Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 15597 depositata il 18 settembre 2020

interessi moratori – usura – tasso soglia

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza del 30 luglio 2014, la Corte d’appello di Genova ha respinto le impugnazioni, principale ed incidentale, avverso la decisione del Tribunale della stessa città in data 12 giugno 2008, la quale aveva revocato il decreto ingiuntivo di € 18.500,94, oltre interessi al tasso del 17,57% annuo, emesso su istanza della BANCA contro CLIENTE a titolo di rate insolute, capitale residuo, interessi moratori e penale, relativi ad un finanziamento concesso con contratto di credito al consumo stipulato il 23 aprile 2002, ed aveva condannato quest’ultima al pagamento della minor somma di € 12.294,01.

La corte territoriale, per quanto ancora rileva:

a) ha ritenuto ammissibile l’intervento spiegato in appello dalla BANCA, osservando come i mutamenti susseguitisi nella titolarità del credito non avessero determinato nessuna compressione del diritto di difesa dell’appellata o limitazione alla pienezza del contraddittorio, ed escludendo il carattere vessatorio della clausola contrattuale che autorizzava la cessione dei diritti derivanti dal contratto;

b) ha condiviso il giudizio di primo grado, con riguardo al fatto che il carattere oneroso del mutuo escluda l’applicabilità dell’istituto della decadenza del termine, di cui all’art. 1186 cod. civ., norma in cui il termine deve essere stato fissato a favore del debitore, ritenendo, dunque, che alla comunicazione della decadenza dal beneficio del termine sia stato correttamente attribuito dal tribunale un effetto risolutivo, anch’esso espressamente previsto dal contratto, né avente portata alternativa rispetto alla suddetta decadenza;

c) ha condiviso anche il giudizio sul carattere vessatorio delle clausole contenute negli artt. 4 ed 8 delle condizioni generali di contratto, le quali impongono al debitore inadempiente l’immediato pagamento di tutte le rate scadute ed a scadere, comprensive d’interessi, nonché dell’ulteriore interesse di mora al tasso dell’1,5% mensile (18% annuo), della penale pari al 30% degli importi insoluti e di un’ulteriore penale di € 250,00, e le ha ritenute inefficaci, ai sensi dell’art. 1469-bís cod. civ., non avendo la società creditrice fornito la prova ex art. 1469-ter, u.c., cod. civ., relativa alla negoziazione delle clausole stesse, onde la debitrice è tenuta al pagamento della sola sorte capitale residua, individuata alla data dell’ultimo pagamento risalente al mese di ottobre 2003;

d) ha confermato, altresì, l’applicabilità della legge 7 marzo 1996, n. 108, agli interessi moratori, in virtù del fatto che il d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, nel fornire l’interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815, comma 2, cod. civ., fa riferimento agli interessi convenuti
«a qualunque titolo» ed il criterio di cui all’art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996 è applicabile anche per l’accertamento del carattere usurario degli interessi moratori pattuiti anteriormente all’entrata in vigore del d.m. 25 marzo 2003, che ha provveduto per la prima volta alla rilevazione del tasso di mora, sicché, venendo in rilievo, nella fattispecie concreta, un interesse di mora del 18% annuo (superiore al cd. tasso soglia), la relativa clausola è nulla, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, cod. civ., non rilevando il tasso in concreto applicato, pari al 17,57% annuo, in quanto, da un lato, esso deriva da una clausola comunque nulla, e, dall’altro lato, si tratta di una clausola vessatoria.

2.- Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi ed illustrato da memoria, la BANCA. L’intimata ha resistito con controricorso, parimenti depositando la memoria.

3. – Con ordinanza interlocutoria del 22 ottobre 2019, n. 26946, la prima Sezione ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, sulla questione, sollevata fra le altre nel ricorso, relativa all’applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori ed alle conseguenze dell’avvenuto superamento del tasso soglia.

Con provvedimento del 24 ottobre 2019 è stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’INTERVENUTA nel processo di appello, quale cessionaria del credito. L’integrazione è stata eseguita con atto notificato alla suddetta il 23 dicembre 2019. L’atto è stato notificato “per quanto d’occorrenza” anche alla cessionaria di ramo d’azienda in data 1° luglio 2018, pur dandosi atto che la retrocessione del credito de quo è anteriore a detto trasferimento.
4. – La causa è, in tal modo, pervenuta alle Sezioni unite.
La ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi. Il ricorso propone dieci motivi d’impugnazione, che possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., avendo la sentenza impugnata – confermata la riqualificazione della decadenza dal beneficio del termine come risoluzione del contratto e reputata non dovuta la quota d’interessi compresa nelle rate insolute – omesso di pronunciare in ordine al motivo d’impugnazione, con cui era stata contestata l’efficacia retroattiva della risoluzione, affermata dalla sentenza di primo grado, posto che, nei contratti di durata quale il mutuo, la risoluzione non opera retroattivamente e non travolge le rate già scadute, le quali devono, pertanto, essere pagate per intero, ivi compresa la quota di interessi in esse inclusa;

2) violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, 156 cod. proc. civ. e art. 118 disp. att. cod. proc. civ., ove il vizio dedotto nel precedente motivo sia meglio così individuabile, in quanto la sentenza impugnata, nell’escludere l’obbligo di pagare per intero le rate scadute in conseguenza della risoluzione del contratto, non ha motivato affatto, avendo accennato alla questione unicamente nella parte in cui ha riconosciuto l’obbligo di corrispondere il solo capitale residuo alla data dell’ultimo pagamento;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 1458 cod. civ., ove si reputi che la decorrenza della risoluzione ex tunc sia stata implicitamente affermata, posto che allora la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con la predetta disposizione, non avendo considerato che il contratto di finanziamento con rimborso rateale è riconducibile al genus del mutuo, configurandosi pertanto come un contratto di durata, con la conseguenza che le rate scadute e non pagate alla data della risoluzione non restano travolte, ma vanno corrisposte nella loro interezza, ivi compresa la quota d’interessi corrispettivi inclusa nelle stesse;

4) violazione o falsa applicazione degli artt. 1815 cod. civ., 644 cod. pen., 2 l. 7 marzo 1996, n. 108, 1 d.l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito dalla l. 28 febbraio 2001, n. 24, e del d.m. 22 marzo 2002, avendo la sentenza impugnata esteso agli interessi moratori l’applicabilità della disciplina antiusura: al contrario, essi hanno pacificamente la funzione di risarcire il danno derivante dal ritardo nell’adempimento, sono funzionali all’ordine pubblico economico ed hanno il ruolo di deterrente rispetto all’inadempimento, trovando la loro disciplina nell’art. 1224 cod. civ., il quale non è stato modificato dalla normativa antiusura e dispone che essi siano comunque dovuti nella misura legale, ma possano anche essere determinati dalle parti, con pattuizione riconducibile alla clausola penale, quindi suscettibile di riduzione ai sensi dell’art. 1384 cod. civ.; invece, sia l’art. 1815 cod. civ., sia l’art. 644 cod. pen. hanno ad oggetto i soli interessi promessi in corrispettivo, con disciplina che non è stata modificata dal d.l. n. 394 del 2000, convertito dalla l. n. 24 del 2001, il quale, nel dichiarare usurari gli interessi dovuti a qualunque titolo se convenuti in misura superiore al tasso soglia, non ha mutato l’ambito applicativo degli artt. 1815 cod. civ. e 644 cod. pen., avendo natura meramente interpretativa; il contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità trae origine da un obiter dictum contenuto nella sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 2002, non avente carattere vincolante, in quanto riguardante esclusivamente l’ammissibilità della questione dalla stessa esaminata; osserva, inoltre, che solo a seguito della predetta pronuncia ha avuto inizio la rilevazione dei tassi medi degli interessi moratori, la quale, come precisato dal d.m. 25 marzo 2003, è stata effettuata a fini meramente conoscitivi, e si è comunque arrestata al 2002; in definitiva, la pattuizione di interessi moratori in misura superiore al tasso soglia non comporta la nullità della relativa clausola e l’esclusione dell’obbligo di corrispondere qualsiasi interesse, ma solo l’inefficacia di essa, ai sensi degli artt. 1469-bis e 1469-quinquies cod. civ., o la possibilità di chiedere la riduzione, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ.;

