Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell’ Abruzzo, sezione n. 6, sentenza n. 705 depositata il 2 ottobre 2023
IRES – Doppie imposizioni – L’acquisto di titoli e la successiva rivendita, al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale (cosiddetto dividend washing) non è opponibile all’Amministrazione finanziaria.
Massima:
Ricorre il cd. “dividend washing” (Corte Suprema di Cassazione, pronunce nn. 26057/2015; 25726/2009) “in caso di acquisto di titoli presso un fondo comune d’investimento e successiva rivendita dei medesimi dopo la percezione dei dividendi, essendo tale nozione integrata ogniqualvolta, a prescindere dalla natura civilistica del negozio posto in essere, siano utilizzati strumenti giuridici al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale ed in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel vantaggio, quindi senza concreto scambio di prestazioni contrattuali, la cui effettività deve essere dimostrata dal contribuente; in caso di mancato assolvimento del menzionato onere probatorio, tale negozio resta inopponibile all’Amministrazione finanziaria, in virtù del principio antielusivo accolto dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, che non permette la divergenza fra il possessore reale del reddito e quello apparente, ancorché essa derivi dall’interposizione di un terzo, quale espressione di una regola generale, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e sotteso all’art. 53 Cost., laddove menziona la capacità contributiva e la progressività dell’imposizione.
Testo:
La S. SA, con sede in Francia e senza una stabile organizzazione in Italia, ha impugnato il provvedimento col quale il Centro Operativo di Pescara (COP) aveva parzialmente respinto le sue richieste (in numero di 612) di rimborso del credito d’imposta (per complessivi ? 81.285049,54), che asseriva esserle dovuto in applicazione della Convenzione tra Italia e Francia sulle doppie imposizioni, per i dividendi che aveva percepito negli anni 1992-2002, su partecipazioni detenute in società italiane. Il diniego del COP si fondava sugli accertamenti che erano stati eseguiti dalla GdF, a cui era stato affiancato un perito nominato dal PM ; tali accertamenti avevano avuto ad oggetto un campione significativo di quelle istanze (pari al 32,19%), e dagli stessi era emerso che il credito spettava in relazione ad una parte soltanto dei dividendi (il 36,57% del totale), mentre per la differenza (il 63,43%) si trattava di operazioni elusive, nel senso la S. aveva acquistato, o ricevuto in prestito, le partecipazioni azionarie a ridosso del pagamento dei dividendi; e le aveva poi rivendute (o restituite) dopo il suo pagamento, a distanza di un breve lasso temporale. Il COP, quindi, ha escluso il diritto al rimborso in relazione al 63,43% del credito d’imposta, sul rilievo che per l’inerente porzione di dividendi la S. aveva svolto un’attività di mera intermediazione in favore di altri operatori non qualificati che, in ragione della loro nazionalità (per lo più statunitensi), non avrebbero potuto fruire dei vantaggi assicurati dalla Convenzione: con l’ulteriore conseguenza che, in relazione a quei dividendi, mancava anche la prova che la S. ne fosse il beneficiario effettivo. Il COP ha perciò rimborsato la percentuale del credito d’imposta risultata dovuta (dapprima ? 20.084.386,03, e poi altri ? 9.679.985,77); mentre la S., dal canto suo, s’è detta disposta a rinunciare al 20% del proprio credito, quantificando in quella diversa e minore percentuale l’ammontare dei dividendi che potevano astrattamente conformarsi alla condotta che le veniva addebitata dall’Ufficio come elusiva (acquisto e successiva rivendita delle azioni, a cavallo del pagamento del dividendo). Per cui, in conclusione, la S. ha impugnato il provvedimento di rifiuto parziale, ed ha chiesto alla CTP di condannare l’Ufficio a pagare la differenza ancora dovutale (pari ad ? 