre 1971, n. 2, art. 1, comma 1, presupposto dell’imposta regionale sulle concessioni statali per l’occupazione e l’uso di beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato inclusi nel territorio della Regione, sono l’occupazione e l’uso assentiti dagli stessi, indipendentemente dall’Autorità cui compete il rilascio della concessione, e non, invece, l’esistenza di una concessione rilasciata dallo Stato>>(C:ass. n 11655/2015; 11652/2015 e più recentemente Cass.nr. 6714/2020)”.
6.7. Appare, pure, opportuno richiamare quanto condivisibilmente affermato da Cass. 12296/2021 che in analoga fattispecie, nel premettere che sul piano della soggettività impositiva, la natura regionale del tributo non confligge con la natura statuale della concessione, a sua volta derivante dal diritto dominicale esercitato dallo Stato sui beni del demanio marittimo concessi in uso dalla autorità portuale (il che integra, come detto, il presupposto dell’imposta) e che sul piano della determinazione obiettiva gli elementi costitutivi dell’imposizione discendono da criteri di legge, ferma restando la ricorribilità in sede giurisdizionale di quei canoni concessori che l’autorità portuale abbia in ipotesi fissato in violazione di tali criteri e, più in generale, dei parametri di proporzionalità e ragionevolezza, nel superare le stesse censure in questa sede dedotte ha testualmente evidenziato come: «….. La società contribuente assume che questi principi (elaborati con riguardo a diverse fattispecie) non varrebbero per la specificità delle concessioni demaniali marittime aventi ad oggetto, ex art.36 codice della navigazione, non già le attività turistico-ricreative, di traffico passeggeri, cantieristiche e commerciali, ma proprio l’uso di banchina e terminal. Ciò perché, da un lato, i canoni per queste ultime concessioni verrebbero stabiliti autonomamente dalle autorità portuali senza prefissazione di parametri generali desumibili dalla legge e perché, dall’altro, essi risponderebbero a finalità del tutto peculiari, in quanto afferenti alla realizzazione di linee e programmi di sviluppo e promozione delle strutture portuali elaborate dalle stesse autorità portuali; tanto che le relative concessioni possono essere rilasciate solo a favore di società terminaliste che presentino determinati requisiti tecnico-professionali ed organizzativi, e sempre in vista di quella realizzazione (la cui mancanza può determinare la revoca stessa del titolo concesso rio). Questo argomentare non convince, dal momento che esso si basa su elementi e peculiarità che non sono in grado di incidere sull’assetto della materia così come sopra delineato. Si tratta infatti di argomenti che valorizzano, in asserita funzione discriminante, la particolare finalità delle concessioni in esame e le particolari modalità di autonoma determinazione dei canoni (peraltro, come visto, anch’esse radicate nella previsione di legge), senza però minimamente attingere o porre in discussione gli indicati fattori di legittimità del tributo, concernenti i – tutt’affatto diversi – profili della fruizione del bene demaniale marittimo da parte del privato (quale presupposto d’imposta) e della previsione legale degli elementi costitutivi della imposizione. Come detto, si tratta di profili incentrati in maniera esaustiva sul godimento del bene pubblico, indipendentemente dall’autorità investita della potestà normativa o amministrativa in materia, così come dalla maggiore o minore autonomia (rispetto alla legge) nella determinazione dei canoni. Sicché non può fondatamente affermarsi che l’imposta non sia dovuta sol perché afferente ad una concessione demaniale marittima asseritamente ‘diversa’ dalle altre, là dove tale diversità opererebbe su piani (sostanzialmente riconducibili, appunto, agli obiettivi della concessione ed ai criteri di determinazione dei canoni) del tutto estranei alla fattispecie impositiva. E neppure potrebbe tralasciarsi di considerare come tali piani non siano, del resto, neppure in grado di snaturare e rendere avulse le concessioni in questione rispetto al regime generale loro proprio, non essendo in discussione che quelle finalità organizzative e promozionali della struttura portuale non siano comunque in grado di far venir meno la precipua e preminente finalizzazione concessoria all’uso ed all’occupazione del bene demaniale marittimo per lo svolgimento di attività imprenditoriale, assunta essa stessa dal legislatore ad indice di capacità contributiva ex art.53 Cost. Ricorre, anche in proposito, il costante orientamento di legittimità (tra le altre: Cass.n. 23067/19; 10674/19; 8536/19) riferito al regime giuridico di classamento catastale delle strutture portuali vigente anteriormente all’introduzione dell’art, 1, co. 578, l. 205/17, secondo cui la funzione imprenditoriale e concorrenziale esercitata dalle società portuali terminaliste operanti in regime di concessione demaniale assume rilievo preminente ai fini del suddetto classamento e della correlativa imponibilità lei delle aree, pur in presenza di un indubbio interesse pubblico allo svolgimento di tale funzione ed all’incremento e miglioramento dei servizi portuali connessi».
