Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 16412 depositata il 15 luglio 2007 

Contenzioso tributario – Cartella di pagamento non notificata – Avviso di mora notificato – Atti impugnabili.

Massima:
La correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria e’ assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo, soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un efficace esercizio del diritto di difesa. Nella predetta sequenza, l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli – rimanendo esposto all’eventuale successiva azione dell’amministrazione, esercitabile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto – o di impugnare cumulativamente anche quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria: con la conseguenza che spetta al giudice di merito – la cui valutazione se congruamente motivata non sarà censurabile in sede di legittimità – interpretare la domanda proposta dal contribuente al fine di verificare se egli abbia inteso far valere la nullità dell’atto consequenziale in base all’una o all’altra opzione. L’azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore. 

 

Svolgimento del processo

La controversia origina dall’impugnazione proposta dalla società contribuente avverso l’avviso di mora emesso dalla GE.RI.CO. S.p.a. (Concessionario del servizio riscossione tributi della provincia di Venezia) con riferimento all’anno d’imposta 1991 e notificato in data 4 dicembre 1998, senza, tuttavia, essere preceduto dalla notifica della cartella esattoriale. Il ricorso era proposto sia nei confronti dell’Ufficio delle Entrate di Venezia, sia nei confronti del sunnominato concessionario, contestando la legittimità dell’avviso di mora sotto più profili: a) per mancata previa notifica della cartella esattoriale; b) per carenza degli elementi previsti dall’art. 25 del D.P.R. n. 602 del 1973; c) per eseguita notifica alla società di fatto cessata dal 1990 e non ai singoli soci; d) per intervenuta decadenza ex art. 39 della L. n. 413 del 1991 (essendo la società contribuente successivamente venuta a conoscenza che l’avviso in questione concerneva la liquidazione della domanda di condono presentata nel 1992); e) per omessa motivazione; d) per violazione della procedura prevista dall’art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973. La Commissione adita accoglieva il ricorso ritenendo intervenuta la decadenza ex art. 39 della L. n. 413 del 1991, assorbite tutte le altre censure. La decisione era riformata in appello, con la sentenza in epigrafe, la quale dichiarava legittimo l’operato dell’ufficio, affermando l’infondatezza di tutte le censure mosse dalla società contribuente.

Avverso tale sentenza la società contribuente propone ricorso per cassazione con sei motivi. Resistono con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle Entrate. Non e’ stato, invece, in questa sede evocato in giudizio il concessionario che pur aveva partecipato alle pregresse fasi di merito.

La Sezione tributaria di questa Corte con ordinanza n. 13314 depositata il 7 giugno 2006 ha rimesso la causa al Primo Presidente, che l’ha assegnata alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la legittimità della notifica dell’avviso di mora in assenza della previa notifica della cartella esattoriale.

Motivazione

Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività sollevata dalle parti controricorrenti.

Invero la stessa parte ricorrente ammette di aver proposto il ricorso oltre il termine previsto dall’art. 327 del codice di procedura civile – dato che la sentenza impugnata e’ stata pubblicata il 7 maggio 2003 e il ricorso per cassazione notificato il 31 gennaio 2005 -, ma asserisce di aver correttamente agito in ragione della sospensione dei termini di impugnazione disposta dall’art. 16, comma 6, secondo periodo, della L. n. 289 del 2002, il quale ha stabilito, nella sua definitiva formulazione, che “per le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente articolo sono altresì sospesi, sino al 1 giugno 2004, salvo che il contribuente non presenti istanza di trattazione, i termini per la proposizione di ricorsi, appelli, controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la costituzione in giudizio”.

Alla luce di questa disposizione, ove la lite che oppone la società contribuente all’Amministrazione finanziaria fosse “definibile” ai sensi della medesima disposizione agevolativa, il termine per impugnare la sentenza della Commissione tributaria centrale pubblicata quando ne era stata disposta la sospensione – che operava dal 1 gennaio 2003 al 1 giugno 2004 (vd. Cass. n. 22891 del 2005) -, il ricorso in esame non sarebbe stato proposto tardivamente, decorrendo nel caso di specie il termine ex art. 327 del codice di procedura civile dal 2 giugno 2004.

Orbene, la società contribuente afferma, e le amministrazioni controricorrenti confermano, di aver presentato in data 20 aprile 2004 domanda di definizione della lite ai sensi dell’art. 16 della L. n. 289 del 2002 e che la predetta istanza e’ stata “rigettata” con provvedimento n. 15278 del 12 novembre 2004 – del quale e’ preannunciata l’impugnazione in altra sede (poiche’ il diniego e’ intervenuto prima che fosse pendente il giudizio innanzi a questa Corte) -, avendo l’Amministrazione ritenuto inammissibile un cosiddetto “condono di condono”, ossia la definibilità secondo la legge premiale del 2002 di una controversia relativa ad una fattispecie per la quale il contribuente si fosse già avvalso della procedura di definizione prevista da un precedente provvedimento legislativo (nel caso di specie, rappresentato dalla L. n. 413 del 1991, in base alla quale la società contribuente aveva avviato una “procedura di condono”).

