Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia, sezione n. 2, sentenza n. 2454 depositata il 23 settembre 2024

L’art. 49 della “Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari” è norma speciale che deroga alla disciplina nazionale sulla territorialità della tassazione dei non residenti, in quanto esenta da ogni forma di imposizione i redditi percepiti, nello svolgimento dell’incarico, dai funzionari e impiegati delle rappresentanze diplomatiche e consolari di Stati esteri, quand’anche alla cittadinanza estera abbiano aggiunto la cittadinanza italiana e/o fissato in Italia la residenza fiscale. Le disposizioni degli artt. 1, ultimo comma e 71, comma 2, della Convenzione integrano la disciplina generale del regime fiscale degli impiegati consolari recata dall’art. 49 citato, condizionandone l’applicazione all’insussistenza della cittadinanza italiana e della residenza permanente in Italia (e sempre che il beneficio sia accordato dallo Stato di residenza)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1) Con avviso di accertamento parziale n. /2020, notificato alla signora in data 25 maggio 2021, l’Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale II di Milano (di seguito, per brevità, l’Ufficio), rilevata l’omessa dichiarazione del reddito da lavoro dipendente pari ad euro 24.918,00 erogato dal Consolato Generale e Centro di promozione Argentino di Milano, accertava e richiedeva per l’anno di imposta 2015 una maggiore IRPEF di € 10.672,00, maggiore Addizionale Regionale di € 827,00 e maggiore addizionale comunale di € 189,00, oltre relativi interessi e sanzioni, queste ultime determinate in € 10.519,20.

L’istanza di autotutela presentata dalla contribuente, e motivata sul rilievo che il reddito non fosse tassabile, veniva respinta dall’Ufficio, con atto notificato in data 2 luglio 2021. Ad esso faceva seguito il reclamo opposto dalla contribuente nel quale la stessa rappresentava di essere cittadina argentina dalla nascita e cittadina italiana solo dal 2016, nonché di aver mantenuto la residenza in Argentina sino all’11 febbraio 2010 pur avendo iniziato a lavorare per il Consolato argentino in Italia nel 2008. La reclamante contestava anche l’interpretazione restrittiva dell’art. 49 della Convenzione di Vienna fornita dall’Ufficio nel diniego di autotutela e l’arbitrarietà della ripresa, con la quale l’Ufficio avrebbe riqualificato come imponibile un reddito invece esente.

Su tali premesse veniva chiesto l’annullamento dell’avviso per i motivi seguenti:

– l’assenza di firma autografa del responsabile del procedimento, in violazione dell’art. 42 DPR 600/1973;

– il mancato invito al contraddittorio preventivo;

– nel merito, di essere cittadina argentina trasferitasi in Italia al fine di iniziare il rapporto di lavoro dipendente con il consolato argentino, per tali funzioni l’art. 49 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24/4/1963, stabilisce l’esenzione da imposta;

– l’avviso ha assoggettato i compensi ad imposta senza nemmeno applicare le detrazioni spettanti per lavoro dipendente, ai sensi dell’art. 13 TUIR.

Con successiva memoria integrativa inviata all’ufficio il 10 novembre 2021 la contribuente formulava le seguenti ulteriori contestazioni:

– la nullità dell’accertamento per difetto di sottoscrizione, per mancata allegazione della delega del firmatario e mancata prova della appartenenza di questi alla carriera direttiva, in violazione dell’art. 42 DPR 600/1973 nonché degli artt. 3, 111 e 24 Cost e 5 e 6 della L. 212/2000;

– l’omessa emanazione entro il 31/12/2020 del provvedimento attuativo dell’art. 157 DL 34/2020, necessario per conferire legittimità agli accertamenti emessi entro il 31/12/2020 e notificati a partire dal 01/03/2021 e sino al 28/02/2022.

A seguito della notifica del provvedimento di non accoglimento del reclamo, la contribuente depositava ricorso alla CTP di Milano, riproducendo tutti i motivi esposti in sede procedimentale.

Con sentenza n. 2705, depositata il 7 ottobre 2022, la CTP adita, dopo aver giudicato infondate le eccezioni preliminari, accoglieva il ricorso e annullava l’avviso, in applicazione della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 sulle relazioni consolari il cui articolo 49 prevede per i funzionari e impiegati consolari (e per i membri delle loro famiglie) l’esenzione dalla imposizione fiscale nazionale anche se gli

stessi e i loro familiari sono fiscalmente residenti in Italia e giudicando a tal fine ininfluente sulla efficacia della norma derogatrice la situazione di doppia cittadinanza estera ed italiana della contribuente.

2) Agenzia delle Entrate appellava la sentenza, deducendo a conferma della legittimità del proprio operato:

i) l’errore in cui è incorso il primo giudice per non aver dichiarato l’inammissibilità dei motivi integrativi del reclamo, esposti nella memoria notificata all’Ufficio in data 19 novembre 2021 e inerenti al difetto di sottoscrizione da parte di soggetto legittimato, in relazione alla mancata allegazione della delega del firmatario e alla mancata prova della sua appartenenza alla carriera direttiva, trattandosi di motivi che la parte avrebbe potuto integrare solo in corso di giudizio instaurato e a fronte del deposito di documenti non previamente conosciuti;