5) in via subordinata, violazione o la falsa applicazione degli artt. 14 disp. prel. cod. civ., 2 della legge n. 108 del 1996 e del d.m. 22 marzo 2002, avendo la sentenza impugnata, nel ritenere applicabile la disciplina antiusura, omesso di rilevare che il contratto di finanziamento posto a fondamento della domanda è stato stipulato nel 2002, in epoca anteriore all’emanazione del d.m. 25 marzo 2003, che per primo ha proceduto alla rilevazione del tasso medio degli interessi moratori; essa non ha considerato che l’art. 1815 cod. civ. e l’art. 644 cod pen. hanno natura di norme in bianco, demandando la determinazione del tasso soglia ad altre disposizioni, e segnatamente ai decreti ministeriali previsti dall’art. 2 della legge n. 108 del 1996, che non si applicano agli interessi pattuiti in epoca anteriore alla loro emanazione, poiché la disciplina antiusura non ha efficacia retroattiva;

6) violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, 156 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., avendo la sentenza impugnata ritenuto che gli interessi richiesti sulla somma dovuta nella misura del 17,57% siano superiori ad un ipotetico tasso soglia riferito agli interessi moratori, senza affatto spiegarne le ragioni;

7) violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ove il vizio appena esposto integri, invece, omessa pronuncia;

8) violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 4, 156 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., perché, nel ritenere d’ufficio l’inefficacia degli interessi, in quanto oggetto di una ravvisata clausola vessatoria, ha omesso del tutto di motivare al riguardo; del pari, nulla ha argomentato circa la diminuzione dei medesimi, operata dalla stessa banca, alla misura del 17,57%, in linea con il tasso corrispettivo all’epoca consentito dal d.m. 22 marzo 2002; né, infine, ha esposto alcunché in ordine all’eventuale applicabilità degli interessi legali; nemmeno la corte territoriale, nel confermare il carattere vessatorio della clausola contrattuale che stabilisce il tasso degli interessi moratori, in virtù della mancata dimostrazione che la stessa costituisca il frutto di una specifica trattativa, ha considerato che essa ricorrente non aveva l’onere di proporre impugnazione al riguardo, dal momento che la sentenza di primo grado aveva ritenuto assorbita la questione, in conseguenza della dichiarazione di nullità della clausola per effetto del superamento del tasso soglia;

9) violazione dell’art. 101 cod. proc. civ., perché, nel dichiarare l’inefficacia della clausola che stabiliva il tasso degli interessi moratori, in quanto vessatoria, la corte territoriale ha rilevato d’ufficio la relativa questione, non riproposta da controparte con l’atto di appello, omettendo d’invitare le parti a dedurre sul punto e di assegnare alle stesse un termine per il deposito di memorie;

10) violazione o falsa applicazione degli artt. 1224, primo comma, 1469-bis, terzo comma, n. 6, 1469-quinquies e 1815, secondo comma, cod. civ., posto che, a seguito dell’accertamento del carattere vessatorio della clausola che stabiliva il tasso degli interessi moratori, la sentenza impugnata non si è limitata a dichiararne l’inefficacia, donde la conseguente applicazione del tasso degli interessi corrispettivi stabilito nel contratto, ma ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’art. 1815, secondo comma, cod. civ.

2. – Ammissibilità della produzione documentale di parte ricorrente. Come già rilevato dalla ordinanza interlocutoria, non ha pregio l’eccezione d’inammissibilità della documentazione depositata unitamente al ricorso, per contrasto con l’art. 372 cod. proc. civ., trattandosi di documenti atti a comprovare la retrocessione del credito azionato in giudizio (Cass. 21 giugno 2017, n. 15414; Cass. 11 dicembre 2013, n. 27762) e delle istruzioni della Banca d’Italia per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai fini della legge sull’usura, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale del 23 agosto 2001 (le quali, sebbene meri atti amministrativi, sono depositate ai fini del rilievo della mancata indicazione degli interessi moratori).

Gli stessi argomenti possono estendersi alla documentazione prodotta dalla ricorrente in una con l’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti di OMISSIS richiesto dalla Corte.

3. – Legittimazione attiva al ricorso. Del pari, vanno condivisi i rilievi contenuti nella ordinanza di rimessione circa la legittimazione al ricorso della BANCA atteso che, ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ., il processo è proseguito nei gradi di merito anche nei confronti della cedente, non essendone stata disposta l’estromissione ai sensi della norma menzionata, onde (anche indipendentemente dalla retrocessione del credito) alla ricorrente va riconosciuta, già nella qualità di dante causa e parte originaria, la legittimazione ad impugnare la sentenza.

4. – Le questioni. La sentenza impugnata fonda la decisione su di una duplice ratio decidendi: da un lato, la vessatorietà delle clausole sugli interessi moratori, ai sensi degli artt. 1469-bis ss. cod. civ., con l’affermata inefficacia delle stesse e la non debenza di nessun interesse, né corrispettivo né moratorio («può dunque legittimamente esigere dalla il solo capitale residuo, individuato alla data dell’ultimo pagamento da lei effettuato, nell’ottobre del 2003»: p. 8 della sentenza); dall’altro lato, l’usurarietà di tali interessi per superamento del tasso-soglia, con la, del pari ritenuta, nullità del patto sugli interessi di mora, ai sensi dell’art. 1815, comma 2, cod. civ.

Entrambe vengono censurate dai motivi proposti.

Secondo un ordine logico-giuridico, le questioni poste dal ricorso sono le seguenti:

A) disciplina antiusura ed interessi moratori (motivi da 1 a 7): la questione, che ha motivato la rimessione alla Sezioni unite, consiste nel valutare se la disciplina prevista dall’ordinamento con riguardo agli interessi usurari (artt. 1815 cod. civ. e 644 cod. pen., nonché 2 l. n. 108 del 1996, d.l. n. 394 del 2000, convertito dalla l. n. 24 del 2001, e relativi decreti ministeriali, nella specie d.m. 22 marzo 2002) sia estensibile agli interessi moratori; vengono, inoltre, proposte questioni specifiche, concernenti il fatto che il d.m. 22 marzo 2002 non conteneva la rilevazione del tasso medio degli interessi moratori, e la mancata enunciazione, da parte della corte territoriale, delle ragioni del giudizio sulla usurarietà del tasso degli interessi, pur applicato dalla banca nella minor misura del 17,57% (motivi da 4 a 7); rientra in tale tematica anche la debenza residua di interessi, dopo la risoluzione per inadempimento del contratto di finanziamento, e, dunque, la questione se sia corretta, in presenza di riscontrata nullità o inefficacia della clausola sugli interessi moratori, la statuizione di un residuo obbligo di pagamento della sola sorte capitale per le rate scadute e a scadere, nonché se esista una motivazione al riguardo;

B) vessatorietà della clausola sugli interessi moratori nei contratti dei consumatori (motivi da 8 a 10): se sia qualificabile come vessatoria la clausola negoziale sugli interessi moratori, previsti in contratto al 18%, pur applicati in concreto nella misura del 17,57%, e se comunque debba trovare applicazione, in ipotesi di inefficacia o nullità della clausola, il tasso degli interessi corrispettivi stabilito nel contratto; nonché, nella specie, se esista una motivazione al riguardo o la violazione del diritto al contraddittorio (cd. terza via).

Il primo gruppo di questioni, legate al tema dell’interesse moratorio usurario, viene di seguito affrontato.

5. – Le tesi. I precedenti di questa Corte, gli orientamenti della giurisprudenza di merito ed il dibattito dottrinale inducono al riepilogo degli argomenti spesi dall’una e dall’altra tesi, miranti a ricondurre o no gli interessi di mora – pattuiti dalle parti o determinati unilateralmente dalla banca nell’esercizio del lecito ius variandi – alla diretta applicazione della disciplina antiusura.

Si reputa di riassumere le tesi in modo sintetico, senza necessità di più ampia analisi, attesa la notorietà degli argomenti dall’uno e dall’altro orientamento spesi.