 La valutazione   della   tempestività  del  ricorso  impone,  quindi,  di
 verificare se  la  lite  in  questione  sia "astrattamente" definibile a norma
 dell'art. 16  della  L.  n.  289  del  2002, tanto essendo sufficiente ai fini
 dell'applicabilità della    sospensione    del   termine   di   impugnazione,
 rimanendo, invece,  riservato  al  giudice  investito  del  ricorso avverso il
 diniego di  condono  il  giudizio  sulla  definibilità  "in  concreto"  della
 controversia de qua.
     In proposito  questa  Corte  ha,  in  linea  generale,  rilevato  che  "le
 disposizioni dell'art.  16  della  L.  27  dicembre  2002,  n.  289,  ispirate
 all'esigenza di   liberare   rapidamente   risorse  umane  ed  economiche,  da
 destinare ad  altre  attività,  e  di  abbattere  il  contenzioso assicurando
 all'Erario un  gettito  immediato  e sicuro, vanno coerentemente interpretate,
 con la  conseguenza  che  non  può  ritenersene  legittima  una  lettura  che
 individui fatti  preclusivi  della fruizione del beneficio ulteriori e diversi
 rispetto alle  specifiche  previsioni  ivi  contenute"  (Cass.  n.  22870  del
 2006). Sul  punto  più  specifico,  riguardante la fattispecie di "condono di
 condono", la  Corte  ha  stabilito  una  regola  generale secondo la quale "il
 condono fiscale,  essendo  un  accertamento  straordinario  o  eccezionale, in
 deroga alle   norme   generali   ed   ordinarie,   di  un  rapporto  giuridico
 tributario, non  e'  ammissibile,  in  mancanza  di  un'esplicita disposizione
 legislativa, relativamente   a  un  altro  condono:  consentire  un  ulteriore
 accertamento straordinario,   derivante   da   una  legge  successiva,  di  un
 rapporto già  accertato  in  via  straordinaria,  equivarrebbe,  infatti,  ad
 ammettere un'eccezione di secondo grado" (Cass. n. 21238 del 2006).
     A questa   regola   generale  sono  state,  tuttavia,  individuate  alcune
 eccezioni.
     E' stato   così  stabilito  che  "non  rientrano  nel  concetto  di  lite
 pendente, e  non  sono pertanto suscettibili di definizione agevolata ai sensi
 dell'art.  16 della  L.  27  dicembre  2002,  n.  289,  le controversie aventi ad oggetto
 esclusivamente la   liquidazione,   senza   applicazione   di   sanzioni,   di
 dichiarazioni integrative  presentate  dal  contribuente  in  occasione  di un
 precedente provvedimento  di  condono  (nella specie, quello previsto dal D.L.
 10 luglio  1982,  n.  429, convertito in L. 7 agosto 1982, n. 516), a meno che
 la controversia  non  investa l'interpretazione e la portata applicativa della
 domanda di  condono  originariamente  presentata:  in  tal  caso, infatti, non
 esaurendosi la   lite   nell'esatta  determinazione  delle  somme  dovute  dal
 contribuente ai  fini  della definizione agevolata, oggetto della controversia
 non e'  esclusivamente  l'attività  vincolata  volta  alla  mera applicazione
 della legge  attraverso  l'esecuzione  di  operazioni  di  calcolo  sulla base
 degli importi  dichiarati  dal  contribuente"  (Cass.  n.  15843 del 2006). Ed
 ancora, pur     confermandosi    la    non    ammissibilità,    di    regola,
 dell'"applicabilità di   un  condono  ad  una  controversia  concernente  una
 cartella di  pagamento  relativa  ad un precedente condono", "ciò non toglie,
 però", ad  avviso  della Corte, "che in un momento successivo possa insorgere
 una nuova   controversia,   effettiva  e  non  meramente  apparente,  relativa
 all'applicazione della  normativa  di  condono  oppure  all'interpretazione  o
 alla valutazione  della  dichiarazione  integrativa. In tal caso, pertanto, si
 e' in  presenza  di  una  lite  pendente  suscettibile di definizione ai sensi
 dell'art. 16,  comma  3,  lettera  a),  della L. 27 dicembre 2002, n. 289, con
 conseguente sospensione  dei  termini  di impugnazione in base al disposto dal
 comma 6  del  citato  art.  16 (nella fattispecie, si trattava di controversia
 concernente una    cartella   di   pagamento   relativa   alla   dichiarazione
 integrativa presentata  ai  sensi  della  L.  30  dicembre  1991,  n. 413, che
 l'ufficio aveva   ritenuto   potesse   valere   soltanto   come  dichiarazione
 integrativa semplice  e  non  come  istanza di definizione automatica)" (Cass.
 n. 20785  del  2005;  nello  stesso  senso,  se  pur  con riferimento ad altra
 fattispecie concreta, Cass. n. 8591 del 2006).
 Così anche,  ribadendo  che  "le  controversie  aventi  ad  oggetto  la  mera
 liquidazione delle   dichiarazioni   integrative   accolte  in  virtù  di  un
 precedente condono  non  rientrano  nel  concetto  di  lite pendente, ai sensi
 dell'art. 16  della  L.  27  dicembre  2002,  n.  289,  e  non  sono  pertanto
 suscettibili di  definizione  agevolata, ne' di sospensione ai sensi del comma
 sesto della  medesima  disposizione  (come sostituito dall'art. 5-bis, lettera
 l), n.  8),  del  D.L.  24 dicembre 2002, n. 282, convertito in L. 21 febbraio
 2003, n.   27)",   si  e'  escluso  che  tale  regola  potesse  valere  se  la
 controversia investe    "un    provvedimento    che,    pur    se    originato
 dall'applicazione di   una   precedente   normativa   di  condono,  ha  natura
 impositiva, o  perche'  costituisce  l'unico  atto  con  cui l'Amministrazione
 esercita la  pretesa  tributaria, o perche' la vis impositiva e' resa evidente
 dall'applicazione di  sanzioni"  (Cass.  n.  8275 e n. 2962 del 2006). Fino ad
 affermare che  "non  può  escludersi  la  sussistenza di una lite pendente in
 riferimento all'impugnazione   di   una   cartella  esattoriale,  qualora  nel
 relativo giudizio  si  discuta  dell'applicazione  di una precedente normativa
 di condono"  (Cass.  n.  10537  del 2006; vd. anche in una prospettiva analoga
 Cass. n. 10539 del 2006).
     Si e'  così  formato,  pur  non senza qualche incertezza, un orientamento
 che privilegia  un'interpretazione  favorabilis della normativa premiale, tesa
 a ridurre   al   minimo   le   situazioni   "astrattamente"  preclusive  della
 possibilità del   contribuente   di   potersi  avvalere  della  procedura  di
 definizione della  lite  fiscale  prevista  dalla  legge  e  ad  assumere come
 "criterio guida"   per   un   giudizio  sulla  definibilità  della  specifica
 controversia l'analisi "caso per caso" delle singole fattispecie litigiose.
     In questa  prospettiva,  il  giudizio  relativo  all'applicabilità  della
 sospensione dei  termini  di  impugnazione ex art. 16 della L. n. 289 del 2002
 ad una  determinata  controversia - che richiede una valutazione ex ante della
 definibilità della  lite,  la  quale  non  può  sovrapporsi alla valutazione
 dell'Amministrazione finanziaria   destinataria   della  domanda  di  condono,
 quando ne  sia  in  corso  l'istruttoria  o quando la domanda stessa sia stata
 respinta con  provvedimento  impugnato  innanzi al giudice competente (come e'
 nel caso  di  specie)  -  deve  necessariamente  risolversi  in un'indagine su
 fatti "astrattamente" preclusivi della definibilità della lite.
     Sicche', con   riferimento  alla  fattispecie  in  esame,  deve  ritenersi
 "astrattamente" condonabile  la  lite  e,  quindi,  applicabile la sospensione
 dei termini  disposta  dalla legge premiale, con la conseguente ammissibilità
 del ricorso per cassazione in esame:
 
