Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 4835depositata il 16 febbraio 2023
principio di non dispersione (o di acquisizione) della prova – potere-dovere del giudice di appello di esaminare un documento ritualmente prodotto in primo grado nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza nei propri scritti difensivi, mediante richiamo di esso nella parte argomentativa dei motivi formulati o delle domande ed eccezioni riproposte
FATTI DI CAUSA
D.B., C.E., A.M., T.M. e S.I. hanno proposto ricorso articolato in unico motivo avverso la sentenza n. 1883/2016 della Corte d’appello di Roma, pubblicata il 21 marzo 2016.
La Immobiliare B. s.r.l. ha notificato controricorso contenente altresì ricorso incidentale in unico motivo.
G.D. F. ha resistito notificando controricorso.
Tutti gli altri intimati indicati in epigrafe non hanno svolto attività difensive.
D.B., C.E., Maria A.A., T.M., S.I. ed altri, condomini del Condominio via G.C. 35 di Roma, convennero dinanzi al Tribunale di Roma l’Immobiliare B. s.r.l., domandando: di accertare incidentalmente che il tratto di via C.S., sul quale il Condominio ha ingresso secondario e che era stato utilizzato sino al 1992, quando ne era stato precluso l’uso da parte della convenuta, “è parte del demanio del Comune o, comunque, è via aperta al pubblico transito”; di “disporre a carico dell’Immobiliare B. s.r.l. la rimozione del cancello in ferro, della catena e di ogni altro oggetto o mezzo idoneo a diminuire la fruizione del libero passaggio tra il Condominio di via G.C. 35 di Roma e la via C.S.”; in subordine, di accertare “l’esistenza di una servitù di passaggio in favore del Condominio di via G.C. 35 e dei suoi condomini”. La convenuta Immobiliare B. s.r.l. si difese deducendo che sull’area in contesa erano apposti una catena senza lucchetto ed un cancello in legno di cui aveva la chiave di apertura anche il Condominio di via G.C. 35, al quale perciò non era precluso l’accesso, essendosi essa limitata, piuttosto, ad una utile gestione nel comune interesse.
Al giudizio hanno partecipato anche il Comune di Roma (costituitosi per vedere “tutelata la propria posizione e quella della intera collettività ove si accertasse che sia stato effettivamente ed abusivamente intercluso il transito lungo una via pubblica o privata, ma di pubblico uso in base all’istituto della dicatio ad patriam“) e R.C. (intervenuta adesivamente alle domande degli attori). A seguito della morte di una delle parti originarie, C.G. in V., il processo fu riassunto nei confronti dei suoi eredi G., M. e S. D. F.. Sono indicati in atti quali parti del giudizio anche A.G. e C.T..
Con sentenza n. 6354/2011 del 28 marzo 2011, il Tribunale di Roma accolse la domanda degli attori e condannò l’Immobiliare B. s.r.l. a rimuovere la catena e il cancello. Il giudice di primo grado affermò che dalla documentazione prodotta, ovvero, in particolare, dal decreto prefettizio del 16 gennaio 1952 e dalla relazione del geometra G. C., risultava che la parte di via C.S. in prossimità di via dei Monti Parioli è stata espropriata e così acquisita al patrimonio del Comune di Roma. Il Tribunale evidenziò ancora che il tratto di strada in contesa è posto all’interno dell’abitato, in quanto “prolungamento naturale” di via C.S., ed è “in comunicazione diretta con il suolo pubblico”, e cioè con la parte di via C.S. di cui risultava accertata la natura pubblica in forza del decreto di espropriazione, operando la presunzione di demanialità delle strade rientranti nel territorio comunale di cui all’art. 22 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F.
Propose appello in via principale l’Immobiliare B. s.r.l., contestando prioritariamente l’individuazione del tratto di strada oggetto di lite compiuta dal Tribunale, per essere lo stesso del tutto estraneo alla vicenda espropriativa citata, nonché la riconducibilità di tale area alla presunzione di demanialità stabilita dall’art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F, oltre a svolgere altre critiche in punto di qualificazione della pretesa e di legittimazione attiva e passiva.
Si costituivano D.B., C.E., A.M., T.M. e S.I., Roma Capitale e R.C., tutti chiedendo il rigetto dell’appello e quest’ultima proponendo altresì gravame incidentale in ordine alla compensazione delle spese di lite disposta in primo grado.
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza resa il 21 marzo 2016, ha accolto l’appello spiegato dalla Immobiliare B. s.r.l., rigettando la domanda degli attori, in quanto gli stessi non avevano prodotto nel giudizio di gravame “il loro fascicolo di primo grado, nel quale erano verosimilmente contenuti i documenti in forza dei quali è stata accolta dal Tribunale la loro domanda principale (in particolare il decreto prefettizio del 16 gennaio 1952 e la relazione del geometra C.), nonché gli altri documenti richiamati dagli appellati” nelle loro difese, che “la parte aveva l’onere di depositare”. La Corte di Roma ha aggiunto che tali documenti non risultavano prodotti neppure dalle altre parti costituite in appello, non avendo nemmeno Roma Capitale depositato il proprio fascicolo di primo grado. La sentenza impugnata ha così concluso che il collegio non disponeva degli “elementi per valutare la fondatezza della domanda degli attori, contestata dalla società appellante, in particolare per quanto concerne la natura della strada in questione”. La domanda degli attori era, dunque, “rimasta sfornita di qualsiasi supporto probatorio”. Né, secondo la Corte d’appello, emergevano “in atti elementi per l’eventuale accoglimento della domanda subordinata proposta dagli attori”, non essendo, tra l’altro, neppure “dato conoscere quali fossero i capitoli della prova articolata negli scritti difensivi di primo grado di parte attrice e, poi, espletata”. È stata comunque rigettata dai giudici di secondo grado la domanda di condanna degli attori- appellati per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., non sussistendone “le condizioni oggettive e soggettive”. L’unico motivo del ricorso di D.B., C.E., A.M., T.M. e S.I. avverso la sentenza n. 1883/2016 della Corte d’appello di Roma ha dedotto la violazione degli artt. 342 c.p.c., 2697 c.c. e 115 c.p.c.