Fin d’ora, peraltro, va esposto il rilievo, secondo cui le Sezioni unite ritengono non dirimente l’argomento letterale, essendo non univoci gli indici relativi; quello storico, perché la disciplina è mutevole ed è mutata nei secoli, né il legislatore è tenuto a porsi in necessaria continuità con le scelte e le nozioni pregresse; quello che si fonda sulla sottrazione del denaro dalla disponibilità del creditore per attribuirlo al debitore, e della conseguente, identica e concreta, capacità di remunerare il mancato godimento d’un capitale, in quanto meramente descrittivo e non ordinante, esprimendo invero l’interesse di mora entrambe le funzioni, remuneratoria e sanzionatoria; quello della mancata rilevazione del tasso di mora nel T.e.g.m. (tasso effettivo globale medio) da parte dei decreti ministeriali, che costituisce un evento meramente accidentale privo di valenza ermeneutica.

In definitiva, il criterio-guida è costituito dalla ratio del divieto di usura e dalle finalità che con esso si siano intese perseguire; fermo restando che le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore, al giudice competendo solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato.

5.1. – La tesi restrittiva. I fautori della tesi restrittiva, che annoverano ampia giurisprudenza di merito, numerosa dottrina e l’Arbitro bancario e finanziario, espongono vari importanti argomenti:

a) lettera delle norme: l’art. 1815, comma 2, cod. civ. si riferisce ai soli interessi corrispettivi, contemplati pacificamente al primo comma della disposizione; l’art. 644, comma 1, c.p. incrimina chi si fa «dare o promettere» interessi usurari «in corrispettivo di una prestazione di denaro»; del pari, l’inciso «a qualunque titolo», contenuto nell’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, con riguardo agli interessi da considerare come usurari, è collocato dopo le parole «promessi o convenuti», non immediatamente dopo il termine «interessi», dovendosi quindi riferire ai costi accessori del credito convenuti dalle parti “a titolo” di commissioni, remunerazioni o spese, secondo quanto previsto della disposizione di legge oggetto dell’interpretazione autentica; ancora, il d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla l. n. 2 del 2009, nel dettare disposizioni sulla c.m.s., all’art. 2-bis, comma 2, ha affermato che, ai fini delle norme civili e penali sull’usura, rilevano solo «[gili interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente», con palese riguardo agli interessi corrispettivi, remunerazione rispetto all’utilizzo dei fondi concessi;

b) legislatore storico del 2001: i lavori preparatori non hanno valore normativo, ma di tenue indizio ermeneutico;

c) funzione degli interessi: gli interessi corrispettivi hanno funzione remunerativa, i moratori, invece, risarcitoria; vi è, dunque, una netta diversità di causa e di funzione tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio, in quanto l’interesse corrispettivo costituisce la remunerazione concordata per il godimento diretto di una somma di denaro, avuto riguardo alla normale produttività della moneta, mentre l’interesse di mora, secondo quanto previsto dall’art. 1224 cod. civ., rappresenta il danno conseguente l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria; dunque, i primi sono stabiliti in dipendenza di un equilibrio concordato con riguardo al tempo previsto per la fruizione di una somma di denaro che passa da un soggetto all’altro, mentre i secondi compensano il creditore per la perdita di disponibilità del denaro mai accettata, ma solo subita, oltretutto per un periodo di tempo neppure prevedibile e foriera di costi non del tutto prevedibili neanch’essi.

Insomma, se può dirsi pure che, in termini economici, le due categorie si avvicinano, in termini giuridici assai diversa è la causa giuridica dell’attribuzione.

Si osserva, inoltre, che gli interessi moratori svolgono una funzione perfettamente lecita, né sono soggetti a giudizio di disvalore, il contrario risultando dal diritto positivo, sia quanto al disposto generale dell’art. 1224 cod. civ., sia, se si vuole con portata sistematica, dalla stessa disciplina delle operazioni commerciali di cui al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, di attuazione della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011, pur intesa ad un evidente favore per le parti deboli.
Infine, ove, in futuro, il d.m. ministeriale contenesse un unico tasso soglia, comprensivo degli interessi moratori, esso sarebbe verosimilmente più alto di quello attuale, con conseguenze pregiudizievoli per il contenimento degli interessi corrispettivi;

d) ratio della norma: il fondamento della disciplina introdotta dalla riforma di cui alla legge n. 108 del 1996 non è tanto quello di predisporre uno strumento per calmierare o livellare il mercato del credito, nel senso di tenere basso il “costo del denaro” o attuare una politica di prezzi amministrati, quanto quella di mitigare il “rischio bancario”: è una tecnica per sanzionare regolamenti iniqui, pur restando nella logica negoziale; il legislatore non ha inteso indirizzare in modo autoritario ed antinomico, rispetto all’autonomia privata, il mercato dei capitali, ma, nel rispetto del principio, ha mirato al corretto funzionamento del mercato medesimo, attraverso la repressione delle condotte devianti rispetto alle sue dinamiche spontanee, nell’interesse non solo dei finanziati, ma anche degli operatori istituzionali ed, in ultima analisi, della stabilità del sistema;

e) evoluzione storica: rileva l’attuale conformazione del diritto positivo, con la distinzione degli interessi a seconda della loro funzione;

f) previsione dell’art. 1284, comma 4, cod. civ.: secondo la norma, se «le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali»: essendo, invero, sovente il tasso della disciplina speciale, di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2002, superiore al tasso-soglia usurario, allora, ai fini dell’usura, non possono rilevare gli interessi moratori convenzionali, perché, altrimenti, la norma ammetterebbe una “usura legale”;

g) mancato rilievo degli interessi moratori nel tasso soglia dei d.m.: nelle voci computate dai decreti ministeriali al fine della rilevazione del tasso medio non sono inclusi gli interessi di mora, mentre i due dati – T.e.g. del singolo rapporto e T.e.g.m. determinante il tasso soglia – devono essere omogenei: onde nel T.e.g. del singolo rapporto gli interessi moratori non devono essere conteggiati. Il mancato rilievo degli interessi moratori da parte della autorità amministrativa (cfr. la comunicazione della Banca d’Italia del 3 luglio 2013, Chiarimenti in materia di applicazione della legge usuraria) discende dall’esigenza di non considerare nella media «operazioni con andamento anomalo», le quali potrebbero addirittura, se incluse nel T.e.g., «determinare un eccessivo innalzamento delle soglie, ín danno della clientela». Dunque, il criterio dei tassi-soglia esige necessariamente che i metodi di calcolo siano perfettamente coincidenti, quanto ai costi effettivi del credito e quanto alle rilevazione della media di mercato: è il cd. principio di simmetria. Tutto ciò, secondo un criterio di affidabilità giuridica ed, ancor prima, scientifica e logica, del criterio adottato. Non solo, ma il criterio di simmetria è stato ormai accolto dalle Sezioni unite con la sentenza n. 16303 del 2018.

Sulla base di tali considerazioni, la tesi giunge, in ogni caso, a rinvenire nel sistema civilistico una tutela contro la cd. usura moratoria: in quanto, sebbene reputi che la disciplina antiusura sanzioni la pattuizione dei soli interessi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, l’interesse di mora – quale sanzione per l’inadempimento – è inquadrabile nell’art. 1382 cod. civ. e può, quindi, essere ridotto d’ufficio dal giudice, ai sensi dell’art. 1384 cod. civ.; mentre resterebbe a tal fine inapplicabile l’art. 1815, comma 2, cod. civ.