        a) tenuto    conto,    secondo   gli   orientamenti   giurisprudenziali
 surriportati, che   il   fatto   che   la   controversia   in   atto  concerna
 l'applicazione di  una  precedente  normativa  di condono, non preclude di per
 se' la  possibilità  per  il  contribuente  di  avvalersi  della procedura di
 definizione della  lite  prevista  dall'art.  16 della L. n. 289 del 2002 (vd.
 Cass. n.  10537  del  2006),  b)  e considerato che la controversia de qua non
 appare prima  facie  relativa  ad  una mera liquidazione di imposta sulla base
 della dichiarazione  del  contribuente,  stante  la non irrilevante differenza
 tra la  pretesa  tributaria azionata dall'Amministrazione finanziaria e quanto
 pagato direttamente  dal  contribuente medesimo in sede di presentazione della
 precedente domanda  di  condono.  Resta  salva  la  valutazione,  riservata al
 giudice competente,  se,  nel  caso  di specie, la lite sia "definibile" anche
 "in concreto".
 
     Tanto stabilito,  e'  possibile  passare  all'esame della questione per la
 quale la  causa  e'  stata  sottoposta  alla  valutazione  delle Sezioni Unite
 della Corte  e,  cioe',  se,  nel  vigore della disciplina del procedimento di
 riscossione mediante  ruoli  anteriore  al  D.Lgs. n. 46 del 1999, l'avviso di
 mora notificato  al  contribuente  sia  nullo  a  causa della mancata prevista
 notifica, al medesimo contribuente, della cartella di pagamento.
     La questione  che  certamente  può  ritenersi  questione  di  massima  di
 rilevante importanza   e'   rimessa  all'esame  delle  Sezioni  Unite  per  il
 rilevato contrasto   esistente   in   proposito  all'interno  della  Corte,  e
 specialmente nella  Sezione  tributaria,  contrasto  che  fa riferimento ad un
 triplice orientamento:
 
        a) un  primo,  secondo  il  quale  la  mancata  previa  notifica  della
 cartella sarebbe   sostanzialmente   irrilevante,   stante   la  possibilità,
 normativamente prevista,  che  il  contribuente impugni, insieme all'avviso di
 mora, anche  l'atto  presupposto  omesso,  opponendo  tutte  le  eccezioni che
 avrebbe potuto  opporre  nell'impugnare quest'ultimo, ove esso gli fosse stato
 regolarmente notificato (in particolare, Cass. n. 7533 e n. 16464 del 2002);
        b) un  secondo,  secondo  il  quale  la  mancata  previa notifica della
 cartella determinerebbe  in  ogni  caso  la  nullità  dell'avviso di mora (in
 particolare, Cass. n. 2798 e 7649 del 2006);
        c) un  terzo,  secondo  il  quale  l'avviso di mora non preceduto dalla
 notifica della  cartella  sarebbe  valido  solo a condizione che esso contenga
 tutti gli  elementi  propri  della  cartella ed utili all'individuazione della
 specifica pretesa  tributaria  e delle relative ragioni (in particolare, Cass.
 n. 1430  del  2003;  nello  stesso  senso, anche se in relazione a fattispecie
 parzialmente diversa, Cass. n. 15858 del 2005).
 
     La soluzione  della  questione  richiede un'attenta interpretazione di una
 serie di  norme  di diritto sostanziale e processuale, nella loro formulazione
 previgente alla  riforma  disposta  dal  D.Lgs.  n.  46  del 1999, che ha, tra
 l'altro, soppresso l'avviso di mora.
     Sotto il primo profilo (diritto sostanziale) sono da considerare:
 
        a) l'art.  25  del  D.P.R.  n.  602  del 1973 che nel testo applicabile
 ratione temporis,  disponeva:  "L'esattore,  non  oltre  il  giorno cinque del
 mese successivo   a  quello  nel  corso  del  quale  il  ruolo  gli  e'  stato
 consegnato, deve  notificare  al  contribuente  la  cartella  di pagamento. La
 cartella deve   indicare  il  tributo,  il  periodo  d'imposta,  l'imponibile,
 l'aliquota applicata  e  l'ammontare  della  relativa  imposta,  l'importo dei
 versamenti diretti  effettuati,  le  somme dovute dal contribuente a titolo di
 imposta nonche'  per  interessi, sopratasse e pene pecuniarie, la ripartizione
 in rate,  la  specie  del  ruolo,  e  ogni  altro  elemento  in conformità ai
 modelli approvati  con  decreto  del Ministro per le finanze, pubblicato nella
 Gazzetta Ufficiale";
        b) gli  artt.  45,  comma  1,  e 46, comma 1, del medesimo decreto che,
 sempre nel testo applicabile ratione temporis, disponevano rispettivamente:
 "Per la   riscossione  delle  imposte  non  pagate  nei  modi  e  nei  termini
 stabiliti l'esattore  procede  all'espropriazione forzata in virtù del ruolo,
 previa notificazione  dell'avviso  di  mora",  e "L'esattore prima di iniziare
 l'espropriazione forzata  nei  confronti del debitore moroso deve notificargli
 un avviso  contenente  l'indicazione  del  debito,  distintamente per imposte,
 sopratasse, pene   pecuniarie,  interessi,  indennità  di  mora  e  spese,  e
 l'invito a pagare entro cinque giorni";
        c) infine,  l'art.  30,  comma  3,  del  medesimo  decreto  (nel  testo
 modificato dall'art.  5,  comma  4,  lettera  a),  del  D.L.  n. 669 del 1996,
 convertito con   L.  n.  30  del  1997,  applicabile  ratione  temporis),  che
 disponeva: "L'indennità  di  mora e' dovuta dopo il decorso di sedici giorni,
 ovvero sessanta  giorni  se  l'imposta  e'  stata  liquidata  ai  sensi  degli
 articoli 36-bis  e  36-ter  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica 29
 settembre 1973,   n.  600  dalla  notificazione  dell'avviso  di  mora  quando
 l'esattore non abbia notificato la cartella di pagamento...".
 
