Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Piemonte, sezione 2, sentenza n. 587 depositata l’ 11 novembre 2024
Accertamento – non impugnato-destinato alla società: inutilizzabilità ex sé per l’individuazione dell’amministratore di fatto
Massima:
La mancata impugnazione di un avviso di accertamento, destinato alla sola società, con il quale l’Agenzia delle Entrate sostiene, tra l’altro, che il rappresentante legale, consegnatario dell’atto stesso, sia un amministratore di fatto, promotore, costitutore e organizzatore della frode addebitata, non costituisce circostanza non cointestata che fa ritenere comprovata la ricostruzione dell’ente impositore. Il soggetto anzidetto, non essendo destinatario come persona fisica del provvedimento, non ha alcun onere di attivarsi per contestare situazioni di fatto che non le sono state opposte in quel frangente, come costitutive di pretese tributarie nei suoi confronti. Allo stesso modo, in tali circostanze, inconferente è il richiamo all’art. 115 c.p.c. applicabile esclusivamente con riguardo ai soggetti che rivestono il ruolo di parte in giudizio. Il successivo avviso di accertamento per il recupero del maggior reddito IRPEF dell’amministratore di fatto, coincidente con l’ex rappresentante legale, deve trovare, dunque, un’autonoma motivazione, “sostenuta” da sufficienti elementi probatori.
Testo:
Richieste delle parti:
La contribuente appellante così conclude:
“Voglia l’Onorevole Commissione Tributaria Regionale di Torino, respinta ogni contraria istanza, in accoglimento del presente appello riformare la sentenza impugnata e, per l’effetto, annullare integralmente l’avviso di accertamento n. T7G010700743/2018. Con vittoria delle spese di entrambi i gradi di giudizio.” L’Ufficio appellato così conclude:
“- in via preliminare:
a) disporre la riunione dei fascicoli processuali n. 177/2020 R.G.A. e 182/2020 R.G.A.;
b) dichiarare inammissibile il primo motivo di appello per violazione dell’art. 57 del D. Lgs 546/92;
c) dichiarare inammissibile il secondo motivo di appello per violazione dell’art. 53 del D. Lgs. 546/92. – nel merito: in piena conferma della sentenza impugnata, di voler rigettare l’appello di controparte, in quanto infondato in fatto e in diritto;
– in punto spese, di voler condannare controparte alle rifusione delle spese anche del presente grado di giudizio come da nota spese che si allega.”
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con apposito ricorso, S G impugnava, avanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino, un avviso di accertamento (recante il n. T7G010700743/2018) riferito all’anno di imposta 2014, notificatole il 3.4.2018, avente ad oggetto l’accertamento di un maggior reddito imponibile ai fini IRPEF per € 68.500,00, consistente in un provento illecito accertato nei confronti della società I. s.r.l., di cui la ricorrente era stata formale amministratrice dal 23.1.2014 al 7.4.2014. Tale avviso traeva origine da una verifica fiscale, effettuata nei confronti della I. s.r.l., da cui era emerso il coinvolgimento di detta società in un meccanismo finalizzato all’evasione dell’imposta sugli oli lubrificanti attraverso l’utilizzo di società cartiere (tra cui la I. s.r.l.), che solo formalmente acquistavano olio lubrificante di provenienza comunitaria, per poi rivenderlo sul territorio nazionale a diversi clienti, in evasione di imposta. All’esito di quella verifica, l’Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento nei confronti della I. S.r.l. (recante il n. T7G030704286/2017), notificato anche alla sig.ra S. G. , avente ad oggetto il recupero dell’imposizione riferita ad un maggior reddito della società, corrispondente alla redditività media delle operazioni da essa poste in essere, pari ad € 68.500,00. Detto avviso non veniva impugnato e, pertanto, diveniva definitivo. Successivamente, l’Ufficio aveva emesso l’atto impositivo oggetto del presente processo, sul presupposto che la sig.ra S. fosse l’amministratrice di fatto della società in questione (nonché promotrice ed organizzatrice della frode) e che, pertanto, le potesse essere imputato un maggior reddito corrispondente a quanto già accertato nei confronti della società, quale provento illecito delle operazioni soggettivamente inesistenti poste in essere dalla I. s.r.l.