39.360.545,01, che costituisce l’oggetto della lite). La CTP, e poi la CTR hanno accolto il ricorso, ma la sentenza di appello è stata impugnata sia l’Ufficio che dalla S.: il primo ha ribadito i rilievi già mossi, e lamentato l’insufficienza della motivazione grazie alla quale la CTR li aveva superati; mentre la seconda ha chiesto, con ricorso incidentale condizionato, accertarsi che la sentenza della CTP non era stata impugnata -ed era perciò passata in giudicato- in relazione al fatto che essa contribuente fosse il beneficiario effettivo dei dividendi.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso incidentale, mentre ha accolto quello svolto dall’Ufficio. A tale fine ha rilevato che costituiva circostanza pacifica quella secondo cui l’Ufficio aveva fondato il diniego di rimborso fornendo non soltanto una prova presuntiva -fondata sul criterio della cd. “giacenza media”, e quindi “sulla rilevazione delle giacenze delle azioni al termine degli undici mesi solari diversi da quello in cui è avvenuto lo stacco del dividendo e sulla non rimborsabilità delle domande nella misura differenziale tra i titoli posseduti al momento dello stacco del dividendo e la media mensile degli altri undici mesi”- ma aveva valorizzato anche la prova analitica, nel senso che aveva “individuato una serie di singole operazioni cd. simmetriche, effettuate per uguali quantitativi di titoli a cavallo dello stacco del dividendo e intercorse, in breve lasso temporale, anche però superiore al mese, con soggetti non qualificati (e quindi non aventi titolo al credito convenzionale) o con soggetti qualificati ma interposti in operazioni con soggetti non qualificati, e nel successivo utilizzo statistico del dato rilevato, con determinazione del rapporto tra la quantità di titoli posseduti al momento dello stacco del dividendo e la quantità di titoli oggetto di operazioni simmetriche, al netto di operazioni reciproche di prestito in uscita”. A fronte di tali rilievi, dunque, la CTR aveva appuntato la propria disamina soltanto sulla prova presuntiva; e non aveva indicato i motivi in forza dei quali aveva ritenuto che la S. fosse stata l’effettivo percettore dei dividendi. Più in particolare, la sentenza di rinvio ha ricordato che in materia di rimborsi l’onere della prova incombe sul contribuente; ed ha aggiunto che “le convenzioni contro le doppie imposizioni sono strumenti di diritto internazionale pattizio il cui fine è quello di evitare il fenomeno della cd. doppia imposizione giuridica, in materia di imposte sul reddito e di capitali, nonché prevenire l’evasione fiscale. Ne deriva che il godimento dei benefici convenzionali non può che essere strettamente connesso alla circostanza che il contribuente, che ne beneficerà, sia un soggetto, non solo sottoposto alla effettiva giurisdizione dell’altro Stato contraente (requisito della residenza), ma anche il soggetto che avrà la disponibilità economica e giuridica del provento formalmente percepito, versandosi, altrimenti, nell’ipotesi di una «traslazione impropria dei benefici convenzionali»; è in questa prospettiva che la prassi internazional-tributaria ha elaborato il concetto di beneficiario effettivo al fine di contrastare quelle pratiche volte proprio a trarre profitto dall’autolimitazione della potestà impositiva statale. In ambito Ocse, il concetto di beneficiario effettivo è comparso per la prima volta nel Modello di convenzione del 1977, negli artt. 10 e 11, rispettivamente dedicati al regime di tassazione di dividendi ed interessi.
La clausola del beneficiario effettivo si può quindi qualificare come una clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, volta ad impedire che í soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping con lo scopo di far godere della protezione convenzionale contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole (Cass. 19/12/2018, n. 32840; Cass. 28/12/2016, n. 27116; Cass. 16/12/2015, n. 25281).