     Sotto il secondo profilo (diritto processuale) sono da considerare:
 
        a) l'art.  16,  comma  3,  del  D.P.R. n. 636 del 1972, come sostituito
 dall'art. 7  del  D.P.R.  739  del  1981 (previgente contenzioso), a norma del
 quale "Il  ricorso  contro  l'ingiunzione,  il  ruolo  e  l'avviso  di mora e'
 ammesso anche  per  motivi  diversi  da  quelli  relativi  a  vizi loro propri
 soltanto se   tali   atti   non  siano  stati  preceduti  dalla  notificazione
 dell'avviso di  accertamento  o  dell'avviso  di  liquidazione della imposta o
 del provvedimento che irroga la sanzione";
        b) l'art.  19,  comma  3,  del  D.Lgs. n. 546 del 1992 (vigente sistema
 processuale tributario),  a  norma  del  quale  "Gli  atti  diversi  da quelli
 indicati non  sono  impugnabili autonomamente. Ognuno degli atti autonomamente
 impugnabili (tra  i  quali  e'  elencato,  al comma 1, lettera e), l'avviso di
 mora) può  essere  impugnato  solo  per vizi propri. La mancata notificazione
 di atti   autonomamente   impugnabili,   adottati   precedentemente   all'atto
 notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo".
 