7. Invertendo l’ordine di prospettazione in ricorso, ragioni di pregiudizialità logico-giuridica suggeriscono di scrutinare in via prioritaria il quarto motivo rispetto al terzo motivo.
7.1. Ciò detto, il quarto motivo deve essere disatteso. Difatti, la sentenza impugnata ha espressamente affrontato la questione della maggiorazione degli interessi moratori e della sanzione amministrativa, ritenendo che le circolari richiamate dal contribuente non erano per loro natura idonee a modificare l’assetto normativo in materia e comunque, a fondare le tesi di parte contribuente; ne discende che non si può ravvisare alcuna omissione di pronunzia da parte del giudice di appello.
7.2. Viceversa, il terzo motivo può trovare accoglimento.
7.3. Il tema in questione è stato affrontato da numerose pronunce di questa Corte (cfr. Cass., Sez. 5″, 10 maggio 2021, nn. 12293; Cass., Sez. V, 10 giugno 2021, n. 16279; Cass., Sez. V., 30 giugno 2021, n. 16275 e da ultimo, tra le altre, Cass., Sez. T, 3 maggio 2023, n. 11518) e risolto in senso favorevole alle tesi della società contribuente, per cui in linea con quanto già ivi osservato, vanno qui ribadite le seguenti considerazioni.
7.4. L’art. 6, comma 2, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, prevede che: «Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento».
Nel medesimo senso si esprime l’art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 («La commissione tributaria dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce»).
L’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, stabilisce, poi, che: <<1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede. 2. Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa. 3. Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto».
7.5. Questa Corte ha ritenuto che, alla luce di tali disposizioni, l’incertezza normativa oggettiva, rilevante ai fini dell’esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, implica una situazione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, che deve essere riferita all’attività giudice, quale unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere- dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (tra le tante: Cass., Sez. T, 3 maggio 2023, n. 11518, che richiama Cass., Sez. 6, 11 febbraio 2013, n. 3254; Cass., Sez. 5A, 22 febbraio 2013, n. 4522; Cass., Sez. 5, 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., Sez. 5A, 4 maggio 2018, n. 10662; Cass., Sez. 5, 1 febbraio 2019, n. 3108; Cass., Sez. 6, 9 dicembre 2019, n. 32082; Cass., Sez. 5, 20 luglio 2021, nn. 20670, 20671, 20672 e 20673; Cass., Sez. 5, 17 febbraio 2022, nn. 5162, 5164, 5165, 5166 e 5167; Cass., Sez. 6-5, 22 febbraio 2023, n. 5530).
La Suprema Corte ha chiarito che in tema di sanzioni amministrative tributarie, l’incertezza normativa oggettiva – che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole del diritto, come si evince dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997 – è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio: 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8)il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente. (Sez. 5 – , Ordinanza n. 15452 del 13/06/2018, Rv. 649184 – 01) (vedi anche Cass., Sez. 5, 18 gennaio 2021, n. 1893 nonchè da ultimo: Cass., Sez. T, 3 maggio 2023, b, 15118, che richiama Cass., Sez. 5, 13 giugno 2018, n. 15452)
È stato, ancora, osservato che il legittimo affidamento del contribuente di fronte all’azione dell’amministrazione finanziaria, ai sensi dell’art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, costituisce situazione tutelabile se sia caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza dell’attività dell’amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono.
