CORTE DI CASSZIONE, sezione penale, sentenza n. 45085 depositata il 6 dicembre 2021
DURC – Assenza delle condizioni previste dalla legge – Accertamento – Falsi certificati – Reato di corruzione
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Lecce ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di B. C. quanto al reato di corruzione propria, perché estinto per prescrizione, ed ha confermato la sentenza di condanna per il reato previsto dall’art. 336 cod. pen.
Quanto alla corruzione, a B., in qualità di direttore dell’Ufficio I.N.P.S. di Brindisi, è contestato, in concorso con L.G. (poi assolta) e C.A., di avere ricevuto utilità per rilasciare – senza che ne sussistessero le condizioni di legge – alla società C. s.r.l. documenti unici di regolarità contributiva, “necessari per l’azienda per la esecuzione di appalti già aggiudicati”.
Quanto alla violenza o minaccia a pubblico ufficiale, l’imputato, sottoposto a procedimento penale per il reato suindicato, avrebbe usato violenza e minaccia per costringere T. C., subentratogli nella carica di direttore dell’ente, al fine di far compiere a questi atti contrari ai doveri d’ufficio, minacciandolo: a) per la collaborazione prestata con l’Autorità Giudiziaria; b) perché la vittima continuava ad ostacolare i suoi interessi illeciti all’interno dell’Istituto e della città; c) per indurlo ad attribuire a I., originaria concorrente nel reato poi assolta, la responsabilità dell’Unità di coordinamento dell’istituto (fatti commessi fino al 30.11.2012).
2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato articolando due motivi.
Con il primo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato proscioglimento nel merito per il reato di corruzione; secondo il ricorrente l’intera ricostruzione fattuale ruoterebbe intorno al contributo causale fornito nel rilascio dei DURC irregolari dal dipendente C. P., considerato “vicino” a B. ed istruttore dei certificati falsi, ma non indagato, e da I. G., compagna dell’imputato, assolta.
In particolare, sarebbe stato valorizzato in chiave accusatoria il ruolo di P. ed il fatto che questi fosse stato destinatario di una sanzione disciplinare da parte dell’INPS; tale costruzione sarebbe stata tuttavia smentita dalla Corte di appello di Lecce – sezione lavoro – che, con sentenza successiva a quella impugnata, ha annullato la sanzione disciplinare.
Sotto altro profilo, si argomenta sul ruolo del P. e sul fatto che questi non avesse alcun potere certificativo, sicchè sarebbe spettato ai c.d. validatori del durc – non validando il durc che lo stesso P. istruiva – il compito di interrompere l’attività illecita di questi: ciò non sarebbe avvenuto.
Gli stessi validatori sarebbero stati assolti in sede disciplinare perchè la loro attività di verifica sarebbe stata a campione e non avrebbe interessato i documenti rilasciati alla C.; in realtà, assume il ricorrente, i validatori avevano il compito specifico di controllare e validare ogni singolo durc.
Il tema probatorio in questione, si argomenta, non sarebbe stato adeguatamente valutato perché l’ipotesi corruttiva ascritta al B. non poteva essere configurata senza ipotizzare un nesso tra questi e i validatori.
La stessa Corte di appello – sezione lavoro – avrebbe attestato che i durc erano stati rilasciati regolarmente; il tema si incrocia con quello per cui la consegna dei fascicoli relativi ai durc della C. sarebbero stati reiteratamente ostacolati pretestuosamente proprio dal C., persona offesa del reato di cui all’art. 336 cod. pen.
Sotto altro profilo si rivisita il tema delle utilità che B. avrebbe ricevuto (tre abbonamenti per l’accesso a teatro e tre abbonamenti al palazzetto dello sport, l’assunzione con contratto a progetto della figlia: l’assunzione sarebbe stata solo di un mese).
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al reato di cui all’art. 336 cod. pen.
La Corte non avrebbe adeguatamente valutato le dichiarazioni della persona offesa sulle minacce ricevute che comunque: a) quanto alla collaborazione con l’Autorità giudiziaria, non rileverebbero per essere estranee all’atto di ufficio e del servizio, tenuto conto che B. era perfettamente consapevole della collaborazione già prestata da altra dirigente; b) non sarebbero mai state percepite come tali dalla vittima; c) B., a dire della stessa persona offesa, si sarebbe limitato solo a perorare la causa della I. e C. non aveva alcun autonomo potere autonomo di determinazione nell’ambito del Nucleo di valutazione regionale.
3. Sono stati proposti motivi aggiunti nell’interesse dell’imputato con cui si riprendono e si sviluppano, anche con una corposa allegazione documentale, le argomentazioni poste a fondamento del ricorso.
4.Sono state trasmesse memorie nell’interesse delle costituite parti civili, INPS e A.F.D.S., con cui si esaminano i motivi di ricorso evidenziandone l’infondatezza e la inammissibilità.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile
2. Quanto al primo motivo, la Corte di appello, richiamando la sentenza di primo grado, ha puntualmente ricostruito i fatti, valutato le molteplici prove fondate anche su conversazioni intercettate, spiegato l’oggetto del patto corruttivo intercorso tra B. e A. C., legale rappresentante della società C. s.r.I., il senso e la portata del rilascio, pur in assenza delle condizioni previste dalla legge, dei durc in favore della C., le ragioni per cui B., pur non provvedendovi direttamente, fosse in grado di incidere, anche attraverso persone a lui “vicine” sul procedimento che portava alla emissione dei durc.