2. A sostegno dell’impugnazione, la contribuente contestava l’affermazione dell’Ufficio in merito al fatto che la S avesse rivestito la qualità di amministratrice di fatto di detta società, sottolineando come non fosse stato fornito alcun elemento probatorio a sostegno di quell’assunto. Chiedeva, quindi, l’annullamento dell’avviso di accertamento impugnato in questa sede.
3. Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale II di Torino, confermando la legittimità del proprio operato, alla luce del fatto che l’attribuzione della qualità di amministratrice di fatto della I. S.r.l., in capo alla S. , era già stata indicata nell’avviso di accertamento emesso verso la I. S.r.l. e, pertanto, stante la mancata impugnazione del medesimo, doveva ritenersi definitivamente acclarata. Inoltre, evidenziava che la controparte non aveva sollevato nessuna eccezione con riguardo al ruolo di cartiera svolto dalla I. S.r.l. ed alla quantificazione dei proventi illeciti maturati.
4. Con sentenza in data 3.6.2019, la Commissione Tributaria Provinciale di Torino respingeva il ricorso, osservando che l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società I. S.r.l., mai impugnato da alcuno e divenuto pertanto definitivo, era stato notificato anche alla sig.ra S. , quale amministratrice della stessa. Conseguentemente, a detta dei giudici di prime cure, le affermazioni contenute in quel primo atto impositivo, inerenti al ruolo della S. quale amministratrice di fatto della società, dovevano ritenersi La Corte di primo grado condannava, altresì, la contribuente al pagamento delle spese di lite, liquidate in € 2.000,00.
5. Avverso tale decisione, proponeva tempestivo appello S. G. (depositando due distintiricorsi, poi riuniti), contestando l’applicabilità dell’art. 115 c.p.c. quale conseguenza dell’avvenuta notifica dell’avviso di accertamento rivolto esclusivamente alla società I S.r.l., poiché, con riferimento a quell’atto impositivo, la sig.ra S. personalmente non aveva alcuna legittimazione passiva e la notificazione nei suoi confronti doveva ritenersi inesistente. In ogni caso, ella ribadiva le argomentazioni già svolte in ordine all’assenza di prova delle affermazioni della controparte circa la qualità di amministratrice di fatto in capo all’attuale appellante. Chiedeva, pertanto, la riforma della decisione di primo grado.
6. In data 23.10.2023, si costituiva in grado di appello l’Ufficio, affermando la correttezza della sentenza di primo grado e ribadendo comunque le difese già assunte. In particolare, rilevava che l’avviso di accertamento impugnato aveva espressamente richiamato l’avviso già emesso nei confronti della società, nel quale erano stati specificati gli elementi idonei a comprovare la qualità di amministratrice di fatto della S. Inoltre, eccepiva l’inammissibilità della tardiva eccezione sollevata dalla controparte in merito all’inesistenza della notifica nei suoi confronti, dell’avviso emesso verso la società. Affermava poi la legittimazione della S ad impugnare l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società, essendo costei legale rappresentante, oltre che socia al 95 %, della stessa. Conseguentemente, ribadiva la necessità di ritenere incontestata tra le parti la qualità di amministratrice di fatto della S. (a causa della mancata impugnazione dell’avviso contro la I. S.r.l.). In ogni caso, evidenziava il fatto che detta qualità era dimostrata dal fatto che la S. , pur avendo dismesso nell’aprile del 2014 la veste di amministratore di diritto della società, aveva continuato ad essere titolare del 95 % delle quote sociali. Sottolineava, inoltre, che le affermazioni rese dall’attuale appellante, in merito al fatto di non essersi mai occupata della gestione sociale, risultavano inverosimili, mentre, sotto il profilo documentale, erano emerse alcune e-mail inviate a suo nome per conto della società. A sostegno dei propri assunti, l’Ufficio richiamava anche il contenuto degli atti relativi al procedimento penale pendente avanti al Tribunale di Milano nei confronti della S. Instava, quindi, per la conferma della decisione di prime cure, assumendo le conclusioni riportate in epigrafe.