5.2. – La tesi estensiva. I fautori della tesi estensiva (in tal senso, alcune pronunce di questa Corte, di cui le più recenti più ampiamente motivate: cfr. Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 13 settembre 2019, n. 22890; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27442; Cass. 6 marzo 2017, n. 5598; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324) oppongono:

a) lettera delle norme: la legge – art. 1815, comma 2, cod. civ., art. 644, comma 4, cod. pen., art. 2, comma 4, l. n. 108 del 1996 e art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, conv. dalla l. n. 24 del 2001 – non distingue tra tipi di interessi ed, anzi, in alcuni di tali articoli si parla espressamente di pattuizione «a qualsiasi titolo»; mentre la stessa apertura espressamente apportata dall’art. 2-bis, comma 2, d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla l. n. 2 del 2009, alle voci confluenti nel T.e.g. dovrebbe indurre a ricomprendervi oggi anche gli interessi di mora;

b) legislatore storico del 2001: nei lavori preparatori della legge n. 24 del 2001, si afferma che si voleva considerare l’usurarietà di ogni interesse «sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio»;

c) funzione degli interessi: entrambi gli interessi costituiscono la remunerazione di un capitale di cui il creditore non ha goduto, nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente;

d) ratio della norma o interpretazione finalistica: il criterio oggettivo previsto dalla legge n. 108 del 1996 intende tutelare le vittime dell’usura e il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche, fini che sarebbero vanificati ove si escludessero dall’ambito di applicazione gli interessi moratori; inoltre, in caso contrario, per il creditore potrebbe addirittura essere più conveniente l’inadempimento, con la possibilità, ad esempio, di fissare termini di adempimento brevissimi per indurre facilmente la mora e lucrare gli interessi;

e) evoluzione storica: gli interessi moratori sono sorti per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; l’opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi; la presenza della duplicazione normativa ex artt. 1224 e 1282 cod. civ. dipende dall’unificazione dei codici civile e commerciale;

f) previsione dell’art. 1284, comma 4, cod. civ.: non rileva quanto stabilito da tale norma – secondo cui il saggio degli interessi legali diviene, dal momento della proposizione della domanda giudiziale, quello pari al tasso proprio dei ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali perché ivi il maggior tasso degli interessi legali ha la diversa funzione sanzionatorio/deflattiva a carico del debitore inadempiente, per i casi in cui l’inadempimento perseveri pur dopo la proposizione della domanda giudiziale (che risulterà fondata) e non discende dalla semplice mora; dunque, ha una valenza prettamente sanzionatoria e punitiva anche nell’interesse generale al non incremento pretestuoso del contenzioso;

g) mancato rilievo degli interessi moratori nelle tasso soglia dei d.m.: è incontestato che le voci, computate nei decreti ministeriali al fine della rilevazione del tasso medio, escludano gli interessi moratori; ma ciò non ha rilievo ermeneutico, dato che la disciplina secondaria non può costituire un vincolo alle interpretazioni giurisprudenziali degli enunciati, pena un’inammissibile inversione metodologica.

In sostanza, la circostanza che i decreti ministeriali di rilevazione non includano gli interessi moratori nella definizione del T.e.g.m., e quindi del relativo tasso-soglia, potrà, semmai, rilevare ai fini della verifica di conformità dei decreti medesimi, quali atti amministrativi, alla legge che attuano: però, in nessun caso il giudice è vincolato dal contenuto della normazione secondaria nell’esercizio del suo potere-dovere ermeneutico.
Anzi, secondo alcuni, l’esclusione degli interessi moratori dalle voci considerate dai d.m. sarebbe imposta dalla legge n. 108 del 1996, avendo questa costruito il giudizio di usurarietà su di un unico tasso soglia per ciascun tipo di finanziamento e distinto solo tra i diversi modelli contrattuali, non anche tra le differenti specie di costo del credito, onde addirittura l’eventuale rilevazione di un T.e.g.m. comprensivo del tasso degli interessi moratori sarebbe contra legem.
Si esclude, in ogni caso, la cogenza del cd. principio di simmetria, ragionando anche nel senso che la legge ha, proprio in contrario, immaginato uno spread tra T.e.g.m. e tasso-soglia, tollerato dal sistema, appunto per lasciare uno spazio ulteriore rispetto ai parametri di mercato.

6. – La tutela del debitore di fronte agli interessi moratori usurari. Come visto, entrambe le tesi conducono ad una tutela del soggetto finanziato, sia pure attraverso percorsi argomentativi diversi.
Orbene, pur riconoscendo, come esposto, che il dato letterale ed i diversi argomenti sovente si equivalgano tra loro, quanto a persuasività e (non) definitività, il Collegio ha ritenuto che il concetto di interesse usurario e la relativa disciplina repressiva non possano dirsi estranei all’interesse moratorio, affinché il debitore abbia più compiuta tutela.

Questa, invero, non sarebbe equivalente ove operata ex art. 1384 cod. civ.: il quale potrebbe sempre consentire una riduzione casistica e difforme sul piano nazionale, oltre che, verosimilmente, condurre al mero abbattimento dell’interesse pattuito al tasso soglia, pur integrato con quello rilevato quanto agli interessi moratori, e non al minor tasso degli interessi corrispettivi, come oltre, invece, si indicherà; mentre, poi, il diritto positivo non impedisce una interpretazione che riconduca anche gli interessi moratori nell’alveo della tutela antiusura, con maggiore protezione del debitore, che sembra anzi consigliare.

Certamente esiste, infatti, l’esigenza primaria di non lasciare il debitore alla mercé del finanziatore: il quale, se è subordinato al rispetto del limite della soglia usuraria quando pattuisce i costi complessivi del credito, non può dirsi immune dal controllo quando, scaduta la rata o decorso il termine pattuito per la restituzione della somma, il denaro non venga restituito e siano applicati gli interessi di mora, alla cui misura l’ordinamento (cfr. art. 41 Cost.) e la disciplina ad hoc dettata dal legislatore ordinario non restano indifferenti.

Sulla base del diritto positivo antiusura – attese le modalità di individuazione del tasso soglia, che dallo stesso mercato viene desunto – da un lato non è smentita la logica dell’autonomia contrattuale, dall’altro viene confermato il fine di assicurare la “sana e prudente gestione” del soggetto bancario negli impieghi (cfr. art. 5 d.lgs. 58 del 1998), prevenendo la conclusione, ad opera delle banche, di operazioni creditizie rischiose, al punto tale da rendere necessaria la pattuizione di tassi d’interesse “fuori mercato”.

Nella normativa antiusura si possono rintracciare una pluralità di rationes legis, quali la tutela del fruitore del finanziamento, la repressione della criminalità economica, la direzione del mercato creditizio e la stabilità del sistema bancario.

Dalla riforma del 1996 sono stati, quindi, riaffermati i principi di ordine pubblico concernenti la direzione del mercato del credito e la protezione degli utenti: sanzionare le pattuizioni inique estranee alla logica concorrenziale persegue, nel contempo, le finalità d’interesse pubblicistico, volto all’ordinato funzionamento del mercato finanziario ed alla protezione della controparte dell’impresa bancaria.

La severità del legislatore nel trattamento degli interessi usurari è palesata dalla disciplina ad essi riservata nell’art. 1815, comma 2, cod. civ.

7. – La concreta applicazione della disciplina antiusura. L’affermata riconduzione degli interessi moratori nell’ambito della normativa predetta richiede la soluzione di plurime questioni, cui il Collegio ha ritenuto di offrire le risposte che seguono:

i) la disciplina antiusura intende sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi, convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma altresì degli interessi moratori, che sono comunque convenuti e costituiscono un possibile debito per il finanziato;

ii) la mancata indicazione, nell’ambito del T.e.g.m., degli interessi di mora mediamente applicati non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali de quibus, ove essi ne contengano la rilevazione statistica;

iii) se i decreti non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato;

iv) si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., ma in una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro;

v) resta, quindi, la residua debenza di interessi dopo la risoluzione per inadempimento del contratto di finanziamento;

vi) rilevano sia il tasso astratto, sia quello in concreto applicato, a diversi effetti;

vii) nei contratti conclusi con un consumatore, è dato anche il ricorso agli artt. 33, comma 2, lett. “f” e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005;

viii) ne deriva l’atteggiarsi dei rispettivi oneri probatori.