Le parti depositarono memorie in vista dell’adunanza ex art. 380 bis.1. c.p.c. fissata per il giorno del 18 novembre 2021.
Con ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 del 9 maggio 2022, pronunciata all’esito di detta adunanza, la Seconda Sezione civile ha evidenziato la particolare rilevanza della questione sottesa al motivo del ricorso principale ed ha perciò rimesso alle Sezioni Unite la decisione, chiedendo di valutare quale incidenza abbia sui principi enunciati nelle sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013 l’introduzione del fascicolo telematico del processo e se tale eventuale incidenza non giustifichi l’opportunità di superare anche per i documenti analogici la conclusione secondo cui grava sull’appellante l’onere di produrre o ripristinare in appello i documenti già prodotti in primo grado, subendo egli, altrimenti, le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte.
È stata acquisita la relazione predisposta dall’Ufficio del massimario.
Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Corrado Mistri, ha depositato in data 13 dicembre 2022 conclusioni scritte motivate, chiedendo di accogliere il ricorso principale, con assorbimento del ricorso incidentale.
La controricorrente Immobiliare B. s.r.l. ha presentato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. L’unico motivo del ricorso di D.B., C.E., A.M., T.M. e S.I. denuncia la violazione degli artt. 342 c.p.c., 2697 c.c. e 115 c.p.c. I ricorrenti principali assumono che, alla stregua dei principi enunciati nelle sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013 delle Sezioni Unite, era l’appellante Immobiliare B. s.r.l. onerata di dimostrare la fondatezza del proprio gravame e di produrre perciò i documenti occorrenti per la decisione.
L’unico motivo del ricorso incidentale della Immobiliare B. s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c. e la conseguente contraddittoria motivazione, esponendo che la domanda risarcitoria per responsabilità aggravata meritava accoglimento in quanto si è in presenza di un “abuso del processo” da parte degli attori.
2. L’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022, pronunciata dalla Seconda Sezione civile, ha premesso che la questione delle conseguenze della mancata disponibilità da parte del giudice d’appello dei documenti posti a base della decisione di primo grado è propria delle sole prove precostituite, giacché i restanti atti di istruzione sono inseriti nel fascicolo d’ufficio (art. 168, comma 2, c.p.c.). I documenti, viceversa, sono inseriti in una sezione separata del fascicolo di parte (art. 74, comma 1, disp. att. c.p.c.), il quale può essere ritirato (secondo le modalità indicate dall’art. 169 c.p.c. – e cioè con autorizzazione del giudice o comunque al momento della rimessione della causa in decisione – e dall’art. 77 att. c.p.c.). Le parti o i loro difensori possono peraltro esaminare i documenti inseriti nei fascicoli delle altre parti e farsene rilasciare copia (art. 76 disp. att. c.p.c.).
2.1 La Seconda Sezione civile richiama i principi enunciati nelle sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013 di queste Sezioni Unite.
La sentenza 23 dicembre 2005, n. 28498, in particolare, considerava che, a seguito del processo legislativo di evoluzione dell’appello, lo stesso non rappresenta più, come nel sistema del codice di rito del 1865, il “mezzo” per “passare da uno all’altro esame della causa” e non può quindi limitarsi, al fine di ottenerne la riforma, ad una denuncia generica dell’ingiustizia dei capi appellati della sentenza di primo grado, dovendo piuttosto puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma “comunque” sostituiti dalla sentenza di secondo grado. Nel rinnovato contesto sistematico, l’onere probatorio dell’appellante non deve, perciò, essere individuato “con esclusivo e retrospettivo riferimento alla posizione da lui assunta nel giudizio di primo grado, con la conseguenza che se in quel giudizio l’appellante aveva assunto la qualità di convenuto, il suo onere probatorio rimarrebbe integro, anche nella successiva fase di gravame, quanto a tutti i fatti impeditivi o estintivi del diritto fatto valere dall’attore”. Al contrario, affermava la sentenza n. 28498 del 2005, “essendo l’appellante tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse alle singole soluzioni offerte dalla sentenza impugnata, il cui riesame è chiesto per ottenere la riforma del capo decisorio appellato, l’appello da lui proposto, in mancanza di tale dimostrazione deve essere, in base ai principi, respinto, con conseguente conferma sostitutiva dei capi di sentenza appellati, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale”. Dovendosi conciliare tale interpretazione con la disciplina che regola il ritiro del fascicolo di parte e con il principio di “acquisizione” delle prove, le Sezioni Unite raccomandarono di non intendere “con eccessiva larghezza” la facoltà offerta dagli artt. 169 c.p.c. e 77 disp. att. c.p.c., in quanto “la mancata restituzione del fascicolo, in violazione dei doveri di lealtà e di probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., potrebbe porre la controparte nell’impossibilità di fornire quelle prove che in precedenza, alla stregua delle risultanze desumibili dal fascicolo avversario, dovevano ritenersi superflue”. Ciò giustificherebbe la “imposizione, a carico della parte che nel corso del processo chieda il ritiro del proprio fascicolo, dell’onere di depositare copia dei documenti probatori che in esso siano inseriti”, così da “far salva la piena attuazione del principio di acquisizione delle prove”.