7. Con memoria in data 3.12.2020, la difesa della contribuente ribadiva le argomentazioni già esposte.
8. In data 14.9.2021, la Commissione Tributaria Regionale per il Piemonte, ritenendo la necessità di ottenere informazioni sull’esito della vertenza penale collegata, mandava la Segreteria a richiedere notizie e rinviava il processo a nuovo ruolo.
9. Non essendo pervenuta alcuna informazione in merito all’esito del processo penale nei confronti della S , questa Corte fissava nuova udienza per la discussione all’udienza del 3.7.2024.
10. Con memoria depositata il 12.6.2024, la difesa della contribuente faceva presente che, con sentenza depositata il 13.6.2002, il Tribunale di Milano aveva assolto la S dal reato a lei ascritto per insussistenza del fatto. Insisteva, quindi, per le conclusioni già formulate.
11. L’udienza del 3.7.2024 veniva rinviata, su richiesta dell’Ufficio, che affermava la propria intenzione di valutare una soluzione conciliativa della controversia.
12. Con memoria in data 29.10.2024, l’Ufficio avanzata un’ulteriore istanza di rinvio, al fine di consentire la riunione del presente processo con altra controversia. Questa Corte, con apposita ordinanza, respingeva detta ulteriore istanza di rinvio, rilevando la diversità di oggetto dei due giudizi.
13. All’esito dell’udienza odierna, non essendosi perfezionata alcuna conciliazione, la Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado del Piemonte pronunciava infine la presente sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Ai fini della decisione, occorre anzitutto premettere che l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione in questa sede (recante il n. T7G010700743/2018) ha addebitato alla sig.ra S. un maggior reddito imponibile ai fini IRPEF di € 68.500,00, rappresentato dal provento illecito conseguito dalla I. S.r.l. per il fatto che tale società aveva svolto il “ruolo di missing trader in una frode IVA intracomunitaria, all’interno di un’organizzazione fraudolenta volta alla realizzazione di scambi commerciali allo scopo di evadere l’IVA attraverso l’interposizione e l’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti in quanto la I. srl non è la reale parte contrattuale ma soltanto una cartiera” (così si legge testualmente a p. 3 della motivazione dell’avviso). Il medesimo avviso precisa, altresì, che: “Dalle risultanze delle indagini finanziarie condotte nel corso della verifica nei confronti della società, è stato determinato nell’accertamento” emesso nei confronti della società (recante il n. T7G030704286/2017) “un provento illecito di € 68.500,00, in base alla redditività media sulle singole operazioni desumibili dai conti correnti della società”. Non vi è, quindi, alcun dubbio sul fatto che l’importo di cui si discute è costituito esclusivamente dal provento illecito che è stato conseguito dalla I. S.r.l. per effetto della sua attività di interposizione fittizia nelle operazioni commerciali intercorse tra altri soggetti. Nondimeno, nell’avviso di accertamento impugnato, si legge pure che: “Tale provento è da imputare all’amministratore di fatto della società per la condotta fraudolenta di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti” (cfr. a p. 3 di detto avviso). La qualificazione di tale somma, quale reddito tassabile in capo alla sig.ra S è, infatti, dichiaratamente avvenuta, da parte dell’Ufficio, a norma dell’art. 14, comma 4, della L. 24.12.1993 n. 537, ai sensi del quale:
“Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.”. Dunque, il fatto costitutivo della pretesa impositiva è rappresentato dal fatto che la sig.ra S. è stata individuata dall’Ufficio “quale amministratore di fatto, nonché di essere tra i promotori, costitutori e organizzatori della frode.” (come esplicitato sempre a p. 3 dell’avviso qui impugnato) e, quindi, sostanziale percettore del maggior reddito imponibile IRPEF di cui si tratta.