Si è, poi, avuto modo di precisare che la presenza di circolari amministrative ingeneranti un’interpretazione erronea della disciplina tributaria – ancorché non vincolanti, né esimenti dal pagamento del dovuto – può tuttavia incidere sull’affidamento del contribuente, così da giustificare la non debenza delle sanzioni amministrative e degli interessi moratori (così Cass., Sez. T, 3 maggio 2023, n, 11518 più volte cit. che richiama Cass., Sez. 5, 25 marzo 2015, n. 5934; Cass., Sez. 5, 18 maggio 2016, n. 10195; Cass., Sez. 5, 11 luglio 2019, n. 18618; Cass., Sez. 5, 30 settembre 2020, n. 20819).
7.6. Tanto ricostruito sul piano dei principi generali in materia, nel caso di specie ricorrono almeno tre convergenti evenienze che giustificano l’eliminazione degli accessori per sanzioni amministrative ed interessi moratori ai sensi del richiamato art. 10 della legge 31 dicembre 2000, n. 212. Queste evenienze vanno così individuate (Cass., Sez. 5, 3 maggio 2023, nn. 11518, 11536 e 11550): – l’effettiva emanazione negli anni di circolari e risoluzioni evidenzianti il dubbio interpretativo ed apparentemente legittimanti il mancato pagamento del tributo regionale qualora ricollegato a canoni concessori stabiliti in via contrattuale e non sulla base dei criteri di legge generali ed astratti, come nel caso delle concessioni in oggetto (quali specificamente richiamate nella formulazione del motivo); ancorché gli enti emananti queste fonti interpretative siano diversi dall’ente impositore (Regione), rileva tuttavia che la tipicità del caso è data proprio dalla già richiamata complessità del tributo in questione e del suo presupposto costitutivo, certamente riferibile anche, ed in massima parte, proprio all’amministrazione finanziaria centrale che tali indicazioni ha fornito (proprietà demaniale statale del bene in concessione; regime generale delle concessioni su aree portuali; legislazione statale istitutiva); – il dato oggettivo della mancata richiesta di pagamento dell’imposta, da parte della Regione Toscana, per moltissimi anni (fino al 2011) dalla sua introduzione con la legge reg. Toscana 30 dicembre 1971, n. 2, mancata richiesta alla quale avrebbe fatto seguito, già nel 2012, senz’altro l’eliminazione del tributo per l’area portuale qui dedotta (pur non comportante, come già evidenziato, alcun riconoscimento di infondatezza della pretesa da parte dell’amministrazione regionale); la particolare situazione (certamente rilevante perché incidente sulla base imponibile del tributo e sulla sua esigibilità) nella quale venne a trovarsi la ricorrente nella annualità in questione, allorquando la concessione non era stata ancora rilasciata, protraendosi per anni in regime provvisorio e senza la determinazione dell’esatto canone dovuto fino a compimento di quella annualità, oltre che per le annualità successive; determinazione che sarebbe poi intervenuta, con effetto retroattivo, soltanto con il rilascio della concessione il 17 marzo 2009.
È, dunque, evidente come l’esclusione degli accessori in esame non derivi da uno scostamento degli indirizzi di legittimità già dettati in materia, ma anzi proprio dalla loro applicazione nel concorso di fattori del tutto peculiari alla fattispecie.
8. In conclusione, valutandosi la fondatezza del primo e del terzo motivo, nonché l’infondatezza del secondo e del quarto motivo, il ricorso può trovare accoglimento entro tali limiti e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti; non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ., con l’accoglimento del ricorso originario della contribuente nei limiti degli interessi moratori e della sanzione amministrativa, che non risultano dovuti e revoca la statuizione relativa alla dichiarata sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato dovuto per l’appello.
9. Il consolidamento in corso di causa della giurisprudenza di legittimità sulla principale questione controversa giustifica la compensazione di tutte le spese processuali.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso; rigetta il secondo ed il quarto motivo; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso originario della contribuente nei limiti degli interessi moratori e della sanzione amministrativa che dichiara non dovuti e revoca la statuizione relativa alla dichiarata sussistenza dei presupposti per il raddoppio