La sentenza 8 febbraio 2013, n. 3033, ritenne, anche per “ragioni di continuità dell’applicazione giurisprudenziale e di affidabilità della funzione nomofilattica”, di mantenere fermo il principio enunciato nella sentenza n. 28498 del 2005, alla luce altresì della fisionomia del giudizio di appello risultante dal sopravvenuto intervento riformatore operato dal d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni nella l. n. 134 del 2012. Costituendo il processo d’appello “una seconda e solo eventuale fase” del giudizio di merito, il ruolo dell’appellante sarebbe quello di “parte processualmente attrice (quale che sia stata la sua posizione nel giudizio di primo grado, che l’ha vista totalmente o parzialmente soccombente)”, perciò tenuta “ad approntare ogni mezzo processuale posto a sua disposizione dall’ordinamento (così, dunque e segnatamente, ad avvalersi della facoltà prevista dall’art. 76 disp. att. c.p.c. di ottenere dalla cancelleria copia dei documenti prodotti dalle altre parti) ed indipendentemente dalla, più o meno prevedibile, condotta processuale della controparte, al fine di dimostrare l’ingiustizia o l’invalidità della sentenza impugnata”. Se, quindi, “l’appellante assuma che l’errore del primo giudice si annidi nell’interpretazione o valutazione di un documento, il cui preciso contenuto testuale non risulti dalla sentenza impugnata, ovvero, pacificamente, dagli atti delle parti”, sarebbe suo onere “metterlo a disposizione del giudice di appello, perché possa procedere al richiesto riesame anche nei casi in cui lo stesso sia stato in precedenza prodotto dalla controparte, risultata vincitrice in primo grado”. Secondo tale ricostruzione, troverebbero così applicazione i criteri di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., “ma non nella tradizionale ottica sostanziale, bensì sotto il profilo processuale, in virtù del quale è l’appellante, in quanto attore nell’invocata revisio, a dover dimostrare il fondamento della propria domanda, deducente l’ingiustizia o invalidità della decisione assunta dal primo giudice, onde superare la presunzione di legittimità che l’assiste”.
La sentenza n. 3033 del 2013 precisava altresì che, quando si assume che la prova, una volta entrata nel processo, vi permane e può essere utilizzata anche dalla parte diversa da quella che l’ha prodotta, il principio cosiddetto “di immanenza della prova” va inteso con riferimento non al documento materialmente incorporante la prova, bensì all’efficacia spiegata dal mezzo istruttorio, virtualmente a disposizione di ciascuna delle parti, delle quali, tuttavia, quella che ne invochi una diversa valutazione da parte del giudice del grado successivo non è esonerata dall’attivarsi perché lo stesso possa concretamente procedere a richiesto riesame. Di tal che, per quanto riguarda le prove documentali, materializzate nelle produzioni di parte, nei casi in cui il giudice di appello, per l’inerzia della parte interessata e tenuta alla relativa allegazione, non sia stato in grado di riesaminarle, le stesse, ancorché non materialmente più presenti in atti (per la contumacia dell’appellato o per l’insindacabile scelta del medesimo di non più produrle), continuano tuttavia a spiegare la loro efficacia, nel senso loro attribuito nella sentenza emessa dal primo giudice, la cui presunzione di legittimità non risulta superata per fatto ascrivibile all’appellante. Questi, rimasto inerte, pur disponendo di un adeguato mezzo processuale (la richiesta di cui all’art. 76 disp. att. c.p.c.) per prevenire la sopra esposta situazione di carenza documentale, deve, pertanto, considerarsi soccombente, in virtù del principio actore non probante, reus absolvitur.
2.2 L’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 della Seconda Sezione civile segnala, poi, che i due precedenti del 2005 e del 2013 sono stati oggetto “di critiche accese da parte della maggioritaria dottrina”, che così riassume:
“(…) – seguendo le sezioni unite, la sentenza di primo grado determinerebbe una presunzione legale relativa circa l’esistenza del fatto accertato, presunzione che potrebbe essere superata solo attraverso la prova contraria della parte appellante, indipendentemente dai criteri di riparto dell’onere della prova in primo grado, dando una valenza processuale al principio di cui all’art. 2697 c.c., invece tradizionalmente volto a disciplinare l’onere sostanziale della prova;
- l’appello (specie quello per motivi di merito), nonostante le evoluzioni subite, continua ad essere espressione dello schema teorico del gravame, non degli atti di impugnazione, come d’altro canto riconoscono le stesse sezioni unite (…);
- oggetto del giudizio è quindi il rapporto sostanziale controverso, devoluto al giudice superiore attraverso i motivi specifici di impugnazione, che non costituiscono l’oggetto del giudizio di appello, ma sono il mezzo tramite il quale si individua la parte del rapporto sostanziale devoluta al giudice superiore, nonché le questioni di fatto e di diritto tramite il cui riesame il giudice d’appello conoscerà il rapporto sostanziale;
- le sezioni unite scambiano la distinzione tra appello come novum iudicium e appello come revisio prioris instantiae con la distinzione tra appello come gravame, avente pur sempre ad oggetto il rapporto sostanziale controverso, e appello come impugnazione, avente ad oggetto i motivi specifici di impugnazione;
- problemi suscitati superati ove il legislatore disponesse che i documenti prodotti dalle parti debbano essere inseriti nel fascicolo d’ufficio e non nel fascicolo di parte”.