2. Orbene, non vi è alcun dubbio in merito al fatto che l’onere probatorio di dimostrare l’effettività di quella partecipazione alla frode da parte della S. , anche eventualmente attraverso lo svolgimento dell’attività di amministratore di fatto della I. S.r.l., grava esclusivamente sull’Agenzia delle Entrate, che ha indicato quel suo particolare ruolo quale presupposto fondante dell’imposizione a suo carico.
3. La decisione appellata ha ritenuto, condividendo quanto affermato in proposito dall’Ufficio, che la prova del ruolo di amministratore di fatto della S. consegua semplicemente dal fatto che il precedente avviso di accertamento (recante il n. T7G030704286/2017), emesso nei confronti della società, non era stato impugnato da alcuno (neppure dall’attuale appellante) e, pertanto, le circostanze di fatto nel medesimo esposte sarebbero da ritenersi incontestate in giudizio a norma dell’art. 115 c.p.c.. Tale conclusione, in realtà, è del tutto infondata e non può essere condivisa. E’ bensì vero, infatti, che nel primo avviso di accertamento, richiamato da quello qui impugnato, si faceva riferimento, in motivazione, al fatto che: “Dal fascicolo relativo al procedimento penale emerge come tra gli ideatori/responsabili della frode, ampiamente descritta nel pvc a p. 21, ci sia la sig.ra S. G. ” (cfr. a p. 4 di detto avviso). Tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dall’Ufficio (e dalla sentenza appellata), alla pur pacifica mancata impugnazione di detto avviso non può farsi certamente derivare il fatto che quella conclusione degli operanti sia da ritenersi circostanza non contestata da parte della S. . Sul punto, non si può infatti fare a meno di rilevare che l’avviso di accertamento n. T7G030704286/2017 è stato dichiaratamente emesso dall’Agenzia delle Entrate nei soli confronti della I S.r.l., pur nella persona dell’amministratrice e legale rappresentante della stessa S. G. , mentre quest’ultima è stata presa in considerazione esclusivamente quale “rappresentante legale di I. S.r.l.” (come espressamente indicato a p. 2 dell’avviso). Anzi, nel medesimo atto, è stato espressamente precisato che “Gli uffici competenti dell’Agenzia delle Entrate procederanno con atto separato all’accertamento dei proventi illeciti conseguiti ai sensi dell’art. 14, c. 4, della L. 537/1993 e dell’art. 36, c. 34 bis, del D.L. 223/2006, in capo al soggetto che l’Ufficio antifrode dell’Agenzia delle Entrate ha individuato tra i promotori, costitutori e organizzatori della frode, e quale amministratore di fatto della I. : S. G .” (cfr. a p. 6 di detto avviso). La S. persona fisica, dunque, non era parte destinataria di quel primo avviso di accertamento, bensì semplicemente il soggetto indicato quale rappresentante legale della società destinataria dell’atto. Ella, pertanto, non aveva alcun onere di attivarsi per contestare situazioni di fatto che non le erano state opposte, in quel frangente, come costitutive di pretese tributarie nei suoi confronti. Peraltro, nel medesimo atto si era dato conto del fatto che: “nel contraddittorio riportato a pag. 8 del pvc, la sig.ra S. ha negato qualsiasi coinvolgimento nella gestione societaria”, così apparendo del tutto evidente, pure per gli stessi operanti, che detta contribuente non aveva mai riconosciuto alcun suo ruolo, non solo nel traffico illecito di cui si discute, ma neppure nella gestione della I. S.r.l.. Del tutto errate si appalesano, dunque, le affermazioni della decisione impugnata in merito al fatto che la qualità di amministratore di fatto della I. s.r.l., in capo all’attuale appellante, doveva ritenersi circostanza pacifica.