Si illustreranno ora le precedenti asserzioni; non senza avere prima convenuto sulla mancanza di cogenza della pronuncia della Corte costituzionale 25 febbraio 2002, n. 29, laddove ha ritenuto «plausibile ¬senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori», trattandosi di pronuncia sulla mera ammissibilità della questione: ove il giudice delle leggi si limita a reputare non irragionevole una data interpretazione resa possibile dall’enunciato, non a darle il crisma della inconfutabilità.

i) La disciplina antiusura intende sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto, quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma altresì degli interessi moratori, che sono comunque convenuti e costituiscono un possibile debito per il finanziato.
Non vi è dubbio che le categorie degli interessi corrispettivi e degli interessi moratori siano distinte nel diritto delle obbligazioni.
Secondo gli artt. 820, 821 e 1284 cod. civ., l’interesse in un’operazione di finanziamento è dato dalla somma oggetto dell’obbligo di restituzione, detratto il denaro preso a prestito. La nozione presuppone il rilievo del costo del denaro, il cui godimento è volontariamente attribuito ad altri, dietro accettazione da parte di questi del relativo costo; non vi si comprende, invece, la situazione in cui, rendendosi inadempiente, il debitore non rispetti l’accordo, ma violi gli obblighi assunti.
Dal suo canto, l’interesse moratorio, contemplato espressamente dal legislatore all’art. 1224 cod. civ., rappresenta il danno che nelle obbligazioni pecuniarie il creditore subisce a causa dell’inadempimento del debitore.

Di conseguenza, questa Corte ha inquadrato il patto sugli interessi moratori nella clausola penale ex art. 1382 cod. civ. (Cass. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. 18 novembre 2010, n. 23273; Cass. 21 giugno 2001, n. 8481; in sede penale, v. Cass. 25 ottobre 2012, n. 5683, depositata il 5 febbraio 2013). La circostanza che la misura degli interessi moratori sia prestabilita dalle parti nella relativa clausola negoziale, infatti, non ne muta la natura di liquidazione forfetaria e preventiva del danno, donde l’inquadrabilità nell’art. 1382 cod. civ., strutturandosi il patto sugli interessi moratori come un tipo di clausola penale.

Ed è del tutto ragionevole l’osservazione, secondo cui diversa è la stessa intensità del cd. rischio creditorio, sottesa alla determinazione della misura degli interessi corrispettivi, da un lato, e degli interessi moratori, dall’altro lato: se i primi considerano il presupposto della puntualità dei pagamenti dovuti, i secondi incorporano l’incertus an e l’incertus quando del pagamento – trasformandosi il meccanismo tecnico-giuridico da quello del termine a quello della condizione – onde il creditore dovrà ricomprendervi il costo dell’attivazione degli strumenti di tutela del diritto insoddisfatto; proprio in relazione a tale rischio, l’intermediario può determinare i tassi applicabili (cfr. artt. 120-undecies e 124-bis d.lgs. n. 385 del 1993). Ma anche tale costo deve soggiacere ai limiti antiusura.

Ed è, altresì, corretto che le direttive comunitarie, con riguardo al credito al consumo, prevedono che il T.e.g. sia determinato sulla base del costo totale del credito al consumatore, ad eccezione di eventuali penali per l’inadempimento (cfr. art. 19 direttiva 2008/48/CE; art. 4, comma 13, direttiva 2014/17/UE). Ma la necessità di tale indicazione, ai fini della cd. trasparenza per il consumatore, non sembra confliggere con l’autonomo rilievo, a fini civili e penali, della disciplina di contrasto all’usura.

ii) La mancata indicazione, nell’ambito del T.e.g.m., degli interessi di mora mediamente applicati non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali de quibus, ove essi ne contengano la rilevazione statistica.

ii -1) – Le rilevazioni di Bit. Così come la legge, per gli interessi corrispettivi, ha introdotto la qualificazione oggettiva della fattispecie usuraria mediante il tasso-soglia, del pari, per gli interessi moratori, l’identificazione dell’interesse usurario passa dal tasso medio statisticamente rilevato, in modo altrettanto oggettivo ed unitario, idoneo a limitare l’esigenza di misurarsi con valutazioni puramente discrezionali.
L’esigenza del rispetto del principio di simmetria, fatto proprio dalle Sezioni unite con la sentenza n. 16303 del 2018, ben può essere soddisfatta mediante il ricorso ai criteri oggettivi e statistici, contenuti nella predetta rilevazione ministeriale, ove essa indichi i tassi medi degli interessi moratori praticati dagli operatori professionali.
Giova, al riguardo, ricordare che il criterio di rilevazione dei tassi medi, fatto proprio dal legislatore del 1996 per oggettivare il giudizio (superando la cd. usura soggettiva, derivata dall’approfittamento di uno stato di bisogno del mutuatario), reca in sé alcuni presupposti: che sia lecita la pattuizione degli interessi, corrispettivi e moratori; che il mercato concorrenziale e vigilato sia, esso stesso, in grado di offrire – nella media – la misura corretta dei tassi, esprimendo l’equilibrio ragionevole tra la posizione del prestatore e quella del prenditore del denaro.

Le rilevazioni di Banca d’Italia sulla maggiorazione media, prevista nei contratti del mercato a titolo di interesse moratorio, possono fondare la fissazione di un cd. tasso-soglia limite, che anche questi comprenda.
La misura media dell’incremento, applicata sul mercato quanto agli interessi moratori, viene considerata dalla Banca d’Italia solo a fini statistici, opzione di metodo motivata con l’esigenza di non comprendere nella media operazioni con andamento anomalo ed evitare un innalzamento delle soglie, in potenziale danno della clientela (cfr. documento Banca d’Italia 3 luglio 2013). La nozione sottesa è quella di un mercato concorrenziale del credito, in cui il gioco delle parti tende ad indicare l’equilibrio spontaneo degli interessi, pur nei limiti del controlli e della vigilanza ad esso propria.

Lungi dal rilevare la casistica, eterogenea e centrifuga, dei singoli rapporti obbligatori di finanziamento, quel che assume importanza è l’oggettività dei dati emergenti dalla realtà economica e dalla sua struttura, caratterizzata da un ordinamento sezionale regolamentato e vigilato. La conseguenza è che la clausola sugli interessi moratori si palesa usuraria, quando essa si ponga “fuori dal mercato”, in quanto nettamente distante dalla media delle clausole analogamente stipulate.

Orbene, il tasso rilevato dai d.m. a fini conoscitivi – sia pure dichiaratamente in un lasso temporale a volte diverso dal trimestre, non sempre aggiornato a quello precedente (per i più recenti decreti, all’anno 2015) e rilevato a campione – può costituire l’utile indicazione oggettiva, idonea a determinare la soglia rilevante.

Dal decreto ministeriale 21 dicembre 2017, inoltre, si è cominciato a distinguere all’interno di tale tasso, individuandone tre diversi (mutui ipotecari ultraquinquennali, operazioni di leasing e complesso degli altri prestiti).

Dunque, nei recenti decreti ministeriali sono rilevati i tassi effettivi globali medi, riferiti ad anno; è individuato il tasso-soglia mediante l’aumento dei predetti tassi di un quarto, cui si aggiungono ulteriori 4 punti percentuali; si dà, altresì, conto dell’ultima rilevazione statistica condotta dalla Banca d’Italia, da cui risulta che i tassi di mora pattuiti sul mercato presentano, rispetto ai tassi percentuali corrispettivi, una maggiorazione media pari a 1,9 punti percentuali per i mutui ipotecari di durata ultraquinquennale, a 4,1 punti percentuali per le operazioni di leasing e a 3,1 punti percentuali per il complesso degli altri prestiti.

Tutto ciò, nell’art. 3 dei decreti ministeriali, nonché nell’adeguata spiegazione contenuta nell’allegato.

Onde tale rilevazione costituisce il parametro privilegiato di comparazione, che permette di accedere a valutazioni quanto più basate su dati fattuali di tipo statistico medio, prive di discrezionalità, scongiurando, a fini di uguaglianza, difformità di applicazione.

Inoltre, va considerato come il dato, pur rilevato in anni precedenti (sino al d.m. 21 dicembre 2017, si riportava il dato rilevato nel 2001; da tale decreto in poi, viene riportato il dato rilevato nel 2015), è all’evidenza reputato ancora attuale dall’autorità tecnica, dato che appunto esso viene mantenuto, sia pure «a fini conoscitivi», nei decreti ministeriali contenenti la rilevazione periodica del T.e.g.m.

La sua significatività non può, quindi, essere disconosciuta.

ii.2. – Individuazione del limite per gli interessi moratori. Occorre pure tenere conto che i decreti ministeriali, negli anni più recenti, prevedono uno spread tra il T.e.g.m. e la misura del tasso soglia usurario, determinato con la predetta maggiorazione (aumento di un quarto dei tassi medi, cui si aggiungono ulteriori 4 punti percentuali: art. 2, comma 2, d.m., attuando l’art. 2, comma 4, della legge n. 108 del 1996).