2.3 L’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 registra che le sezioni semplici, dopo alcune iniziali pronunce discordi, hanno condiviso i principi di diritto enunciati nelle sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013 di queste Sezioni Unite. Vengono tuttavia specialmente rimarcate nell’ordinanza di rimessione Cass. lav. 22 gennaio 2013, n. 1462, e Cass. Sez. 1, 19 giugno 2019, n. 16506.
La sentenza n. 1462 del 2013 si distinguerebbe per aver chiarito che l’interpretazione dettata dalla pronuncia del 2005 delle sezioni unite non avrebbe implicato “una sorta di inversione dell’onere della prova nel giudizio di appello” né una sorta di presunzione legale relativa circa l’esistenza dei fatti accertati in prime cure, ma semplicemente l’onere dell’appellante di attivarsi ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. per farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti e ciò al fine di conferire specificità ai motivi d’appello ex art. 342 c.p.c. La stessa sentenza n. 1462 del 2013 aggiunse che “l’appellante ha anche la possibilità di chiedere ex art. 210 c.p.c. che il giudice ordini all’appellato non costituito l’esibizione dei documenti già contenuti nella produzione ritirata”, a ciò non ostando il divieto di nuovi mezzi di prova in appello, “poiché in siffatta evenienza non di prove nuove si tratta, bensì di prove già acquisite agli atti di causa e ad essa immanenti, rispetto alle quali l’iniziativa dell’appellante è meramente recuperatoria”.
La sentenza n. 16506 del 2019 viene invece menzionata nell’ordinanza interlocutoria “in un’ottica di superamento della distinzione tra fascicolo di parte e fascicolo d’ufficio”, per aver essa affermato che “i fascicoli di parte che sono presenti in quello di ufficio costituiscono parte integrante di esso, ai sensi dell’art. 72, comma 2, disp. att. c.p.c., fintanto che rimangono ivi depositati, perché non ritirati, ai sensi dell’art. 77 disp. att. c.p.c.”, con la conseguenza che “qualora venga richiesta la trasmissione del fascicolo d’ufficio ex art. 126 disp. att. c.p.c., la trasmissione dovrà riguardare il fascicolo d’ufficio, unitamente a quelli di parte ove non ritirati”.
2.4 L’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 passa da ultimo ad interrogarsi sulle ripercussioni che per le questioni in esame possono derivare dalla introduzione del cosiddetto “processo civile telematico”, nel quale si ha soltanto un unico fascicolo
I riferimenti normativi sulla disciplina del fascicolo informatico e, per quel che qui più rileva, del deposito con modalità telematiche dei documenti nel processo civile, sono contenuti nell’art. 12 del d.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123, nell’art. 9 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, nell’art. 16-bis del d.l. n. 179 del 2012, convertito nella l. n. 221 del 2012, e, da ultimo, negli artt. 87 e 196-quater disp. att. c.p.c., inseriti dal d.lgs. n. 149 del 2022, secondo il regime transitorio dettato dall’art. 35 dello stesso decreto. L’introduzione del fascicolo informatico, sulla base di tali disposizioni, non ha comunque eliminato l’obbligo di formazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo, né la possibilità che il giudice autorizzi o ordini il deposito di copia cartacea dei documenti per ragioni specifiche. I documenti informatici da raccogliere nel fascicolo informatico del processo sono privi di elementi attivi e hanno i formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite, vengono trasmessi da parte dei soggetti abilitati e degli utenti mediante indirizzo di posta elettronica certificata e si intendono depositati nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna.
Osserva la Seconda Sezione civile che, con la formazione del fascicolo informatico, il quale raccoglie tutti i documenti, si dovrebbe avere l’accantonamento della distinzione tra il fascicolo d’ufficio e il fascicolo di parte presente nelle norme del codice di rito e delle sue disposizioni di attuazione, neppure essendo contemplata la possibilità di ritiro delle produzioni documentali, le quali vengono, pertanto, telematicamente apprese dal giudice di appello con l’acquisizione dell’unico fascicolo e indipendentemente dal comportamento processuale dell’appellato.
2.4.1. Si consideri, incidentalmente, che l’inserimento e la conservazione nel fascicolo d’ufficio dei documenti prodotti dalle parti sono, peraltro, già previsti dall’art. 320, comma 5, c.p.c. per il procedimento davanti al giudice di pace.
2.5 Poiché l’articolato regime normativo di progressiva introduzione del deposito con modalità telematiche dei documenti nel processo civile e le relative discipline transitorie rendono frequente che all’interno del medesimo giudizio tuttora pendente si abbiano documenti prodotti in formato informatico ed in formato cartaceo, ovvero soltanto in formato cartaceo, l’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 auspica un ripensamento dell’orientamento segnato dalle sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013.