4. Sulla scorta di quanto sopra, deve altresì precisarsi come la sentenza qui appellata richiami del tutto infondatamente il disposto dell’art. 115 c.p.c. a sostegno dei proprio assunti. Tale norma, infatti, costituisce una regola di giudizio che, sebbene estensibile anche al processo tributario, è applicabile esclusivamente con riguardo ai soggetti che rivestono il ruolo di parte in giudizio. Il chiaro disposto della norma, prevede infatti che: “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. Orbene – come si è già evidenziato poc’anzi – la sig.ra S non era affatto “parte” nel procedimento avviato dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della società con l’atto impositivo n. T7G030704286/2017, poiché la pretesa dell’erario avanzata in quella sede era rivolta esclusivamente alla I. S.r.l. Per converso, la S ha tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento a lei rivolto (recante il n. T7G010700743/2018), facendo espressamente valere proprio la sua totale estraneità alla gestione della I. S.r.l. e negando totalmente, fin dall’atto introduttivo del giudizio, il suo supposto ruolo di amministratrice di fatto di detta società. Non può quindi affatto ritenersi “non specificamente contestata” la circostanza che l’Ufficio pone alla base dell’attribuzione alla S del maggior reddito IRPEF di cui si discute in questa sede. La sentenza appellata risulta, dunque, meritevole di totale riforma con riguardo alle conclusioni assunte sul punto.
5. Chiarito quanto precede, è doveroso prendere atto del fatto che l’Agenzia delle Entrate non ha fornito sufficienti elementi probatorio a sostegno della propria conclusione inerente alla responsabilità della S per i profitti illeciti conseguiti dalla I. S.r.l. E’ infatti anzitutto da notare, a tal proposito, che non assume rilievo decisivo il solo fatto che la S. abbia assunto la formale veste di amministratore della I. S.r.l. nell’anno 2014, dovendosi rilevare che ella ha assunto tale qualità per un brevissimo periodo di tempo (e cioè dalla sua costituzione, avvenuta il 23.1.2014, fino al 7.4.2014) ed ha comunque negato, già nel corso della verifica, di essersi mai realmente occupata della gestione della società (avendo ella riferito ai verificatori, in data 21.10.2014 – cfr. a p. 47 del PVC – che: “Non mi sono mai occupata dell’amministrazione, di fatture, di rapporti con clienti e fornitori. Non ho mai avuto una casella di posta elettronica con il nome I né scritto e-mail ad alcun cliente o fornitore. Non ho mai firmato alcun documento”, sostenendo, quindi, di essere sostanzialmente un mero prestanome). Non si può inoltre fare a meno di sottolineare che l’Ufficio non ha neppure prospettato che siano stati compiuti dalla S. specifici atti gestori, rilevanti ai fini che qui interessano (poiché significativi di una sua consapevole partecipazione alla frode o di una sua appropriazione degli utili conseguiti), durante il breve lasso temporale in cui ella ha assunto la veste formale di amministratrice della società in questione. Peraltro, l’Agenzia delle Entrate, anche nel presente processo, insiste esclusivamente nel sostenere che la S. debba rispondere di quegli illeciti quale “amministratore di fatto” della I. S.r.l. (e non per il suo ruolo di amministratore di diritto). Nondimeno, anche la prova di tale qualifica risulta completamente assente dagli atti del presente processo. Non è infatti sufficiente invocare, all’uopo, il fatto che la S. , per l’intera annualità di cui si discute, ha sempre rivestito il ruolo di socia di maggioranza (detenendo il 95 % delle quote sociali) della I. S.r.l.. La proprietà del capitale sociale, invero, non implica in alcun modo il fatto che ella abbia anche avuto il ruolo di effettivo gestore della I. S.r.l., dalla stessa ascritto ad altri soggetti, né tantomeno che la S. abbia effettivamente conseguito il reddito IRPEF che l’Ufficio ha quantificato come da lei maturato. Né può farsi ricorso, come sembra adombrare l’Ufficio nelle proprie difese, a criteri presuntivi (nella specie addirittura sotto un duplice profilo, dapprima a riprova della qualità della S. di amministratrice di fatto della I. S.r.l. e poi di soggetto percettore delle somme illecitamente conseguite dalla società). Il preciso onere