La soglia comprendente i moratori, pertanto, con riguardo ad esempio ai mutui ipotecari di durata ultraquinquennale, può essere indicata in un’unica espressione, che pervenga all’entità della soglia massima – la quale, cioè, tenga conto sia del T.e.g.m., sia degli interessi di mora – onde si avrà:

(5/4 T.e.g.m. + 4) + (5/4 x 1,9)

dove il primo addendo rappresenta il tasso soglia usurario legale, stabilito secondo il combinato disposto della l. n. 108 del 2000, art. 644 cod. pen. e d.m. del periodo considerato; mentre il secondo addendo è il “di più” di comparazione, che tiene conto degli interessi moratori.

La formula può essere più sinteticamente espressa: (T.e.g.m. + 1,9) x 1,25 + 4.

Analogamente, potrà essere determinata la soglia limite con riguardo alle operazioni di leasing ed agli altri prestiti.

ii.3. – Validità del cd. principio di simmetria. Tutto ciò posto, va confermata la piena razionalità del cd. principio di simmetria, in continuità con quanto affermato dalla Corte (Cass., sez. un., 20 giugno 2018, n. 16303; nonché Cass. 3 novembre 2016, n. 22270; Cass. 22 giugno 2016, n. 12965), secondo cui deve esservi simmetria tra il tasso effettivo globale medio rilevato trimestralmente a norma dell’art. 2, comma 1, della legge n. 108 del 1996 ed il tasso effettivo globale della singola operazione.

Tutto ciò, atteso sia il contenuto letterale delle disposizioni che disciplinano il T.e.g. ed il T.e.g.m., ovvero l’art. 644, comma 4, c.p. e l’art. 2, comma 1, della legge n. 108 del 1996; sia l’intuitiva esigenza logica legata all’essenza stessa di ogni procedimento comparativo, che, in quanto tale, postula un certo grado di omogeneità dei termini di riferimento.

iii) Se i decreti non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato.

Occorre, a questo punto, farsi carico del problema, pur trascurato dalle conclusioni della parte pubblica, concernente la mancata rilevazione della maggiorazione propria degli interessi moratori nei decreti ministeriali, dall’entrata in vigore della legge n. 108 del 1996 sino al d.m. 25 marzo 2003.

Per ogni contratto, infatti, deve essere preso a termine di riferimento il d.m. all’epoca vigente. Per quanto riguarda proprio la vicenda in esame, dagli atti delle parti e dalla sentenza impugnata risulta che il contratto fu concluso il 23 aprile 2002 e, dunque, si tratta del decreto ministeriale 22 marzo 2002.

L’art. 1 del d.m. individua, con rimando all’allegato, il tasso effettivo globale medio (T.e.g.m.) relativamente ai vari tipi contrattuali, e l’art. 2 precisa che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto e sino al 30 giugno 2002, ai fini della determinazione del tasso-soglia, i T.e.g.m. devono essere aumentati della metà.

Non rileva, ai fini della risposta alla questione di diritto in esame, che nel d.m. 22 marzo 2002 manchi la rilevazione degli interessi moratori, che ha iniziato ad essere compiuta a partire dal decreto ministeriale del 25 marzo 2003.

Infatti, le Sezioni unite ritengono che, in ragione della esigenza primaria di tutela del finanziato, sia allora giocoforza comparare il T.e.g. del singolo rapporto, comprensivo degli interessi moratori in concreto applicati, con il T.e.g.m. così come in detti decreti rilevato; onde poi sarà il margine, nella legge previsto, di tolleranza a questo superiore, sino alla soglia usuraria, che dovrà offrire uno spazio di operatività all’interesse moratorio lecitamente applicato.

iv) Si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., ma in una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro.

La conseguenza di quanto esposto è la piana applicazione dell’art. 1815, comma 2, cod. civ., pacificamente transtipica.

A differenza di altri ordinamenti anche europei, nei quali il superamento del tasso soglia non determina la nullità della clausola sugli interessi, ma la mera restituzione del surplus, la legge nazionale ha comminato la gratuità sanzionatoria del contratto.

Peraltro, il Collegio ha reputato che la norma possa trovare una interpretazione che, pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, faccia seguire la sanzione della non debenza di qualsiasi interesse, ma limitatamente al tipo che quella soglia abbia superato.

Invero, ove l’interesse corrispettivo sia lecito, e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della predetta soglia usuraria, ne deriva che solo questi ultimi sono illeciti e preclusi; ma resta l’applicazione dell’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente applicazione degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente pattuiti.

Giova considerare che la regolamentazione del mercato del credito, la quale si giova di plurime tutele generali e speciali previste dal diritto positivo, non può ragionevolmente condurre a premiare il debitore inadempiente, rispetto a colui che adempia ai suoi obblighi con puntualità: come avverrebbe qualora, all’interesse moratorio azzerato, seguisse un costo del denaro del tutto nullo (inesistente), con l’obbligo a carico del debitore di restituire il solo capitale, donde un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui si assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 cod. civ.

Pertanto, una volta che il giudice del merito abbia riscontrato positivamente l’usurarietà degli interessi moratori, il patto relativo è inefficace.

In tale evenienza, si applica la regola generale del risarcimento per il creditore, di cui all’art. 1224 cod. civ., commisurato (non più alla misura preconcordata ed usuraria, ma) alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi, come prevede la disposizione.

Invero, tale conseguenza rinviene il suo fondamento causale nella considerazione secondo cui, caduta la clausola degli interessi moratori, resta un danno per il creditore insoddisfatto, donde l’applicazione della regola comune, secondo cui il danno da inadempimento di obbligazione pecuniaria viene automaticamente ristorato con la stessa misura degli interessi corrispettivi, già dovuti per il tempo dell’adempimento in relazione alla concessione ad altri della disponibilità del denaro.

Ciò, in quanto la nullità della clausola sugli interessi moratori non porta con sé anche quella degli interessi corrispettivi: onde anche i moratori saranno dovuti in minor misura, in applicazione dell’art. 1224 cod. civ., sempre che – peraltro – quelli siano lecitamente convenuti.

Tale conclusione è confortata dalla primaria esigenza di coerenza e non contraddittorietà col diritto eurounitario, come vive dalle interpretazioni rese ad opera della Corte di giustizia dell’Unione, che più volte è stata adìta in via pregiudiziale con riguardo alle direttive in materia di consumatori.

Qui, l’art. 6, par. 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993 impone agli Stati membri di far sì che le clausole medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive.

Al riguardo, costituiscono affermazioni tralaticie della Corte di giustizia che il giudice non possa né ridurre l’importo della penale (Corte di giustizia 21 gennaio 2015, C-482/13, C- 484/13, C-485/13 e C-487/13, Unicaja Banco e Caixabank, punto 29; Corte di giustizia 30 maggio 2013, C-488/11, Asbeek Brusse e de Man Garabito, punto 59), né integrare il contenuto contrattuale (Corte di giustizia 26 marzo 2019, C-70/17 e C-179/17, Abanca Corporación Bancaria SA e Bankia SA, punto 53; Corte di giustizia 21 gennaio 2015, Unicaja Banco, cit., punti 28, 32; Corte di giustizia 30 aprile 2014, C-26/13, Kàsler e Késlerné Rébai, punto 77; Corte di giustizia 14 giugno 2012, C-618/10, Banco Espahol de Crédito, punto 73; nonché, ancora, Corte di giustizia 7 agosto 2018, cause riunite C 96/16, Banco Santander SA e C-94/17, Rafael Ramón Escobedo Cortés, punto 73; Corte di giustizia 26 gennaio 2017, C- 421/14, Banco Primus, punto 71).