     Dall'esame delle  norme  di  diritto  sostanziale  emerge con evidenza una
 differenza strutturale   e   funzionale   tra  i  due  atti:  la  cartella  e'
 inquadrata nella  disciplina  della  riscossione  mediante  ruoli; l'avviso di
 mora e'  inquadrato  nella  disciplina  della  riscossione  coattiva  mediante
 espropriazione forzata.  Il  primo  atto  costituisce  il  presupposto  per la
 notifica del  secondo,  serve  a portare a diretta conoscenza dell'interessato
 la pretesa   tributaria  iscritta  nei  ruoli  ed  ha,  quindi,  un  contenuto
 necessariamente più  ampio  dell'altro,  la  cui  notifica  e' - a differenza
 della notificazione  della  cartella  -  meramente eventuale, essendo prevista
 per il  caso  in  cui il contribuente, reso edotto dell'imposta dovuta, non ne
 abbia eseguito spontaneamente il pagamento nei termini indicati dalla legge.
     Tanto basta  per  escludere  che  l'avviso  di  mora  possa legittimamente
 essere utilizzato  in  funzione  di (ossia come atto sostitutivo o equivalente
 della) cartella    di   pagamento   (della   quale   sia   stata   omessa   la
 notificazione): ammettere  l'equipollenza  tra  avviso  di  mora e cartella di
 pagamento comprometterebbe,  d'altro  canto,  in modo serio la doverosa tutela
 dei diritti  del  contribuente  -  garantita dallo "statuto del contribuente",
 al quale  va  riconosciuto  un  "valore forte" nella gerarchia materiale delle
 fonti del  diritto  -,  per il diverso, più ridotto, termine (cinque giorni),
 assegnato dall'avviso  di  mora  per  assolvere il debito tributario (anche se
 le conseguenze  di  un'"arbitraria" sostituzione della cartella non notificata
 con l'avviso  di  mora  risulterebbero  attenuate dalla modifica introdotta al
 comma 3  dell'art.  30  del  D.P.R.  n.  602  del  1973, dall'art. 5, comma 4,
 lettera a),  del  D.L. n. 669 del 1996, convertito con L. n. 30 del 1997 - che
 nel caso  di  specie  e'  applicabile  ratione  temporis  -  che ha elevato il
 termine per  la  mora  a  sedici  giorni o a sessanta se la cartella omessa si
 riferisca ad  una  delle  ipotesi di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R.
 n. 600 del 1973).
     Può dirsi,   quindi,   che  la  legge  non  consente  all'Amministrazione
 finanziaria di  scegliere  se  utilizzare  (indifferentemente) l'uno o l'altro
 strumento (di  riscossione),  che  operano  su  piani nettamente distinti - la
 riscossione mediante  ruoli  tramite  la  cartella,  la  riscossione  mediante
 espropriazione forzata  per  mezzo dell'avviso di mora -, ma detta una precisa
 sequenza procedimentale,  nella  quale l'esercizio della pretesa tributaria si
 dipana dall'atto  impositivo  alla  cartella di pagamento (che in alcuni casi,
 quali quelli  previsti  dagli  artt.  36-bis  e  36-ter  del D.P.R. n. 600 del
 1973, e'   essa  stessa  atto  impositivo,  non  essendo  necessario  che  sia
 preceduta da  alcun  altro  atto)  all'(eventuale)  avviso di mora. Il mancato
 rispetto della   precisata  sequenza  determina  sicuramente  un  vizio  della
 procedura di  riscossione,  in  quanto  essa  verrebbe  a  svolgersi  in  modo
 difforme dallo schema normativo.
     Diverso discorso  e',  invece,  quello  se  tale vizio si traduca (o meno)
 nella nullità dell'atto non preceduto dalla notifica dell'atto presupposto.
     Un'interpretazione che   si   arrestasse   alla  lettera  della  ricordata
 disposizione di  cui  al  comma  3  dell'art.  30  del  D.P.R. n. 602 del 1973
 potrebbe condurre   a   ritenere  che  l'omessa  notifica  della  cartella  di
 pagamento non  determini  la  nullità  dell'avviso  di  mora, ma realizzi una
 causa di   giustificazione   dell'(apparente)  "morosità"  del  contribuente,
 prevedendo che   l'indennità   di   mora  possa  essere  posta  a  carico  di
 quest'ultimo solo  dopo  il  decorso  di  sedici  giorni  dalla  notificazione
 dell'avviso di  mora,  ovvero, se trattasi di imposta liquidata ai sensi degli
 artt. 36-bis  e  36-ter  D.P.R.  n.  600 del 1973, dopo il decorso di sessanta
 giorni dalla  stessa  data  (la differenza del termine trova spiegazione nella
 considerazione che,  nel  primo  caso,  il  contribuente  dovrebbe  già  aver
 ricevuto l'avviso  di  accertamento  o  di liquidazione ed aver, quindi, preso
 conoscenza della  pretesa  tributaria  svolta  nei  suoi confronti, mentre nel
 secondo caso,  la  cartella  ha  funzione  di  "primo"  atto  impositivo).  La
 previsione normativa  di  cui  al  comma  3 dell'art. 30 del D.P.R. n. 602 del
 1973 non  e',  tuttavia, determinante per escludere la nullità dell'avviso di
 mora non  preceduto  dalla  notifica della cartella di pagamento, perche' tale
 disposizione deve  essere  letta  nel quadro di un'interpretazione sistematica
 e (soprattutto)  costituzionalmente  conforme  della  disciplina sostanziale e
 processuale della   fattispecie  in  esame.  In  particolare  assume  notevole
 importanza il  fatto  che  alla  cartella  di pagamento e' stata attribuita la
 fondamentale funzione  di  rendere  conoscibile  al  contribuente  la  pretesa
 tributaria entro  un  tempo predeterminato normativamente (tanto più nel caso
 in cui  essa  costituisca  l'atto  impositivo  con  il  quale  la  pretesa  si
 manifesta per  la  prima  volta  nella  sfera  di conoscenza del contribuente,
 come nelle  ipotesi  regolate  dagli  artt.  36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600
 del 1973),  con  la  conseguenza  che  l'omessa  notifica  della cartella può
 determinare la    decadenza    dell'Amministrazione   dalla   stessa   pretesa
 tributaria. Di  questa  realtà  normativa non può dubitarsi dopo la sentenza
 n. 280   del  2005  della  Corte  Costituzionale  -  con  la  quale  e'  stata
 dichiarata l'illegittimità  costituzionale  dell'art.  25  del  D.P.R. n. 602
 del 1973  (come  modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001) nella parte in cui non
 prevede un   termine,   fissato  a  pena  di  decadenza,  entro  il  quale  il
 concessionario deve  notificare  al  contribuente  la  cartella  di  pagamento
 delle imposte  liquidate  ai sensi dell'art. 36-bis del D.P.R. n. 600 del 1973
 - e  l'intervento  legislativo  realizzato  con l'art. 1, commi 5-bis e 5-ter,
 del D.L.  n.  106  del 2005, convertito nella L. n. 156 del 2005, con il quale
 e' stata  esplicitata  la  regola  secondo  la  quale  la  legittimità  della
 pretesa erariale  ex  art.  36-bis  del  D.P.R. n. 600 del 1973 e' subordinata
 alla notificazione  della  cartella  di  pagamento  al  contribuente  entro un
 termine di   decadenza,   dovendo   l'ordinamento  garantire  l'interesse  del
 medesimo contribuente   alla  conoscenza,  in  termini  certi,  della  pretesa
 tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni.
     Siffatta regola,  secondo  questa  Corte,  "e'  applicabile  anche  per  i