probatorio, gravante sull’Ufficio, di dimostrare il conseguimento di un maggior reddito imponibile da parte della S. necessita, infatti, la dimostrazione di precisi elementi fattuali a cui ancorare il giudizio, dovendosi ricordare il disposto dell’art. 2639 c.c. a norma del quale: “E’ amministratore di fatto colui che esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici alla qualifica o alla funzione”. E’ bensì vero che la Suprema Corte, ha avuto modo di precisare che “la prova della posizione di amministratore di fatto di una società “schermo” – priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata in un meccanismo fiscalmente fraudolento – si traduce in quella del ruolo di “dominus” ed ideatore del suddetto sistema fraudolento, anche considerando il fatto che non è ipotizzabile l’accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico all’interno di un ente esistente quasi solo sul piano formale (Sez. 5, n. 32398 del 16/03/2018, Caruso, Rv, 273821).” (così, da ultimo, vedi la motivazione di Cass. 6.10.2020 n. 31823). Tuttavia, nel caso di specie, è mancata completamente una prova adeguata del fatto che la S. abbia concretamente posto in essere comportamenti di quel tipo. E’ opportuno aggiungere che non può essere utile, in proposito, neppure il richiamo a quanto esposto nel PVC redatto in data 8.6.2018 dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, ove si legge, a p. 13 del medesimo, che: “In sede di indagine la P.G. operante ha accertato che la Sig.ra S. G. legale rappresentante della società “cartiera” I .S.r.l. oggetto della presente verifica, nell’organizzazione criminale aveva compiti di:
– rappresentanza legale di società cartiere”;
– procacciatore di clienti;
– ricevimento di ordini di acquisto da parte dei clienti finali;
– registrazione (ai fini IVA) di nuove società presso l’Agenzia delle Entrate;
– favorire, presso la propria sede, l’elezione di domicili fiscali di società “cartiere”;
– curare la logistica;
– di consegna degli oli lubrificanti ai clienti finali.” Infatti, è doveroso osservare che, in detto PVC, gli accertatori – nonostante si siano lungamente dilungati (nelle pagine da 13 a 25) nel descrivere le modalità con cui la I. S.r.l. ha posto in essere la sua attività illecita – non hanno mai indicato alcuna circostanza di fatto in base alla quale hanno ritenuto sussistente l’effettiva partecipazione della S. alle attività a lei ascritte. Anche le notazioni conclusive degli operanti, sopra ricordate, si risolvono, quindi, in apodittiche valutazioni, di cui non è stato possibile constatare la fondatezza in questa sede. In verità, l’unico elemento fattuale che viene evidenziato negli atti come significativo di una effettiva partecipazione della S alle attività illecite di cui si tratta è costituita dall’esistenza di alcune e-mail, provenienti dalla I. S.r.l., recanti il nome dell’attuale appellante come sottoscrittore delle stesse. Nondimeno, però, tale elemento risulta completamente inidoneo a comprovare l’effettiva riconducibilità di quegli scritti alla S. , poiché l’indicazione del suo nominativo ben poteva essere operata da qualsivoglia soggetto avente accesso all’indirizzo di posta elettronica in questione.
6. Da ultimo, non si può fare a meno di notare che, nel caso concreto, non risulta neppure che dallo svolgimento del processo penale apertosi nei confronti della S siano emersi elementi probatori idonei a comprovare la tesi dell’Ufficio. Infatti, sotto il profilo procedurale, è doveroso anzitutto ricordare che non si può certamente configurare una qualche pregiudizialità tra questo e quel processo tale da imporre o rendere opportuna la sospensione del presente giudizio in attesa della definizione del processo penale. Nell’ordinamento italiano, infatti, come è noto, i rapporti tra il processo penale e quello tributario sono regolati sulla base del principio dell’autonomia e della separazione delle giurisdizioni, in forza del quale le vicende processuali penali sono ininfluenti nei processi tributari, tanto da configurarsi un cd. «doppio binario». Conseguentemente, dal punto di vista dinamico (ossia della contemporanea pendenza dei due giudizi), il processo tributario non è suscettibile di essere sospeso a causa della contemporanea pendenza di un processo penale avente ad oggetto fatti fiscalmente rilevanti: esclude espressamente tale possibilità l’articolo 20 del D.Lgs. 74/2000, a norma del quale “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”. Neppure può dirsi che l’esito del processo penale svoltosi a carico della S abbia prodotto un esito vincolante in questa sede. E’ bensì vero, infatti, che il novellato art. 21-bis del D. Lgs. 10.3.2000 n. 74 stabilisce ora che: “La sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi.”