Rispetto alla puntuale ricostruzione compiuta dai Giudici di merito, il ricorso, da una parte, ripropone le stesse argomentazioni sottoposte ai Giudici di merito e da questi già valutate in modo non manifestamente illogico, e, dall’altra, valorizza la intervenuta sentenza con cui la Corte di appello di Lecce ha annullato la sanzione disciplinare inflitta a P., soggetto considerato nella prospettazione accusatoria recepita dai Giudici di merito, “vicino” a P..
Proprio l’annullamento della sanzione disciplinare, assume il ricorrente, avrebbe una valenza demolitoria degli assunti posti a fondamento della ricostruzione dei fatti, atteso che proprio P. sarebbe stato lo “strumento” attarverso il quale dare attuazione al patto corruttivo.
L’assunto prova troppo.
In realtà i reati di corruzione descrivono il perfezionamento di una pattuizione tra un privato e un soggetto qualificato.
Concluso l’accordo, il reato è perfezionato e non assume rilievo decisivo la sua esecuzione; è l’accordo che si punisce, anche se intervenuto successivamente all’adozione dell’atto- legittimo o illegittimo che sia — ovvero all’esercizio della funzione.
Ciò che accomuna le fattispecie corruttive è il divieto di “presa in carico” d’interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico, nella corruzione per l’esercizio della funzione, invece, la “presa in carico” realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivato e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo.
I delitti di corruzione puniscono il collateralismo clientelare o mercantile.
Sulla base di tali principi, l’argomentazione difensiva perde di consistenza persuasiva perché l’imputato sostanzialmente non contesta l’esistenza del patto corruttivo, ma, al più, come il patto corruttivo possa essere stato eseguito.
In tale contesto si valorizza la sentenza della Corte di appello di Lecce che, in realtà, attiene al più al possibile coinvolgimento di P. all’attuazione del patto corruttivo ma non alla sua esistenza.
Sotto altro profilo, pur volendo ragionare con l’imputato, la sentenza in questione non assume decisiva valenza, perché la Corte di appello di Lecce non ha affatto affermato che l’attuazione del patto corruttivo- cioè il rilascio dei durc- fosse stata realizzata tramite P., essendosi limitata ad individuare nel P. un soggetto, vicino al B., che, procedendo alla istruzione delle pratiche finalizzate al rilascio dei durc, ben avrebbe potuto costituire uno strumento tramite il quale B. avrebbe potuto inquinare il procedimento volto al rilascio dei Durc.
Tali considerazioni trovano avallo nella motivazione della sentenza con cui è stata annullata la sanzione disciplinare nei riguardi del P..
Si tratta di una sentenza la cui base probatoria non è ovviamente equivalente a quella del presente procedimento e che dunque non può assumere nessuna valenza vincolante rispetto all’accertamento dei reati contestati.
In detta sentenza tuttavia la Corte di appello ha spiegato che: a) la procedura che portava al rilascio del durc fosse caratterizzata “da una certa complessità”; b) la attività avrebbe essere dovuta verificata dai validatori, che pure erano stati sottoposti a procedimenti disciplinari; c) gli errori attribuiti al P. potessero ricondursi ad incomprensioni o ad erronee comunicazioni tra soggetti
Dunque una sentenza emessa sulla base di una piattaforma istruttoria diversa, che nessun effetto vincolante può assumere in ordine alla prova dei fatti per cui si procede, che comunque ha un contenuto compatibile con il ragionamento probatorio posto a fondamento della sentenza impugnata
Ne deriva l’inammissibilità del motivo
3. Non diversamente è inammissibile il secondo motivo di ricorso
A fronte di una puntigliosa motivazione in cui la Corte ha ricostruito i fatti, indicato i motivi per cui le dichiarazioni di C. debbano considerarsi attendibili, spiegato il senso e la portata della minaccia nei confronti di questi e, tramite questi, a M.P., chiarito le ragioni per cui le quelle minacce, diversamente dagli assunti difensivi, avessero ad oggetto anche l’attività dell’ufficio, nulla di specifico è stato dedotto.
Le censure dedotte si sviluppano sul piano della ricostruzione fattuale e sono sostanzialmente volte a sovrapporre un’interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai giudici di merito, piuttosto che a far emergere un vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen.
Secondo i principi consolidati dalla Corte di cassazione la sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice del merito, perché considerati maggiormente plausibili, o perché assertivamente ritenuti dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata ( Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, rv. 265482; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, rv. 234148).
L’odierno ricorrente ha riproposto con il ricorso per cassazione la versione dei fatti dedotta in primo e secondo grado e disattesa dai Giudici del merito; compito del giudice di legittimità nel sindacato sui vizi della motivazione non è tuttavia quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
E’ possibile che nella valutazione sulla “tenuta” del ragionamento probatorio, la struttura motivazionale della sentenza di appello si saldi con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, atteso che le due decisioni di merito possono concordare nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, rv. 209145).
Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado, come nel caso in esame, esaminino le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ed ai passaggi logico-giuridici della decisione di primo grado e, a maggior ragione, ciò è legittimo quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione del primo giudice (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116).
Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione analitica ed autonoma sui punti specificamente indicati nell’impugnazione di appello, di talché la motivazione risulta esaustiva ed immune dalle censure proposte.
4. Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare nella misura di tremila euro. L’imputato deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che si liquidano per M. P. e C. T. in euro 34.510,00 ciascuno, oltre accessori e per INPS in euro 3015,00 oltre accessori dovuti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna inoltre B. C. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che si liquidano per M. P. e C. T. in euro 3.510,00 ciascuno, oltre accessori e per INPS in euro 3015,00 oltre accessori dovuti.
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