 giudizi pendenti  alla  data  di  entrata  in  vigore  della  detta  legge  di
 conversione n.  156  del 2005 che concernono le dichiarazioni presentate entro
 il 31  dicembre  2001  (art.  36,  comma  2,  lettera b), del D.Lgs. n. 46 del
 1999), salvo  che  si  tratti di dichiarazioni per la cui liquidazione i ruoli
 siano stati  formati  e  resi  esecutivi entro il 30 settembre 1999. In questo
 caso occorre   distinguere:   a)   le  ipotesi  di  "rettifica  cartolare"  (o
 formale), per  le  quali  la  cartella  di pagamento deve essere notificata al
 contribuente, a  pena  di  decadenza,  entro  il  31  dicembre del quinto anno
 successivo a  quello  di presentazione della dichiarazione (ai sensi dell'art.
 43, comma   1,  del  D.P.R.  n.  600  del  1973,  nel  testo  vigente  ratione
 temporis); b)   le   ipotesi  di  "controllo  formale"  (o,  più  rettamente,
 cartolare), per   le   quali,  a  pena  di  decadenza,  deve  provvedersi  sia
 all'iscrizione a  ruolo  entro  il  31  dicembre  del quinto anno successivo a
 quello di  presentazione  della  dichiarazione  (secondo il combinato disposto
 degli artt.  17,  comma  1,  del  D.P.R.  n.  602  del 1973 e 43, comma 1, del
 D.P.R. n.  600  del  1973,  entrambi  nel testo vigente ratione temporis), sia
 alla notifica  della  cartella  di  pagamento  al contribuente entro il giorno
 cinque del  mese  successivo  a quello nel quale il ruolo sia stato consegnato
 al concessionario  a  norma dell'art. 24 del D.P.R. n. 602 del 1973" (Cass. n.
 16826 del  2006,  seguita  da  altre  conformi). Peraltro, questa Corte, sulla
 scorta della  sentenza  del  giudice  delle  leggi n. 107 del 1993, aveva già
 avuto modo  di  stabilire  il carattere perentorio del termine per la notifica
 del cartella  previsto  dall'art.  25  del  D.P.R.  n. 602 del 1973 (nel testo
 applicabile ratione  temporis,  anteriore  alle  modifiche apportate dall'art.
 11 del  D.Lgs.  n.  46  del  1999,  con  efficacia  dal  1  luglio 1999, e poi
 dall'art. 1,  comma  1, lettera b), del D.Lgs n. 193 del 2001, con efficacia a
 partire dal  29  giugno  2001),  il quale stabiliva che "l'esattore, non oltre
 il giorno  cinque  del  mese  successivo a quello nel corso del quale il ruolo
 gli e'  stato  consegnato,  deve  notificare  al  contribuente  la cartella di
 pagamento". "A   tale   conclusione",   secondo   la  Corte,  "concorrono  sia
 l'interpretazione letterale   e   logica   della   disposizione   che   quella
 teleologica, formulata   in  ragione  della  necessità  di  non  lasciare  il
 contribuente esposto  indefinitamente  all'azione  esecutiva del Fisco" (Cass.
 n. 10 e n. 15059 del 2004, n. 5097 del 2005).
     La descritta  situazione  e'  fortemente  ostativa  ad una interpretazione
 che consenta    di   ritenere   funzionalmente   "equivalente"   la   notifica
 dell'avviso di  mora  alla  notifica  della  cartella per il solo fatto che la
 norma processuale   consentirebbe   al   contribuente,   in   caso  di  omessa
 notificazione della  cartella,  di impugnare congiuntamente avviso e cartella:
 la decadenza  della  pretesa tributaria, connessa all'omissione della notifica
 della cartella  entro  il  termine  perentorio fissato dalla legge, esclude in
 radice la   legittimità   di   un   recupero   strumentale  dell'inosservanza
 procedimentale mediante la notifica dell'avviso di mora.
     Tanto, sotto il profilo del diritto sostanziale.
     Passando, ora,  all'esame  della  normativa processuale, viene in evidenza
 l'art. 19,  comma  3,  del D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione al significato
 da attribuire  alla  possibilità - espressamente prevista, come si e' visto -
 di impugnare  congiuntamente  l'avviso  di  mora  (atto  consequenziale)  e la
 cartella di   pagamento   (atto   presupposto)  non  notificata  (parzialmente
 difforme era  la  formulazione  dell'art.  16  del previgente contenzioso, che
 prevedeva l'impugnazione  dell'atto  successivo  per  vizi  relativi agli atti
 precedenti dei quali fosse stata omessa la notificazione).
     La norma,  definita  "infelicissima"  da un'autorevole dottrina, e' frutto
 di un   affrettato   compromesso   redazionale   dopo   che   la   Commissione
 parlamentare, chiamata   ad  esprimere  il  parere  sul  progetto  di  decreto
 legislativo per  la  riforma  del  processo tributario, ne aveva modificato il
 testo originario,   invero   assai   più  chiaro  di  quello  definitivamente
 approvato. Nella  formulazione  che fu sottoposta all'esame parlamentare, quel
 che oggi  e'  il  comma 3 dell'art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, si limitava
 a prevedere  la  non  autonoma  impugnabilità  degli  atti  diversi da quelli
 indicati dal  comma  1,  stabilendo  anche  che  ognuno  di  tali atti potesse
 essere impugnato  "solo  per  vizi propri o per la mancata notificazione degli
 atti autonomamente  impugnabili  che  per  legge avrebbero dovuto precederli":
 ad una  parte  della  dottrina e' sembrato che con la predetta formulazione si
 volesse (correttamente  ed  efficacemente,  sotto  il profilo della tutela del
 contribuente) equiparare  l'omissione  della notifica dell'atto presupposto ad
 un vizio    "proprio"    dell'atto   successivo   da   far   valere   mediante
 l'impugnazione di quest'ultimo teso ad ottenerne l'annullamento.
     Sarebbe errato,  tuttavia,  credere  che  nella diversa formulazione della
 norma, poi  in  concreto inserita nel testo di legge, siffatto significato sia
 "scomparso". Invero,  nonostante  la  indubbia  insufficienza  redazionale, il
 risultato normativo,   se   rettamente   inteso,  e',  sotto  il  profilo  del
 significato, più   ampio,   così   da  includere  quel  contenuto  di  senso
 attribuito all'originaria stesura.
     La disposizione  in  esame  innanzi tutto non impone al contribuente, come
 emerge con   chiarezza   dall'uso  del  verbo  "consentire",  alcun  onere  di
 impugnare cumulativamente  l'atto  successivo  e  l'atto presupposto del quale
 sia stata  omessa  la notificazione e nemmeno suggerisce un simile percorso di
 contestazione: una     siffatta    interpretazione    sarebbe    in    patente
 contraddizione con  la  ratio  del  nuovo processo tributario, che e' ispirato
 alla tutela  dei  diritti del contribuente (e in particolare dell'inalienabile
 diritto di   difesa),  nel  quadro  di  una  assimilazione  ai  caratteri  del
 processo civile,  nonche'  con i principi "forti" che, alla luce L. n. 212 del
 2000, caratterizzano  l'attuale  sistema  tributario  nella  direzione  di  un
 "riequilibrio" delle  posizioni  delle  parti  in  contraddittorio. Imporre al
 contribuente l'impugnazione   cumulativa   dell'atto  successivo  e  dell'atto
 presupposto del  quale  sia  stata  omessa  la  notificazione, significherebbe