. Altrettando indiscutibile è il fatto che la contribuente ha prodotto in giudizio (in data 12.6.2024) la sentenza emessa in data 13.4.2022 dal Tribunale di Milano con cui la S è stata assolta, per insussistenza del fatto, dal seguente reato:
“delitto p. e p. dagli artt. 100, 81 cpv c.p., 40 D. Lgs. 504/1995, perché in concorso tra loro, S. in qualità di rappresentante legale della I. S.r.l., M. in qualità di legale rappresentante della Autotrasporti M. M. and C. S.n.c., con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, attraverso l’utilizzo di false bolle di accompagnamento XAB:
– che attestavano l’assolvimento, in realtà mai avvenuto, dell’imposta di consumo e – che a tale fine, mascheravano la provenienza estera della merce, indicando quale luogo di prima introduzione del prodotto sul territorio nazionale un indirizzo in realtà inesistente in None (TO), mentre la merce proveniente dall’estero veniva direttamente ricevuto in Peschiera Borromeo (MI) e in Milano, presso le sedi della Autotrasporti M. M. and C. S.n.c., destinavano oli minerali al cliente S. E. , così sottraendoli al pagamento dell’accisa oli minerali per una imposta di consumo evasa in relazione all’anno 2014 di 94.216 euro (corrispondenti a oli per kg. 122.533). Con l’aggravante di cui all’art. 40 co. 4 D.Lgs. 504/1995, per essere il quantitativo di prodotto sottratto alla tassazione superiore a 2.000 kg. Fatto commesso in Milano nell’anno 2014.” Dunque, la semplice lettura del capo di imputazione dimostra che in quel giudizio penale sono stati esaminati i medesimi fatti che vengono in considerazione in questa sede, ancorché la S. sia stata imputata, avanti al giudice milanese, unicamente quale legale rappresentante della I. S.r.l. e non quale amministratrice di fatto della stessa (come invece accade nel presente processo). E’ peraltro doveroso, in ogni caso, rilevare che detta sentenza penale, completamente assolutoria della S. (perché il fatto non sussiste), non risulta, sulla scorta dei documenti prodotti in giudizio, ancora passata in giudicato e non può, quindi, assumere valore vincolante nel presente giudizio tributario (ai sensi del nuovo disposto di cui all’art. 21-bis del D. Lgs. 10.3.2000 n. 74). Nondimeno, sotto il profilo sostanziale, è indiscutibile la sicura possibilità di recepire in questa sede le emergenze probatorie raccolte in sede penale, al fine di utilizzarle, in totale autonomia, per la verifica della fondatezza della situazione rilevante in sede tributaria. Tuttavia, nel caso di specie, non si può fare a meno di notare che l’Ufficio ha completamente omesso di portare all’attenzione di questo Giudice gli elementi probatori raccolti nel processo penale in questione, né ha avuto miglior sorte la richiesta, formulata in data 14.9.2021 da questa Corte (in altra composizione), che è rimasta senza risposta e che, comunque, non poteva avere valore supplettivo rispetto all’onere probatorio gravante sulla parte. Risulta, quindi, doveroso concludere nel senso di affermare l’insufficiente dimostrazione delle pretese impositive dell’Agenzia delle Entrate.
7. Pertanto, la sentenza qui appellata deve essere interamente riformata. Il ricorso della contribuente deve, infatti, trovare accoglimento, con conseguente annullamento dell’avviso di accertamento impugnato. La totale soccombenza dell’Ufficio, impone, infine, la sua condanna a rifondere le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
in riforma della decisione di primo grado;
annulla l’avviso di accertamento impugnato;
condanna la contribuente a rifondere le spese di entrambi i gradi di giudizio, che si liquidano, quanto al primo grado, in complessivi € 3.000,00, oltre accessori di legge, e, quanto al secondo grado, in complessivi € 4.000,00, oltre accessori di legge.