Il treaty shopping implica lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo. Alla luce di tale clausola e della stessa origine delle convenzioni fiscali, il self-restraint, cui uno Stato nazionale acconsente sottoscrivendo una convenzione, non può, evidentemente, spingersi fino al punto di consentire un abuso della stessa convenzione che realizzerebbe, quindi, un fenomeno di doppia non imposizione altrettanto deprecabile quanto quello della doppia imposizione”. Il processo è stato riassunto dalla S., che ha reiterato la richiesta di rigetto dell’appello a suo tempo proposto dall’Ufficio contro la decisione di primo grado. A tale fine ha ricordato quanto già esposto col ricorso introduttivo: e cioè d’essere uno dei maggiori operatori finanziari attivi sui mercati borsistici internazionali; e d’essere specializzata nel mercato degli strumenti finanziari derivati (opzioni, contratti “futures”, swap). Ha spiegato che le operazioni sui derivati hanno natura speculativa, e si fondano sulla previsione di un futuro rialzo -o di un ribasso- del titolo sottostante, per cui implicano la necessità di coprire l’inerente rischio di mercato acquistando, o vendendo, quantità equivalenti delle azioni a cui il derivato è agganciato, oppure scambiando un derivato “opposto”, così da coprire, almeno parzialmente, il rischio connesso all’operazione. Ha aggiunto che le società d’intermediazione operano, per lo più, su mandato della clientela, per cui, per loro, l’esito dei derivati è neutro (nel senso che i guadagni o le perdite riguarderanno il cliente); mentre il loro profitto è costituito dalla commissione che percepiscono su ciascuna operazione di acquisto o di vendita dei titoli, il cui valore, nel corso di un anno e sul solo mercato italiano, ammonta, per S., a svariati miliardi di euro. Ha fatto presente che anche le operazioni sui derivati che essa S. gestisce in proprio sono connotate da un rischio limitato, grazie proprio alla copertura di cui s’è detto: ed ha dedotto che quello era lo scopo degli acquisti e delle vendite che l’Ufficio aveva ritenuto essere elusive. Più in particolare, ha fatto presente che l’Ufficio aveva negato il rimborso ritenendo che essa S., al pari di altre società estere d’intermediazione, si fosse prestata a porre in essere operazioni abusive (e cioè di figurare titolare delle azioni al momento del pagamento dei dividendi, mentre quelle azioni, nei fatti, erano rimaste nella disponibilità di altre società non qualificate, che non avrebbero potuto beneficiare del credito d’imposta per avere la sede in un Paese la cui Convenzione con l’Italia non lo prevedeva): ma così non era, tant’è che una parte di quelle operazioni avevano come controparte soggetti che avevano sede nella UE, per cui avrebbero potuto beneficiare a loro volta del credito d’imposta, e non avevano, quindi, alcun interesse a trasferire le azioni a S. al momento del pagamento dei dividendi. Ha dedotto che il criterio della media era stato impostato male (confrontando il numero di azioni detenute da S. nel giorno di pagamento dei dividendi, col numero medio di quelle stesse azioni detenuto nell’ultimo giorno dei restanti undici mesi): mentre il raffronto avrebbe dovuto essere fatto con la media di titoli posseduti alla fine di ciascun giorno dei sei mesi precedenti, e dei sei mesi successivi a quello di pagamento del dividendo. E così facendo, il “picco” di possesso di azioni in occasione del dividendo sarebbe risultato molto più modesto (del 20%, pari alla percentuale del credito a cui s’era detta disposta a rinunciare). Ha aggiunto che anche quelle che, secondo l’Ufficio, sarebbero state “operazioni simmetriche”, tali non erano: nel senso che -pur avendo ad oggetto le stesse quantità di titoli, che venivano acquistati e poi rivenduti ad un medesimo operatore finanziario- non nascondevano il fine ipotizzato (beneficiare del credito d’imposta, a cui il reale proprietario dei titoli non avrebbe avuto diritto), ma erano destinate a fornire la copertura dai rischi per le operazioni sui derivati. Ed a tale fine doveva ulteriormente considerarsi che su alcuni titoli (ad esempio Telecom Italia) in un breve lasso temporale (ad es. aprile-luglio 2003) era stato eseguito un numero elevatissimo di transazioni (più di 27.000), ripassate con pochi operatori professionali (istituzioni finanziarie): per cui era altamente probabile che lo stesso numero di azioni fosse stato acquistato e rivenduto allo stesso soggetto, a breve distanza di tempo. Ha contestato ulteriormente d’avere avuto la disponibilità delle azioni soltanto per pochi giorni, posto che quel lasso temporale aveva avuto una durata apprezzabile, che andava da due a nove mesi: ed anche questo dato sconfessava la tesi dell’Ufficio, di esistenza di un collegamento tra l’acquisto dei