La Seconda Sezione civile suggerisce non di abbandonare il criterio secondo cui l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione della fondatezza delle singole censure mosse alle singole soluzioni offerte dalla sentenza impugnata, ma di valorizzare quanto affermato almeno nella pronuncia del 2005, “circa la necessità, a tutela dell’interesse al corretto esercizio dell’attività giurisdizionale e del principio di acquisizione delle prove, di subordinare il ritiro del fascicolo di parte al deposito dei documenti probatori in esso inseriti”, ricavando tale precetto dalla previsione dell’art. 77 disp. att. c.p.c.; o, altrimenti, riconoscendo al giudice d’appello la facoltà di ordinare alla parte il deposito dei documenti che ritenga necessari al fine della decisione, sul modello di quanto, ad esempio, consentito dall’art. 123-bis disp. att. c.p.c. per l’impugnazione proposta contro una sentenza non definitiva.
2.6 In conclusione, l’ordinanza interlocutoria 14534/2022 rimette alle Sezioni Unite di pronunciare su tali questioni:
- – se l’adozione del processo telematico, che prevede la creazione di un unico fascicolo e non contempla l’ipotesi del ritiro dei documenti in esso contenuti, comporti l’abbandono della distinzione tra fascicolo d’ufficio e fascicolo di parte di cui agli artt. 168 e 169 c.p.c., artt. 72, 73, 74, 75, 76 e 77 disp. att. c.p.c.;
- – se ciò determini il superamento della posizione interpretativa, fatta propria con le pronunce delle Sezioni Unite n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013, secondo cui l’appellante “subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte, quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice d’appello non ha quindi avuto la possibilità di esaminare“;
- – se tale superamento valga solo per le cause ove i documenti sono contenuti nel cosiddetto fascicolo informatico ovvero se – al fine di evitare irragionevoli differenze di trattamento – valga anche per cause ove i documenti siano ancora presenti in formato cartaceo nel fascicolo di parte.
3. Il Pubblico Ministero, nelle conclusioni scritte motivate, osserva che “in relazione alla fattispecie concreta, i quesiti rimessi alle Sezioni Unite appaiono privi di rilevanza in sé, per quanto riguarda il processo telematico, che non è quello messo in atto nel processo a quo”, e che comunque l’impugnata sentenza non ha osservato i principi affermati nelle pronunce delle Sezioni Unite 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013, essendosi posta “in pieno contrasto con il principio di presunzione di legittimità della decisione di prime cure e con quello di acquisizione probatoria”. Il Pubblico Ministero ha perciò concluso chiedendo di accogliere il ricorso principale, con assorbimento del ricorso incidentale, e di affermare i seguenti principi di diritto:
“il fascicolo cartaceo deve considerarsi fattispecie diversa da quella del fascicolo informatico e la disciplina che regola il deposito, l’accesso ed il ritiro del primo, in quanto basata sul presupposto della materialità dello stesso, risulta incompatibile con quella dettata in relazione al secondo che, all’opposto, si fonda sulla sua dematerializzazione, conseguendone che, in tema di processo civile telematico, l’adozione del fascicolo informatico, che, da un lato raccoglie in forma dematerializzata gli atti e i documenti da chiunque formati nel processo, e dall’altro è sempre accessibile dalle parti e dal giudice, che possono in qualunque momento estrarne copia informatica, ha comportato in via generale l’abbandono della distinzione tra fascicolo d’ufficio e fascicolo di parte di cui agli articoli 168 e 169 c.p.c., 72, 73, 74, 75, 76 e 77 disp. att. c.p.c., salvo restando, comunque, l’obbligo per le cancellerie di formazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo, ai sensi dell’articolo 12, comma 3, d.P.R. n. 123 del 2001, ed ai sensi dell’articolo 9, comma 3, d . m . n. 44 del 2011, e dell’articolo 22, comma 5, del codice dell’amministrazione digitale;
in base al principio di acquisizione probatoria, il giudice di appello, alla cui cancelleria non siano stati trasferiti i fascicoli di parte formati in modalità cartacea nel precedente grado del giudizio, non potrà decidere assumendo come non prodotti i mezzi istruttori in essi contenuti e che siano stati ammessi in primo grado; tuttavia, qualora, in ragione della mancata disponibilità dei medesimi, egli dovesse ritenere di non poter valutare la fondatezza dei motivi di gravame, considerando che l’appello è un giudizio revisionale finalizzato alla riforma della decisione di primo grado ed essendo quest’ultima sostenuta da una presunzione di legittimità, dovrà confermare la sentenza di prime cure”.
Nella memoria presentata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la controricorrente Immobiliare B. s.r.l. evidenzia la non pertinenza delle questioni sollevate nell’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite, giacché il proprio appello non era fondato sui documenti esibiti ex adverso, né lamentava alcun errore del primo giudice nell’interpretazione e valutazione degli stessi, in quanto sia il decreto prefettizio sia la relazione del geometra C. erano “irrilevanti ai fini della decisione”.
4. Va premesso che, ad avviso di queste Sezioni Unite, nonostante l’inapplicabilità nel giudizio in esame della disciplina attinente al fascicolo informatico, non può pervenirsi a diverse conclusioni in ordine all’attuale operatività del principio dispositivo e del principio di ‹‹acquisizione probatoria››, come correlati ai meccanismi di produzione e di ritiro dei documenti.