Dall’altro lato, anche di recente, la Corte UE ha altresì chiarito come sia legittima e rispettosa della direttiva la prescrizione (nella specie, dovuta ai precedenti giurisprudenziali della Corte Suprema spagnola), secondo cui continuano – pur caduta la clausola sugli interessi moratori – ad essere dovuti quelli corrispettivi, e ciò indipendentemente dalla tecnica di redazione delle clausole medesime, in quanto la direttiva 93/13/CEE non osta a che si giunga alla «soppressione integrale di questi interessi, mentre continuano a maturare gli interessi corrispettivi previsti da detto contratto» (Corte di giustizia 7 agosto 2018, cit., punti 76-78): ciò in quanto «gli interessi corrispettivi hanno una funzione di remunerazione della messa a disposizione di una somma di denaro da parte del mutuante fino al rimborso della somma stessa» (punto 76) e ove «la clausola abusiva consiste in tale maggiorazione, la direttiva 93/13 esige unicamente che la maggiorazione stessa venga annullata» (punto 77).

Con la conseguenza definitiva che «il giudice nazionale, il quale abbia constatato il carattere abusivo della clausola di un contratto di mutuo che fissa il tasso degli interessi moratori, escluda molto semplicemente l’applicazione della clausola suddetta o della maggiorazione che tali interessi rappresentano rispetto agli interessi corrispettivi, senza poter sostituire alla clausola di cui sopra disposizioni legislative suppletive, né rivedere la clausola in questione, conservando al tempo stesso la validità delle altre clausole di tale contratto, e segnatamente quella relativa agli interessi corrispettivi» (punto 78).

Tale pronuncia, specialmente con l’ammettere il pagamento di interessi «fino al rimborso della somma stessa», lascia permanere la determinazione degli interessi pattuiti come corrispettivi, che restano dovuti anche dopo la mora e fino alla restituzione effettiva del capitale.

Ed occorre pure ricordare che, secondo la Corte UE, la sostituzione della clausola abusiva, quando ammessa, viene comunque giustificata, richiamando proprio la finalità della direttiva 93/13 e del suo art. 6, par. 1, il cui obiettivo è «sostituire all’equilibrio formale, che il contratto determina tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibrio reale, finalizzato a ristabilire l’uguaglianza tra queste ultime» (fra le altre, Corte di giustizia 17 luglio 2014, C- 169/14, Banco Bilbao Vizcaya Argentaria SA, punto 23; Corte di giustizia 30 aprile 2014, C- 26/13, Kàsler e Kàslerné Ràbai, punto 82; Corte di giustizia 15 marzo 2012, n. 453/10, Perenicové e Pereniò, punto 31): donde il portato del bilanciamento degli interessi delle parti.

Viene dunque suffragata la conclusione, secondo cui l’applicazione della legge, nello specifico l’art. 1224, comma 1, cod. civ., in caso di usurarietà degli interessi moratori, rende il trattamento del non consumatore tale, che non sia addirittura migliore di quello di chi la qualità di consumatore possegga: come avverrebbe ove fosse negata la debenza persino degli interessi corrispettivi da parte del primo.

v) Resta, quindi, la residua debenza di interessi dopo la risoluzione per inadempimento del contratto di finanziamento.

v.1. – Il debito residuo dopo l’accertamento della usurarietà degli interessi. Il terzo gruppo di motivi attiene specificamente alla statuizione di non debenza di nessun interesse, enunciata dalla corte territoriale, secondo cui la banca «può dunque legittimamente esigere dalla il solo capitale residuo, individuato alla data dell’ultimo pagamento da lei effettuato, nell’ottobre del 2003» (p. 8 sentenza)

Assume la ricorrente che, pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento in forza di clausola risolutiva espressa, le rate scadute siano dovute per intero e non solo per la sorte capitale, come statuito invece dalla corte d’appello, dal momento che vige l’efficacia ex tunc della risoluzione dei contratti di durata, ai sensi dell’art. 1458 cod. civ.

v.2. – Risoluzione o decadenza dal termine. Giova premettere che non forma oggetto del thema decidendum in sede di legittimità la questione relativa alla qualificazione della clausola negoziale, che prevede le conseguenze del mancato pagamento delle rate, come fattispecie di decadenza dal beneficio del termine (art. 1186 cod. civ.) o di risoluzione del contratto per clausola risolutiva espressa (art. 1456 cod. civ.), come nella specie qualificata dalle corti del merito; onde la questione non è qui rilevante.

v.3. – Contratti contenenti, o no, la clausola usuraria. Richiamato quanto sopra esposto circa l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, cod. civ., la questione della retroattività della risoluzione nei contratti di finanziamento è mal posta.

Se siano stati pattuiti interessi moratori usurari, è l’azzeramento di tale interesse, in virtù della declaratoria della nullità, che è in sé retroattivo, ai sensi dell’art. 1418 cod. civ.

In generale, è stato enunciato il condivisibile principio (Cass., sez. un., 19 maggio 2008, n. 12639; Cass. 21 ottobre 2005, n. 20449, relativa a mutuo fondiario; si veda pure, in tema di leasing di godimento con fine di finanziamento, Cass. 3 settembre 2003, n. 12823), secondo cui il mutuo, nel cui genus va ricondotto ogni finanziamento, è un contratto di durata, agli effetti dell’art. 1458 cod. civ., in considerazione del carattere non istantaneo, ma prolungato della durata del prestito, e dell’utilità per il mutuatario consistente nel godimento del danaro – retribuito dalla controprestazione, del pari durevole, degli interessi – assicuratogli dal mutuante per il tempo convenuto.

La risoluzione non opera retroattivamente, ma soltanto per il futuro, comportando l’anticipazione della scadenza dell’obbligazione di rimborso del capitale, la quale, però, conserva il suo titolo contrattuale.

L’efficacia retroattiva alla risoluzione per inadempimento del mutuo finirebbe con l’essere ingiustificatamente pregiudizievole per il mutuante ed ingiustificatamente premiale per il mutuatario, che continuerebbe a godere, di fatto, del capitale a un interesse più vantaggioso di quello cui si era obbligato (Cass. 21 ottobre 2005, n. 20449).

Dunque, nei casi in cui non si discorra di usurarietà, le rate scadute al momento della caducazione del prestito restano dovute per intero, con gli interessi corrispettivi in esse già inglobati ed effetto anatocistico, secondo la normativa tempo per tempo vigente (art. 120, comma 2, d.lgs. n. 385 del 1993; e, in dettaglio, cfr. art. 25, comma 2, d.lgs. n. 342 del 1999, come trasfuso nell’art. 120, comma 2, cit. e art. 2 della delibera Cicr 9 febbraio 2000; I. 27 dicembre 2013, n. 147, cd. legge di stabilità per il 2014; art. 17-bis d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla I. 8 aprile 2016, n. 49 e art. 3, comma 1, della delibera del Cicr n. 343 del 3 agosto 2016).

Ma tali considerazioni sono appropriate in assenza di qualsiasi nullità usuraria; perché, ove il patto degli interessi cada, sarà questa nullità a spiegare effetti ex tunc.

v.4. – Rate scadute e rate a scadere. In definitiva, per quanto ora rileva, caduta la clausola sugli interessi moratori, le rate scadute al momento della caducazione del prestito restano dovute nella loro integralità, comprensive degli interessi corrispettivi in esse già conglobati, oltre agli interessi moratori sull’intero nella misura dei corrispettivi pattuiti; tale effetto, peraltro, richiede che in sé il tasso degli interessi corrispettivi sia lecito.

Per quanto attiene le rate a scadere, sorge l’obbligo d’immediata restituzione dell’intero capitale ricevuto, sulquale saranno dovuti gli interessi corrispettivi, ma attualizzati al momento della risoluzione: infatti, fino al momento in cui il contratto ha avuto effetto, il debitore ha beneficiato della rateizzazione, della quale deve sostenere il costo, pur ricalcolato attualizzandolo, rispetto all’originario piano di ammortamento non più eseguito; da tale momento e sino al pagamento, vale l’art. 1224, comma 1, c.c.

vi) Rilevano sía il tasso astratto, sia quello in concreto applicato, a diversi effetti.

Sovente il contratto prevede un tasso degli interessi moratori, sebbene, poi, al momento dell’inadempimento, la banca applichi, a tale titolo, un tasso di misura inferiore.

Le questioni che ne derivano sono due.

La prima: se possa essere domandata la nullità (per varie cause) di una clausola sugli interessi moratori in corso di svolgimento regolare del rapporto.