 privilegiare immotivatamente  l'Amministrazione  finanziaria, recuperandone in
 via processuale  l'azione  impositiva esercitata in violazione della specifica
 scansione procedimentale   dettata   dalle   regole  di  diritto  sostanziale:
 sarebbe un  modo  per  togliere  sostanza  e  vigore  a  quelle  regole  e per
 rendere, in     ultima     analisi,     assolutamente     "libero"     l'agire
 dell'Amministrazione.
     Pur tenendo  conto  dell'infelice ed approssimativa formulazione, la norma
 appare, tuttavia,  manifestamente  animata  da  una  volontà  di favorire una
 più rapida   soluzione   delle   controversie,   offrendo   al   contribuente
 l'opportunità affidata  alla  sua  libera scelta - di contrastare con un solo
 atto la  pretesa  tributaria ed ottenere così una pronuncia che non esaurisca
 i propri  effetti  nella  dichiarazione  di annullamento dell'atto successivo,
 ma si  estenda  anche  all'atto  presupposto,  investendo  radicalmente  e per
 intero la  pretesa  dell'Amministrazione  finanziaria.  Si  tratta,  tuttavia,
 solo di  una  facoltà  riconosciuta al contribuente, al quale - coerentemente
 con il  "principio  della  domanda"  che  caratterizza  il processo tributario
 riformato -   e'   lasciata  la  electio  tra  l'uno  o  l'altro  percorso  di
 contestazione: impugnare  il  solo  atto  successivo  (notificatogli)  facendo
 valere il  vizio  derivante  dall'omessa  notifica dell'atto presupposto - che
 costituisce vizio  procedurale  per interruzione della sequenza procedimentale
 caratterizzante l'azione  impositiva  e predisposta dalla legge a garanzia dei
 diritti del  contribuente  (e  per questo vincolante per l'Amministrazione, ma
 disponibile da  parte  del  garantito  mediante  l'esercizio dell'impugnazione
 cumulativa) -,   oppure  impugnare  con  l'atto  consequenziale  anche  l'atto
 presupposto (non   notificato)   facendo   valere   i   vizi   che   inficiano
 quest'ultimo e  contestando  alla  radice  il  debito tributario reclamato nei
 suoi confronti.
     Il giudice   tributario   investito  dell'impugnazione,  per  conseguenza,
 dovrà verificare  la  scelta  operata  dal  contribuente,  interpretandone la
 domanda. Ove   questi,   impugnando  l'atto  successivo  notificatogli,  abbia
 contestato la  pretesa  dell'Amministrazione  finanziaria,  la  pronuncia  del
 giudice dovrà  riguardare  l'esistenza,  o no, di tale pretesa. Al contrario,
 se il  contribuente  abbia  fatto  valere  il vizio della procedura consistito
 nell'omessa notifica    dell'atto    presupposto   (e   tale   vizio   risulti
 effettivamente sussistente  in  esito all'istruttoria processuale), per questo
 solo vizio  l'atto  consequenziale  impugnato  dovrà essere annullato. A tale
 annullamento potrà   (o  meno)  conseguire  la  definitiva  estinzione  della
 pretesa tributaria  a  seconda  se  i  termini  di  decadenza  (eventualmente)
 previsti dall'ordinamento  siano  già  decorsi  o  siano  ancora pendenti: in
 questo secondo   caso,   infatti,   l'Amministrazione   potrà   rinnovare  la
 procedura secondo  la  corretta  sequenza  procedimentale  e  provvedere  alla
 notifica dell'atto precedentemente omessa.
     Si pone  a  questo  punto  il  problema  - dato che l'avviso di mora e' un
 atto dell'esattore,  al  quale  e'  anche rimessa l'attività di notificazione
 della cartella  di  pagamento  -  se  l'azione  del  contribuente debba essere
 svolta (esclusivamente       o      indifferentemente)      nei      confronti
 dell'Amministrazione finanziaria  o  del  concessionario o necessariamente nei
 confronti di entrambi.
     Tenendo presente  l'art.  19,  comma  3,  del  D.Lgs.  n.  546  del  1992,
 potrebbe dirsi,   in   prima   approssimazione,   che   l'individuazione   del
 legittimato passivo   dipende   dalla   scelta   in  concreto  effettuata  dal
 contribuente nell'impugnare  l'avviso  di  mora: ossia dal fatto se egli abbia
 dedotto l'omessa  notifica  dell'atto  presupposto, o abbia contestato, in via
 mediata, la  stessa  pretesa tributaria azionata nei suoi confronti. In questo
 secondo caso,    infatti,    non    potrebbe   esservi   dubbio   che   spetti
 all'Amministrazione, e  non  al  concessionario,  la  legittimazione  passiva,
 essendo la  stessa  titolare  del  diritto di credito oggetto di contestazione
 nel giudizio,  mentre  il  secondo e', come e' stato rilevato da questa Corte,
 un (mero)   destinatario   del   pagamento   (vd.,  sia  pur  in  una  diversa
 fattispecie, ma  con  enunciazione di principi che possono ritenersi rilevanti
 nel caso  de  quo,  Cass.  n.  11746  del  2004),  o,  più  precisamente, con
 riferimento allo  schema  dell'art.  1188,  comma  1,  del  codice  civile, il
 soggetto (incaricato  dal  creditore  e) autorizzato dalla legge a ricevere il
 pagamento (vd. Cass. n. 21222 del 2006).
     Vi e',  peraltro,  da  rilevare  che a norma dell'art. 40 del D.P.R. n. 43
 del 1988,  prima,  e  dell'art.  39  del  D.Lgs.  n.  112  del  1999, poi, "il
 concessionario, nelle   liti   promosse  contro  di  lui  che  non  riguardano
 esclusivamente la  regolarità  o  la  validità  degli  atti  esecutivi, deve
 chiamare in  causa  l'ente  creditore interessato; in mancanza, risponde delle
 conseguenze della  lite":  in buona sostanza, se l'azione del contribuente per
 la contestazione   della   pretesa   tributaria   a   mezzo  dell'impugnazione
 dell'avviso di   mora   e'   svolta   direttamente   nei  confronti  dell'ente
 creditore, il  concessionario  e'  vincolato  alla decisione del giudice nella
 sua qualità  di  adiectus  solutionis causa (vd. Cass. n. 21222 del 2006); se
 la medesima  azione  e'  svolta  nei  confronti del concessionario, questi, se
 non vuole  rispondere  dell'esito  eventualmente  sfavorevole della lite, deve
 chiamare in causa l'ente titolare del diritto di credito.
     In ogni  caso  l'aver il contribuente individuato nell'uno o nell'altro il
 legittimato passivo  nei  cui  confronti  dirigere la propria impugnazione non
 determina l'inammissibilità  della  domanda,  ma  può comportare la chiamata
 in causa   dell'ente  creditore  nell'ipotesi  di  azione  svolta  avverso  il
 concessionario, onere  che,  tuttavia,  grava  su  quest'ultimo,  senza che il
 giudice adito debba ordinare l'integrazione del contraddittorio.
     La risposta  non  può  essere diversa per il caso in cui il contribuente,
 a fondamento   dell'impugnazione   dell'atto   consequenziale,  abbia  dedotto
 l'omessa notificazione dell'atto presupposto.
     Invero il  "vizio"  in  questione  non  può  essere  ridotto  alla (mera)
 dimensione di  "vizio  proprio  dell'atto", come se fosse, ad esempio, analogo
 ad un  vizio  riferito  alla  (pretesa)  difformità  del  contenuto dell'atto
 rispetto allo  schema  legislativo:  si  tratta di qualcosa di più rilevante,
