Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione 5, sentenza n. 3793 depositata il 4 ottobre 2022
Gli assegni periodici corrisposti dall’ex coniuge devono essere tassati come reddito solo se realmente percepiti. Al contrario non rileva che gli assegni concretamente versati siano di importo inferiore rispetto a quello indicato come dovuto in sede di separazione.
Il contenzioso ha ad oggetto un avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2014 con rideterminazione dell’Irpef e delle relative addizionali, emesso dall’ufficio per recuperare a tassazione il maggior reddito asseritamente percepito dalla contribuente come assegno di mantenimento pagato dal proprio ex coniuge. Il punto è che, a dire dell’Ufficio, la contribuente avrebbe dovuto indicare € 24.000 come effettivamente esposto nella prima dichiarazione presentata e invece, con dichiarazione integrativa, ha indicato la minor somma di € 21.991.
La CTP in primo grado ha accolto le ragioni della contribuente rilevando che conta non l’importo stabilito nelle condizioni di separazioni, ma quanto effettivamente percepito e la contribuente ha fornito la prova documentale di avere, nel 2014, percepito meno di quanto era stato previsto. Le spese sono state poste a carico dell’ufficio per € 500.
Propone appello l’Ufficio lamentando l’illegittimità della sentenza per difetto di motivazione in quanto i primi giudici hanno rinviato al ricorso della parte privata senza alcun esame critico dei motivi. A dire dell’Ufficio: non vi è prova che l’importo extra versato come canone di locazione sia quello indicato dalla Sxxxx (e non magari altro importo); non si può escludere che l’ex marito abbia sostenuto altre spese per la ex moglie; d’altronde la contribuente non si è nemmeno attivata presso l’Autorità Giudiziaria per chiedere quanto a lei spettante. Si contesta anche la condanna alle spese perché c’è comunque un equivoco e colposo comportamento della parte a monte dell’accertamento.
Resiste la parte privata che replica puntualmente ai motivi di appello e chiede la conferma della decisione di primo grado.
L’appello dell’Ufficio è infondato e, pertanto, deve essere respinto con conseguente doverosa conferma della decisione di primo grado.
Anzitutto occorre ricordare che, per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, il giudice, nel motivare “concisamente” la sentenza secondo i dettami di cui all’art. 118 disp. att. cpc, non è tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, ben potendosi limitare alla trattazione delle sole questioni, di fatto e di diritto, considerate rilevanti ai fini della decisione concretamente adottata. Ne consegue che quelle residue, non trattate in modo esplicito, non devono necessariamente essere ritenute come “omesse”, per effetto di “error in procedendo”, ben potendo esse risultare semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato. Alla luce di quanto appena ricordato, si deve quindi precisare che la trattazione sarà in questa sede limitata all’approfondimento delle sole questioni rilevanti e dirimenti ai fini del decidere; ritenendosi quindi assorbite tutte le altre eccezioni e questioni. E ciò in applicazione del principio della cosiddetta ‘ragione più liquida’ desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., ulteriormente valorizzato e confermato dalla Suprema Corte (Cass. Civ. SSUU sentenza n. 24883/2008; Cass. Civ. n. 26242/2014 e Cass. Civ. n. 9936/2014).
La sentenza di primo grado è correttamente e adeguatamente motivata e, con riferimento alle spese di lite, ha applicato, come normativamente previsto, il principio della soccombenza.
La parte privata prodotto il provvedimento del Tribunale di Milano che disciplinava le condizioni economiche poste a carico del marito, ma ha anche documentato che anziché corrispondere complessivamente € 96.000, nel 2014, l’ex marito le aveva corrisposto solo la minor somma di € 69.960. Il comportamento assunto dalla contribuente, che ha portato alla indicazione di una minor somma come mantenimento percepito, risulta effettivamente ragionevole e adeguatamente motivato, oltre che supportato dalla documentazione versata in atti. Infatti, oltre a ‘compensare’ in parte la differenza mancante con alcuni pagamenti extra effettuati a suo beneficio dall’ex marito (alcune spese per l’uso della carta di credito della signora per € 7.754,66 e alcuni canoni di locazione per € 10.210), posto che comunque si arrivava a € 87.924,66 (che è meno di € 96.00), in relazione alla differenza in negativo, la contribuente ha operato una imputazione parziale e proporzionale in negativo al proprio assegno di mantenimento.
Stando alle previsioni del TUIR art. 50 comma 1 lett. i) e art. 10 comma 1 lett. c) devono essere tassati come reddito gli assegni periodici corrisposti effettivamente dall’ex coniuge e quindi realmente percepiti, e non l’importo indicato in sede di separazione come dovuto, ma non solo eventuale laddove non realmente corrisposto. Le prove di quanto ricevuto effettivamente dalla contribuente sono state fornite in modo preciso, puntuale e certo. Né può pretendersi che la parte provi di non avere ricevuto altri importi (sarebbe una prova negativa; né possono assumere valore decisivo eventuali ipotesi suggestive del tutto disancorate da qualunque principio di prova (affermazione dell’Ufficio circa il fatto che la signora potrebbe avere ricevuto altre somme dall’ex marito in fatto). Quanto alla circostanza che la contribuente non si sia attivata giudizialmente per chiedere all’ex marito la corresponsione della parte di denaro spettante e non versata, è del tutto plausibile, considerato l’importo in questione, che la scelta sia stata dettata da mere logiche di risparmio economico (in quanto verosimilmente la contribuente avrebbe dovuto sostenere spese maggiori rispetto al valore mancante).
La condanna al pagamento delle spese di lite segue la soccombenza anche in questo grado di giudizio e le stesse si liquidano, considerato il valore della lite, la natura della controversia, il pregio dell’attività prestata e i parametri normativi tabellari di riferimento, in complessivi € 1.000; oltre al 15% a titolo di rimborso spese generali, e accessori di legge se dovuti e alla eventuale restituzione del CUT versato.
La Corte di Giustizia Tributaria di 2° per la Lombardia
L’appello dell’Ufficio, conferma la sentenza della CTP di Milano, sez. n. 12, n. 759/12/2021 depositata il 22.02.2021;
La parte appellante soccombente alla rifusione delle spese di lite che si liquidano, con riferimento a questo grado di giudizio, in complessivi € 1.000; oltre al 15% a titolo di rimborso spese generali, accessori di legge se dovuti ed eventuale rimborso del CUT versato.
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