titoli, il pagamento del dividendo e la loro rivendita; mentre restava confermata la tesi di essa S., secondo cui s’era trattato, invece, di ordinarie operazioni di copertura dal rischio dei derivati. Ha ribadito che i titoli, nella gran parte dei casi, erano stati acquistati e poi rivenduti, e che solo in poche occasioni erano stati invece consegnati in comodato, e poi restituiti. Ciò perché in questo secondo caso non avrebbero potuto svolgere la funzione di copertura del rischio legato allo strumento derivato; mentre gli sporadici prestiti di azioni erano serviti soltanto come copertura di “operazioni corte” su titoli. Ha esaminato partitamente le cd. “operazioni simmetriche”, ed ha fatto presente che il prezzo di rivendita non era stato pari a quello di acquisto, maggiorato del dividendo, ma era stato di volta in volta pattuito alle condizioni di mercato, per cui era stato talvolta superiore alla somma di cui s’è detto, ed altre volte inferiore. Ed ha concluso ribadendo d’essere stata il beneficiario effettivo di quei dividendi, per cui il rimborso era dovuto. L’Ufficio ha insistito nell’appello che aveva a suo tempo proposto contro la sentenza di primo grado, ribadendo che la S. non era il beneficiario effettivo dei dividendi, posto che aveva acquistato le azioni poco tempo prima del pagamento del dividendolo, e le aveva rivendute, spesso al medesimo soggetto, qualche tempo dopo. Più in particolare, era spesso accaduto che una banca d’affari statunitense avesse venduto alla S., in prossimità del pagamento dei dividendi, azioni di società italiane; ed una volta pagato il dividendo, quelle stesse azioni avevano fatto il percorso inverso, ritornando al titolare originario: e tutto ciò al solo fine di fruire del credito d’imposta, di cui gli effettivi titolari della partecipazione non avrebbero potuto giovarsi, posto che quel credito non è contemplato dalla Convenzione tra gli Stati Uniti e l’Italia. S’era trattato, quindi, di un trasferimento solo formale e temporaneo, teso ad eludere la norma convenzionale (cd. “treaty shopping”) ed a conseguire un indebito vantaggio tributario. Tant’è che la gran parte di quelle operazioni era avvenuta, non a caso, al di fuori dei mercati regolamentati di borsa, per il tramite del canale SWIFT, a cui hanno accesso soltanto gl’istituti di credito; e con modalità a loro volta anomale (“receipt free” e “delivery free”), e quindi senza il pagamento del corrispettivo, né in sede di acquisto nè di rivendita. L’Ufficio ha allegato i prospetti degli indici di borsa degli anni 2001-2003, dai quali emerge che, nel corso dei diversi mesi dell’anno, il numero delle operazioni di compravendita di azioni rimane sostanzialmente stabile, a dispetto del fatto che quasi tutte le società italiane paghino i dividendi nei mesi di maggio e di giugno: per cui erano significativi -nel senso che avvaloravano la tesi dell’Ufficio- i picchi di acquisto e di rivendita di azioni, da parte di S., a cavallo di quei pagamenti. Ha dedotto che il campione utilizzato dal perito per giungere alla conclusione sopra descritta era sufficientemente ampio, e tale da conferire piena attendibilità al calcolo della percentuale di dividendi su cui il credito d’imposta era effettivamente dovuto, rispetto a quella delle operazioni connotate da finalità elusive. Ed inoltre, esso Ufficio non s’era limitato a fornire elementi di prova presuntiva (il calcolo della media mensile di azioni possedute), ma s’era spinto fino alla verifica dei tempi di acquisto e di rivendita dei titoli, ed all’individuazione di specifiche operazioni simmetriche. Tant’è che la stessa S. s’era infine detta disponibile a rinunciare ad una porzione (il 20%, per quanto detto) del credito d’imposta: ma quella percentuale era assai inferiore all’effettiva misura delle operazioni elusive (63,43%). Ha ribadito che la disponibilità delle azioni, nei fatti, era rimasta sempre in capo ai soggetti residenti negli Stati Uniti, e che la S. non era, quindi, il beneficiario effettivo del dividendo. Ha fatto rilevare che l’indagine aveva consentito di accertare che le operazioni simmetriche riguardavano un’apprezzabile percentuale del totale (fino al 44,58%), e non presentavano valide ragioni economiche diverse dalla fruizione del credito d’imposta, di cui gl’investitori USA, per quanto detto, non avrebbero potuto beneficiare. Mentre in diritto ha ricordato che l’art. 10, par. 8, della Convenzione tra Italia e Francia specifica che il credito d’imposta non spetta a coloro che acquisiscano partecipazioni in società italiane con finalità elusive; limite che, peraltro, è evincibile anche dalla disposizione di cui all’art. 37 bis, comm1 1 e 2, del d. p.r. 600\1973. E nel caso di specie, sia i fondi statunitensi che la S. avevano tratto un vantaggio dall’operazione: i primi, realizzando