Le questioni sollevate nell’ordinanza interlocutoria della Seconda sezione civile coinvolgono le esigenze, proprie del sistema delle prove, attinenti ai poteri della parte, nonché le garanzie della tutela del contraddittorio e del diritto di difesa (allorché, conseguentemente alla produzione avversaria, sorge l’interesse dei contendenti ad avvalersi di una prova contraria, ovvero anche dello stesso documento esibito dalla controparte), e la conformazione legislativa del bilanciamento di tali esigenze e garanzie non potrebbe intendersi ragionevolmente differenziata, sulla base di inconvenienti di fatto, a seconda che i documenti siano stati prodotti con modalità telematiche o, piuttosto, in formato cartaceo, sicché l’impossibilità tecnica di procedere nel processo telematico al ritiro del singolo documento o dell’intero fascicolo finisca in concreto per modulare con diversa intensità rispetto al processo cartaceo l’effettività, appunto, del principio dispositivo e del principio di acquisizione.
4.1 Ai quesiti posti dall’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 occorre, allora, dar risposta non pervenendo necessariamente all’esito interpretativo di intendere abrogata tacitamente la distinzione codicistica tra fascicolo d’ufficio e fascicolo di parte (il cui impianto rimane, del resto, confermato anche dopo la riforma introdotta con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, equiparandosi, nel novellato art. 36 disp. att. c.p.c., la tenuta e conservazione del fascicolo informatico alla tenuta e conservazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo e continuandosi a prevedere, con gli artt. 165 e 166 c.p.c. e 74 disp. att. c.p.c., che i documenti offerti in comunicazione siano contenuti nel fascicolo di parte, nonostante il modificato art. 87 disp. att. c.p.c. faccia rinvio all’art. 196 quater per le modalità di produzione dei documenti), né “superando” le sentenze n. 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013, quanto piuttosto ampliando, nel nuovo quadro di sistema delineatosi, gli effetti del principio di acquisizione delle prove documentali e gli strumenti, che già tali sentenze contemplavano, idonei a consentire al giudice d’appello la ricostruzione della portata dimostrativa di tali prove, indipendentemente dalla natura informatica o cartacea del supporto, in funzione di una concezione del processo che “fa leva sul valore della giustizia della decisione” (Cass. Sez. Unite, 7 maggio 2013, n. 10531).
5. Queste Sezioni Unite, ancora con la sentenza 10 luglio 2015, n. 14475, nell’escludere la “novità”, agli effetti dell’art. 345, comma 3, c.p.c., dei documenti posti a sostegno della domanda di decreto ingiuntivo, non prodotti nel giudizio di opposizione e poi allegati all’atto di appello, hanno avuto occasione di riaffermare che “i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata implicano … che le prove acquisite al processo lo siano in via definitiva. Tali prove non devono essere disperse. Ciò vale anche per i documenti: una volta prodotti ed acquisiti ritualmente al processo, devono essere conservati alla cognizione del giudice”. La sentenza n. 14475 del 2015 elaborò, pertanto, il principio “di non dispersione della prova”, precisando, nella specie, che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la parte opposta non è libera di ritirare i documenti su cui era fondata l’intimazione di pagamento, dovendo esservi autorizzata a norma dell’art. 169 c.p.c., e che il “giudice nel decidere dovrà disporre di tutto il materiale probatorio”.
5.1 L’acquisizione della prova documentale “precostituita” come fonte di informazione del giudizio avviene per il tramite delle regole sulla produzione e sull’inserimento nei fascicoli processuali, le quali sono essenzialmente finalizzate a garantire il diritto di difesa ed il contraddittorio in favore della controparte. Il diritto al giusto processo impone di verificare che il procedimento di acquisizione delle prove sia stato complessivamente equo (Corte europea dei diritti dell’uomo Elsholz c. Germania [GC], n. 25735/94, 13 luglio 2000, 66; Devinar c. Slovenia, n. 28621/15, 22 maggio 2018, § 45; Blücher c. Repubblica ceca, n. 58580/00, 11 gennaio 2005, § 65).
Il documento ritualmente prodotto fornisce, così, una rappresentazione immediata e permanente del fatto di causa, in quanto il diritto delle parti al procedimento istruttorio di fissazione dei fatti controversi non implica poi una loro volontà costitutiva dell’effetto probatorio del materiale raccolto.
La teorizzazione del descritto principio di “non dispersione (o di acquisizione) della prova” porta, dunque, a considerare che, una volta prodotto in una fase o in un grado di un processo unitario un documento, lo stesso, in quanto “conosciuto” e perciò definitivamente acquisito alla causa, se sia successivamente ritirato e poi ancora allegato, dalla stessa parte che se ne fosse originariamente avvalsa o da altra parte, non può considerarsi “nuovo”, né in primo grado, agli effetti delle preclusioni istruttorie, né in appello, ai sensi dell’art. 345, comma 3, c.p.c., né nel giudizio in cassazione, con riguardo al divieto di cui all’art. 372 c.p.c.
Se l’acquisizione della valenza probatoria del documento esibito (ovvero la sua natura di fonte di conoscenza per il giudice e di fissazione formale della verità legale circa l’esistenza o l’inesistenza dei fatti controversi) non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, essa neppure può dipendere dalle successive scelte processuali della parte che lo abbia inizialmente prodotto.
Il fatto storico rappresentato dal documento prodotto si ha per dimostrato, essendo stato ultimato il procedimento strumentale che assicura l’acquisizione processuale della fonte di conoscenza, e ciò pone fuori causa l’art. 2697 c.c.: questa norma onera la parte di dimostrare gli accadimenti che concretizzano la fattispecie astratta di legge, dalla cui applicazione essa voglia ricavare effetti per sé favorevoli, ed offre al giudice una via d’uscita ove di tali accadimenti da assumere in sentenza sia mancata la prova.