La seconda: se, una volta verificatosi l’inadempimento e, quindi, il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, l’indagine sulla usurarietà dei medesimi (sempre per cause varie) debba tener conto di quelli in astratto dedotti in contratto o di quelli in concreto applicati. Esse devono essere congiuntamente esaminate affinché l’ordinamento offra una tutela razionale, secondo le considerazioni che seguono.

Al primo quesito deve darsi risposta affermativa.

L’interesse ad agire in relazione ad una clausola reputata in tesi nulla o inefficace sussiste sin dalla pattuizione della medesima, in quanto risponde ad un bisogno di certezza del diritto che le convenzioni negoziali siano accertate come valide ed efficaci, oppur no. Ciò perché (cfr., fra le altre, Cass. 31 luglio 2015, n. 16262) l’interesse ad agire in un’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva.

Tuttavia – ed in ciò sta la risposta al secondo quesito, nel senso che il tasso rilevante è quello in concreto applicato dopo l’inadempimento – la conseguenza è che la sentenza sarà di mero accertamento dell’usurarietà del tasso, ma in astratto, senza relazione con lo specifico diritto vantato dalla banca, posto che ancora non sarà attuale l’inadempimento ed il finanziatore ancora non avrà preteso alcunché a tale titolo.

Onde se, da un lato, non può essere disconosciuto l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per la presenza attuale in contratto di una clausola degli interessi usurari, dall’altro lato sarà limitato l’effetto del giudicato di accertamento, non idoneo automaticamente a valere con riguardo alla futura applicazione di un interesse moratorio in concreto, ma solo ad escludere che l’interesse pattuito sia dovuto.

In altri termini, se il finanziato agisca in accertamento in corso di regolare rapporto, ed ottenga sentenza di nullità della clausola, ciò non vuol dire che, da quel momento in poi, egli potrà non adempiere e pretendere che nessun interesse gli sia applicato, oltre all’interesse corrispettivo, incluso nelle rate già dovute.

Realizzatosi l’inadempimento, rileva unicamente il tasso che di fatto sia stato richiesto ed applicato al debitore inadempiente; cade l’interesse ad agire per l’accertamento della eventuale illegittimità del tasso astratto non applicato; i parametri di riferimento dell’usurarietà restano quelli esistenti al momento della conclusione del contratto che comprende la clausola censurata.

In conclusione, ciò che rileva in concreto in ipotesi di inadempimento è il tasso moratorio applicato; se il finanziato intenda agire prima, allo scopo di far accertare l’illiceità del patto sugli interessi rispetto alla soglia usuraria, come fissata al momento del patto, la sentenza ottenuta vale come accertamento, in astratto, circa detta nullità, laddove esso fosse, in futuro, utilizzato dal finanziatore.

Onde tale sentenza non avrà ancora l’effetto concreto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 cod. civ.): effetto che, invece, si potrà verificare solo alla condizione – presupposta dalla sentenza di accertamento mero pre-inadempimento – che quello previsto in contratto sia stato, in seguito, il tasso effettivamente applicato, o comunque che, al momento della mora effettiva, il tasso applicato sulla base della clausola degli interessi moratori sia sopra soglia. Ove il tasso applicato in concreto sia, invece, sotto soglia, esso sarà dovuto, senza che possa farsi valere la sentenza di accertamento mero, che non quello ha considerato.

vii) Nei contratti conclusi con un consumatore, è dato anche il ricorso agli artt. 33, comma 2, lett. “f” e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005.

Nei contratti di finanziamento, in cui il soggetto che riceve la somma in prestito rivesta la qualifica di consumatore, è applicabile, altresì, la tutela contro le clausole vessatorie.

Nel diritto nazionale, essa è stata dapprima prevista nel Titolo II, Capo XIV-bis, del Libro IV del codice civile, agli artt. 1469-bis/1469-sexies, come introdotti dall’art. 25 l. 6 febbraio 1996, n. 52, di attuazione della direttiva 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

L’art. 1469-bis, comma 3, n. 6, prevedeva – testo del tutto coincidente con la corrispondente norma, attualmente vigente, di cui all’art. 33, comma 2, lett. f), del codice del consumo – la nullità delle clausole volte ad «imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo».

Si tratta della trasposizione della previsione della direttiva, che, nell’allegato, individua detta clausola abusiva nelle pattuizioni che «hanno per oggetto o per effetto … e) di imporre al consumatore che non adempie ai propri obblighi un indennizzo per un importo sproporzionatamente elevato».

Analogamente, l’art. 33, comma 2, lett. f), d.lgs. n. 206 del 2005, prevede che «[si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di … imporre al consumatore, in caso di inadempimento o dí ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo».

Si opera, quindi, un cumulo di rimedi, essendo rimesso all’interessato di far valere l’uno o l’altro.

La Corte di giustizia ha del pari chiarito che un sistema nazionale, il quale pur riduca entro una soglia ritenuta lecita il tasso eccessivo degli interessi moratori, non deve comunque precludere al giudice, in caso di contratto dei consumatori, la facoltà di ritenere la clausola abusiva, con la conseguente eliminazione, ai sensi dell’art. 6 direttiva 93/13 (cfr. Corte di giustizia 21 gennaio 2015, C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13, Unicaja Banco e Caixabank).

Delle questioni implicate in tale ulteriore tutela, poste dai motivi dal settimo al decimo, il Collegio rinvierà alla decisione della Sezione semplice.

viii) Ne deriva l’atteggiarsi dei rispettivi oneri probatori.

Alla stregua delle predette considerazioni, può precisarsi come si atteggi l’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ.

Da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento.

Dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto: fra di essi, la pattuizione negoziata della clausola con il soggetto sebbene avente la veste di consumatore, la diversa misura degli interessi applicati o altro.

8. – Decisione dei motivi.

8.1. – Motivi 1-7 afferenti la disciplina antiusura e la debenza degli interessi dopo la risoluzione del contratto di finanziamento. Da quanto esposto, si trae che il primo ed il secondo motivo sono infondati, non essendo la sentenza impugnata incorsa nel vizio di omessa pronuncia, né di mancanza di motivazione.

Fondato è, invece, il terzo motivo, avendo errato la corte territoriale nel reputare gratuito il finanziamento, ed in sostanza l’efficacia retroattiva della risoluzione di un contratto di durata, in violazione dell’art. 1458 cod. civ.: onde, contrariamente a quanto ivi opinato, le rate scadute e non pagate alla data della risoluzione restano dovute nella loro interezza, ivi compresa la quota d’interessi corrispettivi inclusa nelle stesse.

Alla luce delle precedenti considerazioni, vanno respinti il quarto ed il quinto motivo, in quanto la sentenza impugnata, avendo esteso agli interessi moratori la disciplina antiusura, ha considerato il tasso-soglia previsto nel relativo decreto ministeriale.

Il sesto motivo è fondato, perché la corte del merito non ha spiegato la ragione dell’aver considerato un tasso di interessi, invece mai applicato dal finanziatore.

Il settimo motivo resta assorbito, concernendo vizio non poziore.

8.2. – Motivi 8-10 sulla clausola vessatoria. La decisione di questi motivi viene rimessa alla prima Sezione civile.

9. – Enunciazione dei principi di diritto. Si devono, a questo punto, enunciare i seguenti principi di diritto, ai sensi dell’art. 384, comma 1, cod. proc. civ.:

«La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso».

«La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché “fuori mercato”, donde la formula: “T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto”».

«Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista».

«Si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti».

«Anche in corso di rapporto sussiste l’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell’accordo; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, la valutazione di usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento».

«Nei contratti conclusi con un consumatore, concorre la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f) e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies cod. civ.».

«L’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto».

10. – Rinvio alla Sezione prima civile. Così decise le questioni poste, la delibazione dei rimanenti motivi, dall’ottavo al decimo, è rimessa alla prima Sezione civile della Corte. Va disposto il richiesto oscuramento dei dati personali.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, rigetta i motivi primo, secondo, quarto e quinto, accoglie i motivi terzo e sesto, dichiara assorbito il settimo; rimette alla Sezione Prima civile la decisione dei motivi ottavo, nono e decimo. Ai sensi dell’art. 52 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, dispone, per ogni caso di diffusione a terzi del presente provvedimento, l’oscuramento delle generalità delle parti.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 7-10 luglio 2020.