una plusvalenza, scaturita dalla differenza tra il prezzo di vendita (più alto, perché incorporava anche l’aspettativa del dividendo che sarebbe stato pagato di lì a poco, ed il cui ammontare, peraltro, viene talvolta comunicato con un certo anticipo) e quello di riacquisto: plusvalenza che, a differenza del dividendo, è esente da imposta; mentre la seconda ha conseguito, oltre al credito d’imposta, una minusvalenza fiscalmente deducibile. Per cui ha concluso chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, in considerazione del fatto che la porzione del credito d’imposta effettivamente spettante era già stata rimborsata, mentre per la restante parte il rimborso non spettava, non avendo la S. fornito la prova d’essere la beneficiaria effettiva dei dividendi; ed anzi, essendo emersa la prova della natura elusiva di quelle operazioni. La S. ha replicato puntualmente a tali rilievi, insistendo nel rigetto dell’appello.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ciò premesso in fatto, è bene premettere che questa Corte non dubita del fatto che la S. sia uno dei maggiori operatori finanziari internazionali, e che sia specializzata in operazioni sui derivati; le viene però contestato che, a lato di operazioni lecite, abbia posto in essere anche operazioni elusive, in relazione alle quali il credito d’imposta non può essere riconosciuto. Nel caso di specie, dunque, viene contestato alla S. d’avere acquistato un certo numero di azioni in prossimità del pagamento del dividendo, per poi rivenderle poco tempo dopo, spesso allo stesso soggetto da cui le aveva acquistate. E tale operazione non consente il riconoscimento del credito d’imposta per un duplice ordine di ragioni: perché elusiva, e quindi inopponibile all’Ufficio; e perché la S. non è stata il beneficiario effettivo di quei dividendi. Così posta la questione, occorre allora rilevare che l’anzidetto “picco” di possesso di azioni di società italiane, rispetto alle quantità mediamente detenute da S. nel resto dell’anno, può dirsi dimostrato, ed anzi pacificamente acquisito al processo, una volta che è stato ammesso dalla stessa contribuente, la quale, peraltro, ha utilizzato un criterio di calcolo diverso da quello che era stato adoperato dai verificatori della GdF e dal perito del PM. Per cui il residuo dubbio non ha ad oggetto la sussistenza del fenomeno, ma soltanto il suo ammontare percentuale, che l’Ufficio ha stimato nel 63,43% del totale, mentre la S. nel 20%.
In diritto è poi opportuno ricordare che -per quanto emerge dalla stessa sentenza di rinvio- la nozione di “beneficiario effettivo”, delineato nel modello di convenzione OCSE del 1977 e recepito nell’ordinamento fiscale internazionale, è volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di “treaty shopping”, che implicano lo sfruttamento delle differenze esistenti nei trattati tra le varie nazioni mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo (“conduit”) nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo; pertanto può fruire del beneficio solo il soggetto che, sottoposto alla giurisdizione dell’altro Stato, abbia effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, con esclusione delle società “relais” (interposte), che, sebbene formalmente titolari di redditi, dispongono nella pratica soltanto di poteri molto limitati, risultando essere semplici fiduciarie o amministratori agenti per conto delle parti interessate.
E che ricorre invece il cd. “dividend washing” (v. Cass. 26057\2015; 25726\2009) “in caso di acquisto di titoli presso un fondo comune d’investimento e successiva rivendita dei medesimi dopo la percezione dei dividendi, essendo tale nozione integrata ogniqualvolta, a prescindere dalla natura civilistica del negozio posto in essere, siano utilizzati strumenti giuridici al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale ed in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel vantaggio, quindi senza concreto scambio di prestazioni contrattuali, la cui effettività deve essere dimostrata dal contribuente, in adempimento dell’onere di provare le componenti passive del reddito; in caso di mancato assolvimento del menzionato onere probatorio, tale negozio resta inopponibile all’Amministrazione finanziaria, anche nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 7 bis della l. n. 429 del 1992, in virtù del principio antielusivo accolto dall’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, che non permette la divergenza fra il possessore reale del reddito e quello apparente, ancorché essa derivi dall’interposizione di un terzo, quale espressione di una regola generale, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria e sotteso all’art. 53 Cost., laddove menziona la capacità contributiva e la progressività dell’imposizione“.