5.2 La definitività dell’acquisizione processuale del documento prodotto, inteso come fonte di conoscenza del fatto, nel passaggio dal giudizio di primo grado al giudizio d’appello, perché possa poi influire altresì sull’attività logica del giudice dell’impugnazione e sul risultato decisionale che discende da questa attività, deve trovare un coordinamento con la regola della formazione progressiva della cosa giudicata e con l’effetto devolutivo dell’impugnazione di merito. Affinché il fatto dimostrato dal documento prodotto in primo grado possa essere compreso nell’attività logica del giudice dell’appello e nella sentenza che ne deriva, esso non va, dunque, nuovamente “provato” dalla parte che ne invochi il riesame, quanto allegato, e cioè dedotto in un enunciato descrittivo contenuto all’interno di un atto difensivo.
6. A proposito del riesame della controversia di cui è ritualmente investito il giudice di secondo grado, l’evoluzione giurisprudenziale è ferma ai principi dettati nella sentenza di queste Sezioni Unite 16 novembre 2017, n. 27199, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo risultante dal d.l. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni nella l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, restando tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, che l’atto di gravame debba rivestire particolari forme sacramentali o contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.
Sempre nell’ottica di delimitare l’ambito della devoluzione al giudice di appello rispetto al thema probandum e al thema decidendum del giudizio di primo grado, la sentenza di queste Sezioni Unite 21 marzo 2019, n. 7940, ha affermato che le parti, nel rispetto dell’autoresponsabilità e dell’affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale), a riproporre ai sensi dell’art. 346 c.p.c. le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza.
6.1 Quanto chiarito dalle sentenze n. 27199 del 2017 e n. 7940 del 2019 conferma che l’ambito della cognizione del giudice d’appello è definito dai motivi di impugnazione formulati e dalle domande ed eccezioni riproposte, e non consiste, perciò (salvo che per le questioni rilevabili d’ufficio), in una rinnovata pronuncia sulla domanda giudiziale e sulla intera situazione sostanziale oggetto del giudizio di primo grado.
Combinando gli effetti dell’acquisizione probatoria dei documenti prodotti e dei limiti devolutivi dell’impugnazione segnati dagli artt. 342 e 346 c.p.c., restano validi i principi più volte enunciati nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui il giudice d’appello ha il potere-dovere di esaminare i documenti ritualmente prodotti in primo grado nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza nei propri scritti difensivi, mediante richiamo di essi nella parte argomentativa dei motivi formulati o delle domande ed eccezioni riproposte, illustrando le ragioni, trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto dei documenti acquisiti giustifichi le rispettive deduzioni (Cass. Sez. 1, 29 gennaio 2019, n. 2461; Cass. Sez. 3, 7 aprile 2009, n. 8377; Cass. Sez. 1, 20 ottobre 2005, n. 20287; Cass. Sez. 1, 24 dicembre 2004, n. 23976; Cass. Sez. lav., 6 luglio 2004, n. 12351; Cass. Sez. 1, 29 maggio 2003, n. 8599; Cass. Sez. 3, 6 aprile 2001, n. 5149, Cass. Sez. 2, 16 agosto 1990, n. 8304).
6.2 Affinché il giudice di appello possa procedere all’autonomo e diretto esame del documento già prodotto in formato cartaceo nel giudizio di primo grado, onde dare risposta ai motivi di impugnazione o alle domande ed eccezioni riproposte su di esso fondati, il documento può essere sottoposto alla sua attenzione, ove non più disponibile nel fascicolo della parte che lo aveva offerto in comunicazione (perché ritirato e non restituito, o perché questa è rimasta contumace in secondo grado), mediante deposito della copia rilasciata alle altre parti a norma dell’art. 76 disp. att. c.p.c., semmai, come sosteneva la sentenza n. 28498 del 2005, sulla base dell’ordine in tal senso imposto dal giudice all’atto del ritiro effettuato avvalendosi della facoltà di cui agli artt. 169 c.p.c. e 77 disp. att. c.p.c.
Il giudice di appello può inoltre porre a fondamento della propria decisione il documento prodotto in formato cartaceo non rinvenibile nei fascicoli di parte apprezzandone il contenuto che sia trascritto o indicato nella decisione impugnata, o in altro provvedimento o atto del processo.
Dovendosi negare, inoltre, che la permanente portata dimostrativa nel giudizio di appello di uno o di determinati documenti acquisiti in primo grado discenda dalla scelta delle parti di volersi avvalere del relativo effetto probatorio, può ritenersi consentito al giudice di secondo grado, eventualmente aperto un preventivo contraddittorio, di ordinare la produzione dei medesimi documenti, in copia o in originale, se lo ritiene necessario, a modello di quanto del resto stabilito dall’art. 123 bis disp. att. c.p.c. per l’impugnazione di sentenza non definitiva, valutando la mancata esibizione, senza giustificato motivo, come comportamento contrario al dovere di lealtà e probità.
Allorché, poi, la parte interessata abbia ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere nell’atto di appello o nella comparsa di costituzione una puntuale allegazione del documento cartaceo prodotto in primo grado (e dunque del relativo fatto secondario dedotto in funzione di prova), del quale invochi il riesame in sede di gravame, e la controparte neppure abbia provveduto ad offrire in comunicazione lo stesso nel giudizio di secondo grado, sarà quest’ultima a subire le conseguenze di tale comportamento processuale, potendo il giudice, il quale ha comunque il dovere di ricomporre il contenuto di una rappresentazione già stabilmente acquisita al processo, ritenere provato il fatto storico rappresentato dal documento nei termini specificamente allegati nell’atto difensivo.