 come in  precedenza  si  e'  cercato  di  illustrare.  Si  tratta di un "vizio
 procedurale" che,  incidendo  sulla  sequenza  procedimentale  stabilita dalla
 legge a  garanzia  del  contribuente,  determina  l'illegittimità dell'intero
 processo di  formazione  della  pretesa  tributaria,  la  cui  correttezza  e'
 assicurata mediante  il  rispetto dell'ordinato progredire delle notificazioni
 degli atti,  destinati,  con  diversa  e  specifica funzione, a portare quella
 pretesa nella  sfera  di conoscenza del contribuente e a rendere possibile per
 quest'ultimo un  efficace  esercizio del diritto di difesa. Si tratta, quindi,
 pur sempre  di  un  vizio  che  ridonda sulla stessa sussistenza della pretesa
 tributaria, potendone  determinare  l'eventuale  decadenza:  tanto più quando
 sia impugnato  un  avviso di mora facendo valere l'omessa notificazione di una
 cartella emessa  ai  sensi  degli  artt. 36-bis o 36-ter del D.P.R. n. 600 del
 1973, la  quale  ha  valore  di  vero  e  proprio atto di esercizio del potere
 impositivo, essendo  il  primo  atto  notificato  al contribuente in relazione
 alla pretesa erariale.
     Sicche' la  legittimazione  passiva  resta  in  capo all'ente titolare del
 diritto di  credito  e  non  al concessionario il quale, se fatto destinatario
 dell'impugnazione, dovrà  chiamare  in  giudizio  il  predetto  ente,  se non
 vuole rispondere  dell'esito  della lite, non trattandosi nella specie di vizi
 che riguardano  esclusivamente  la  regolarità  o  la  validità  degli  atti
 esecutivi:
 l'enunciato principio  di  responsabilità  esclude,  come  già detto, che il
 giudice debba  ordinare  ex  officio  l'integrazione  del  contraddittorio, in
 quanto non  sussiste  tra  ente  creditore e concessionario una fattispecie di
 litisconsorzio necessario,    anche    in    ragione    dell'estraneità   del
 contribuente al   rapporto   (di  responsabilità)  tra  l'esattore  e  l'ente
 impositore.
     A conclusione  di  tutte le considerazioni svolte può essere formulato il
 seguente principio   di   diritto:   "La   correttezza   del  procedimento  di
 formazione della  pretesa  tributaria  e'  assicurata  mediante il rispetto di
 una sequenza  ordinata  secondo  una  progressione di determinati atti, con le
 relative notificazioni,  destinati,  con diversa e specifica funzione, a farla
 emergere e  a  portarla nella sfera di conoscenza dei destinatari, allo scopo,
 soprattutto, di  rendere  possibile  per  questi  ultimi un efficace esercizio
 del diritto   di   difesa.   Nella   predetta   sequenza,   l'omissione  della
 notificazione di   un  atto  presupposto  costituisce  vizio  procedurale  che
 comporta la  nullità  dell'atto  consequenziale  notificato  e  tale nullità
 può essere  fatta  valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare,
 per tale  semplice  vizio,  l'atto  consequenziale  notificatogli  - rimanendo
 esposto all'eventuale  successiva  azione  dell'amministrazione,  esercitabile
 soltanto se   siano   ancora   aperti   i   termini   per  l'emanazione  e  la
 notificazione dell'atto  presupposto  -  o  di impugnare cumulativamente anche
 quest'ultimo (non   notificato)   per   contestare   radicalmente  la  pretesa
 tributaria: con  la  conseguenza  che  spetta  al  giudice  di merito - la cui
 valutazione se   congruamente  motivata  non  sarà  censurabile  in  sede  di
 legittimità -  interpretare  la  domanda proposta dal contribuente al fine di
 verificare se   egli   abbia   inteso   far   valere   la  nullità  dell'atto
 consequenziale in  base  all'una  o  all'altra  opzione.  L'azione può essere
 svolta dal  contribuente  indifferentemente  nei confronti dell'ente creditore
 o del  concessionario  e  senza  che  tra  costoro  si realizzi una ipotesi di
 litisconsorzio necessario,    essendo   rimessa   alla   sola   volontà   del
 concessionario, evocato  in  giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente
 creditore".
     Valutando il  caso  di  specie alla luce di tale principio, deve, in primo
 luogo prendersi  atto  che  l'impugnazione  originaria e' stata proposta tanto
 avverso l'Amministrazione,  quanto  avverso  il  concessionario,  il  quale ha
 partecipato ad  entrambi  i  gradi del giudizio di merito e che la sua mancata
 evocazione in  giudizio  avanti  a  questa Corte non impone, per quanto detto,
 l'integrazione del  contraddittorio.  In  secondo  luogo, deve riconoscersi il
 valore assorbente  del  primo  motivo  di  ricorso, con il quale si censura la
 sentenza impugnata   per  violazione  di  legge  proprio  con  riferimento  al
 denunciato vizio  dell'avviso  di  mora,  oggetto del ricorso introduttivo del
 giudizio, per  essere  stato  lo  stesso  notificato  senza  che  fosse  stata
 previamente notificata  al  contribuente  la  cartella  di  pagamento.  Questa
 circostanza l'essere  stata  omessa  la  notifica  della  cartella  -  non  e'
 oggetto di  contestazione,  così  come  non  vi  e'  dubbio  che  la società
 contribuente abbia  inteso  far  valere  tale  omessa  notifica  a  fondamento
 dell'impugnazione dell'avviso  di  mora  notificatole:  ciò  emerge  non solo
 dalla formulazione  del  primo  motivo  del  ricorso  per cassazione, ma dalla
 stessa sentenza  impugnata  che rigetta la censura fatta valere dalla società
 contribuente con  la  motivazione,  inadeguata  ma  rivelatrice della sostanza
 del ricorso  originario,  che  "l'avviso  di mora e' autonomamente impugnabile
 ai sensi  dell'art.  19  del  D.Lgs. n. 546 del 1992". Tanto comporta che, nel
 caso di  specie,  alla  luce  del principio di diritto dapprima affermato, non
 e' necessario  alcun  altro  accertamento di fatto, risultando chiaro tanto il
 vizio procedimentale  consistente  nell'avvenuta  notifica dell'avviso di mora
 senza la  previa  notifica  della  cartella  di  pagamento, quanto la volontà
 della società  contribuente  di  far valere tale vizio al fine di ottenere la
 dichiarazione di nullità dell'atto impugnato.
     Sicche' il  ricorso  in  esame deve essere accolto e la sentenza impugnata
 deve essere  cassata  e  non  essendo  necessario  alcun altro accertamento di
 merito, stante  il  carattere  assorbente  della  nullità dell'avviso di mora
 impugnato, la  causa  può  essere  decisa  nel merito, con l'accoglimento del
 ricorso originario della società contribuente.
     La complessità   della   vicenda   e   l'esistenza   del   contrasto   di
 giurisprudenza giustificano   la   compensazione   delle   spese   dell'intero
 giudizio.
 
                                     P.Q.M.
 
     La Corte  Suprema  di  Cassazione  accoglie  il ricorso, cassa la sentenza
 impugnata e,  decidendo  nel  merito,  accoglie  il  ricorso  originario della
 società contribuente. Compensa le spese dell'intero giudizio.