Alla luce di tali precisazioni deve allora ritenersi che la S., onerata della prova della spettanza del credito d’imposta, era tenuta a dimostrare che quei “picchi” avevano una propria giustificazione economica, diversa da quella, abusiva, ipotizzata dall’Ufficio; e che, in secondo luogo, era stata la beneficiaria effettiva di quei dividendi. In relazione ai “picchi”, la S., per quanto detto, ha allegato essere errato il criterio di calcolo adottato dall’Ufficio (raffronto del numero di azioni di società italiane detenute il giorno di pagamento dei dividendi, col numero di quelle stesse azioni detenuto nell’ultimo giorno dei restanti undici mesi dell’anno): per cui era inattendibile il dato ricavato da quel calcolo, secondo cui i “picchi” ammonterebbero al 63,43% delle azioni detenute al momento del pagamento dei dividendi. Il raffronto avrebbe dovuto, invece, avere ad oggetto il numero di azioni detenute al momento il giorno di pagamento dei dividendi, e la media di quegli stessi titoli posseduti alla fine di ciascun giorno dei sei mesi precedenti, e dei sei mesi successivi al giorno del pagamento: e così facendo, il picco sarebbe risultato molto più modesto (del 20%).
A sostegno di tale tesi, tuttavia, non ha fornito i dati numerici giornalieri da cui ha estrapolato quel dato percentuale, per cui l’allegazione non è verificabile, e deve aversi per non provata. E sopratutto, la S. avrebbe dovuto a questo punto spiegare il motivo del vistoso scostamento che, secondo la sua tesi, esisterebbe tra il numero di azioni che possedeva nell’ultimo giorno di ciascun mese (dato che è stato posto a base del calcolo dell’Ufficio), ed il numero di azioni che possedeva dei restanti giorni di quegli stessi mesi (dato che avrebbe posto a base del proprio calcolo).
Per cui la prova offerta non vale a sovvertire il dato fornito dall’Ufficio in relazione al criterio della giacenza media: anche perché l’Ufficio si è premurato di esibire una tabella, da cui emerge il volume di scambio di azioni sul mercato italiano nei diversi mesi dell’anno: e da tale tabella non emerge alcun picco nei mesi di maggio e di giugno, né in relazione al numero dei contratti, né in termini di valore monetario degli scambi. La S. ha ulteriormente dedotto che quei picchi trovavano la loro giustificazione economica nella necessità di coprire il rischio connesso ai derivati, con l’acquisto (o la vendita) dei titoli sottostanti: ma, ancora una volta, non ha spiegato la ragione per la quale quella necessità si presentava in misura quantitativamente maggiore nel mese di pagamento dei dividendi, rispetto ai restanti mesi dell’anno. Da ultimo, l’Ufficio ha fatto presente che buona parte di quelle operazioni, di acquisto e di vendita di azioni nel mese di pagamento del dividendo, era avvenuta al di fuori dei mercati regolamentati di borsa, per il tramite del canale SWIFT, a cui hanno accesso soltanto gl’istituti di credito; e con modalità a loro volta anomale (“receipt free” e “delivery free”), e quindi senza il pagamento del corrispettivo, né in sede di acquisto nè di rivendita.
Tale allegazione è rimasta priva di specifica contestazione, e fornisce un’ulteriore prova del fatto che la S. non abbia inteso, effettivamente, acquistare le azioni, ma si sia prestata a detenerle per il tempo necessario ad acquisire il diritto al credito d’imposta. Quanto, poi, alle operazioni cd. simmetriche, la S. ha dedotto che la coincidenza -dei soggetti e del numero di azioni- si spiega tenendo conto del numero, assai elevato, di operazioni di acquisto e di vendita che essa S. pone in essere ogni giorno: per cui si tratta di una mera casualità. Ed ha aggiunto che in alcuni casi il possesso delle azioni era durato diversi mesi. La prima allegazione non persuade, ove si tenga conto del fatto che quasi tutte le operazioni simmetriche sono ripassate con fondi d’investimento americani che, per quanto detto, sono esclusi dal beneficio convenzionale (v. doc. 10, esibito dalla S.).
Mentre la seconda deduzione si scontra col rilievo (evincibile dal medesimo documento) che soltanto in pochi casi il possesso delle azioni è durato più di 60 giorni, mentre di norma sono state rivendute all’interno di quel lasso temporale. Per cui, in conclusione, deve ritenersi che la S. non abbia fornito la prova del fatto d’essere stata la beneficiaria effettiva del dividendo; e del fatto che le operazioni qui in esame non siano state ispirate da fini elusivi: per cui l’appello dell’Ufficio va accolto, e confermato il diniego parziale di rimborso. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
decidendo quale Giudice del rinvio dalla Cassazione, accoglie l’appello dell’Ufficio, e respinge l’istanza di rimborso. Condanna la Societè Generale al pagamento delle spese dei gradi di appello, di Cassazione e del presente giudizio di rinvio, liquidandole, per ciascuno di essi, in ? 20.000 oltre accessori.
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