7. Possono pertanto enunciarsi i seguenti principi di diritto
Il principio di “non dispersione (o di acquisizione) della prova”, operante anche per i documenti – prodotti sia con modalità telematiche che in formato cartaceo -, comporta che il fatto storico in essi rappresentato si ha per dimostrato nel processo, costituendo fonte di conoscenza per il giudice e spiegando un’efficacia che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, né può dipendere dalle successive scelte difensive della parte che li abbia inizialmente offerti in comunicazione.
Il giudice d’appello ha il potere-dovere di esaminare un documento ritualmente prodotto in primo grado nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza nei propri scritti difensivi, mediante richiamo di esso nella parte argomentativa dei motivi formulati o delle domande ed eccezioni riproposte, illustrando le ragioni, trascurate dal primo giudice, per le quali il contenuto del documento acquisito giustifichi le rispettive deduzioni.
Affinché il giudice di appello possa procedere all’autonomo e diretto esame del documento già prodotto in formato cartaceo nel giudizio di primo grado, onde dare risposta ai motivi di impugnazione o alle domande ed eccezioni riproposte su di esso fondati, il documento può essere sottoposto alla sua attenzione, ove non più disponibile nel fascicolo della parte che lo aveva offerto in comunicazione (perché ritirato e non restituito, o perché questa è rimasta contumace in secondo grado), mediante deposito della copia rilasciata alle altre parti a norma dell’art. 76 disp. att. c.p.c. Il giudice di appello può inoltre porre a fondamento della propria decisione il documento prodotto in formato cartaceo non rinvenibile nei fascicoli di parte apprezzandone il contenuto che sia trascritto o indicato nella decisione impugnata, o in altro provvedimento o atto del processo, ovvero, se lo ritiene necessario, può ordinare alla parte interessata di produrre, in copia o in originale, determinati documenti acquisiti in primo grado.
Allorché la parte abbia ottemperato all’onere processuale di compiere nell’atto di appello o nella comparsa di costituzione una puntuale allegazione del fatto rappresentato dal documento cartaceo prodotto in primo grado, del quale invochi il riesame in sede di gravame, e la controparte neppure abbia provveduto ad offrire in comunicazione lo stesso nel giudizio di secondo grado, sarà quest’ultima a subire le conseguenze di tale comportamento processuale, potendo il giudice, il quale ha comunque il dovere di ricomporre il contenuto di una rappresentazione già stabilmente acquisita al processo, ritenere provato il fatto storico rappresentato dal documento nei termini specificamente allegati nell’atto difensivo.
8. Alla stregua del sistema delineato da tali principi, che peraltro sviluppano i principi già dettati nelle sentenze 28498 del 2005 e n. 3033 del 2013, il ricorso proposto da D.B., C.E., A.M., T.M. e S.I. risulta evidentemente fondato.
8.1 La Corte di Roma, con la sentenza impugnata, ha accolto l’appello spiegato dalla Immobiliare B. s.r.l., rigettando la domanda degli attori (volta ad accertare la proprietà demaniale o la destinazione al pubblico transito del tratto di via C.S., nonché ad ordinare alla convenuta di rimuovere il cancello e la catena ivi apposti), in quanto gli appellati non avevano prodotto nel giudizio di gravame i documenti su cui il Tribunale aveva fondato la propria pronuncia, ovvero “il decreto prefettizio del 16 gennaio 1952 e la relazione del geometra C., nonché gli altri documenti richiamati dagli appellati” nelle loro difese, che “la parte aveva l’onere di depositare”.
Questa motivazione rivela la pertinenza delle questioni affrontate nell’ordinanza interlocutoria n. 14534/2022 della Seconda Sezione civile.
8.2 Così ragionando, la Corte d’appello di Roma: ha in sostanza ritenuto che oggetto dell’impugnazione fosse la domanda giudiziale proposta dagli attori, vittoriosi in primo grado, e non le censure formulate dalla soccombente Immobiliare B. s.r.l., le quali imponevano comunque il riesame dei documenti posti a fondamento della decisione del Tribunale, considerando al contrario sufficienti le mere difese opposte dall’appellante ai fatti, principali e secondari, costituenti le ragioni dell’avversa pretesa accolta nella sentenza gravata; non ha quindi considerato che i fatti storici dimostrati dai documenti prodotti in primo grado ed acquisiti come fonti di conoscenza erano stati apprezzati nella pronuncia impugnata, la cui presunzione di legittimità non può dirsi superata dalla mancata allegazione del fascicolo delle parti appellate che li conteneva; non ha adempiuto al proprio dovere di ricomporre altrimenti il contenuto della rappresentazione dei fatti già stabilmente acquisita al processo, sulla base di quanto comunque risulti da provvedimenti o atti del processo.
9. Rimane assorbito dall’accoglimento del ricorso principale il ricorso incidentale della Immobiliare B. s.r.l., attenendo esso alla configurabilità della responsabilità aggravata ex 96 c.p.c. degli attori, e dunque a statuizione che, per il suo carattere accessorio, viene comunque travolta dalla disposta cassazione della sentenza impugnata.
10. Conseguono l’accoglimento del ricorso principale, l’assorbimento del ricorso incidentale e la cassazione della sentenza impugnata in ragione della censura accolta, con rinvio dalla causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.