ii) nel merito, che la sentenza ha travisato il dato di riferimento, atteso che l’art. 49 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari esplica efficacia esclusivamente per gli stranieri non residenti nello Stato in cui prestano la loro attività, come si evince dal successivo art. 71, secondo comma, della medesima Convenzione, rubricato “Cittadini o residenti permanenti dello Stato di residenza”, il quale prevede che i membri del posto consolare che sono cittadini o residenti permanenti dello Stato di residenza godono delle esenzioni solamente se accordate dallo Stato medesimo. Anche l’art. 4 del DPR n. 601/73 esclude dall’Irpef i redditi percepiti solo dai soggetti non cittadini italiani che svolgono l’attività di impiegati presso le sedi consolari. Nello stesso senso, in tema di condizioni di reciprocità, la Convenzione contro le doppie imposizioni fra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo della Repubblica Argentina (ratificata con la legge n. 282/1982) all’art. 19, titolato “Funzioni Pubbliche” prevede che sono imponibili le remunerazioni erogate dallo Stato estero a persona fisica che non sia divenuta residente in Italia al solo scopo di rendervi i servizi consolari. Nella specie, l’appellante osserva che la Sig.ra è residente in Italia dal 9 gennaio 1996 e, in particolare, in comune di (al domicilio risultante dalle lettere di assunzione prodotte) sin dall’11 luglio 2007, quindi da data di gran lunga antecedente l’inizio del rapporto di lavoro, da collocare al 9 dicembre 2008 secondo le Certificazioni ricevute dal Consolato. Ne deriva che il c.d. “centro degli interessi vitali” va posto certamente in Italia da data antecedente al 2010 e precisamente dal 9 gennaio 1996, in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa in dell’acquisto di un immobile destinato a prima casa in nel corso del 2008 con preliminare registrato nel maggio del 2007 e dell’ingresso come socia al 50% nella società Sas e C. sin dal 2009. Inoltre la contribuente non ha riferito o provato di aver pagato alcuna imposta sui redditi oggetto di accertamento in Argentina, nel periodo di imposta 2015 oggetto dall’avviso di accertamento impugnato;

iii) con riferimento alle eccezioni preliminari, l’Ufficio ribadisce quanto già esposto in primo grado, ossia che:

– l’avviso di accertamento notificato alla parte è copia cartacea con contrassegno elettronico dell’originale conservato presso l’Ufficio emittente e regolarmente firmato in modalità digitale ai sensi del D. Lgs. 85/2005, per cui esso soddisfa i requisiti di attestazione di conformità necessari per la validità della notifica del provvedimento amministrativo;

– che il soggetto che ha sottoscritto digitalmente l’atto in qualità di delegato dal Direttore Provinciale è funzionario della terza area e quindi impiegato della carriera direttiva (non essendo necessario che il soggetto delegato rivesta qualifica dirigenziale), senza che possa sussistere alcun dubbio sulla provenienza dell’atto e sulla riferibilità dello stesso all’organo della Amministrazione finanziaria titolare del potere nel cui esercizio è stato adottato;

– che non è rinvenibile alcuna ragione di illegittimità nella formazione dell’atto, emesso in data 7 ottobre 2020, ossia entro la scadenza del 31 dicembre 2020 e notificato in data 25 maggio 2021, successivamente all’adozione in data 6 aprile 2021 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate che ha dettato le modalità attuative di cui all’art. 157, sesto comma, d.l. 34/2020;

– che, con riguardo all’assenza di contraddittorio preventivo, I giudici di prime cure condividendo l’impostazione dell’Ufficio hanno statuito l’infondatezza dell’eccezione proposta da controparte, non sussistendo per l’avviso di accertamento “a tavolino” alcun obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo normativamente previsto, tenuto conto che l’avviso notificato alla parte è un accertamento parziale emesso ai sensi dell’art. 41-bis DPR 600/1973, per cui anche in applicazione del nuovo art. 5-ter D. Lgs. 218/1997 (in vigore dal 01/07/2020) non è necessario un invito a contraddittorio preventivo.

In conclusione, l’appellante chiede di riformare la sentenza di primo grado, con conferma dell’atto impositivo e con condanna dell’appellata alla refusione delle spese dei due gradi di giudizio.

La contribuente si costituiva in giudizio con articolata memoria di controdeduzioni e successiva memoria difensiva.

L’appellata richiama i principi espressi dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 6169/2023 secondo cui:

– l’esenzione IRPEF ai dipendenti dei consolati, prevista dall’art. 49 della Convezione di Vienna sulle Relazioni Consolari del 24.4.1963, ha natura oggettiva, e quindi è collegata solo allo svolgimento di lavoro dipendente presso una missione diplomatica, risultando irrilevante la residenza fiscale del lavoratore (in deroga al principio generale previsto dall’art. 2 del TUIR) o la nazionalità;

– nessuna menzione viene fatta alla Convenzione contro le doppie imposizioni a dimostrazione che trattasi di norma disciplinante tutti i casi residuali rispetto ai rapporti di lavoro consolari, regolati esclusivamente dalla Convenzione di Vienna.

Tanto premesso, in replica ai motivi di appello, si osserva nel merito che:

– la residenza in Italia della sig.ra non può farsi risalire al 1996 data di attribuzione del codice fiscale alla contribuente che non può generare in automatico l’attribuzione della residenza e nemmeno all’11 luglio 2007 data di acquisizione del domicilio fiscale, ma non della residenza in Italia;

– per le annualità antecedenti l’inizio del rapporto di lavoro con il Consolato argentino a Milano, la Sig.ra era residente in Argentina dove viveva stabilmente con i figli, all’epoca minori, che frequentavano le scuole del Paese, la stessa prestava servizio dapprima come insegnante e dal 2003 come dipendente presso il Consolato Generale d’Italia a Buenos Aires, incarico ricoperto fino all’arrivo in Italia;

– l’Argentina è stata centro degli interessi vitali della signora, come comprovato dal documento attestante i transiti in entrata e in uscita dal Paese dal 1992 al 2006, dalle buste paga del periodo 1995 – 1997, dalle pagelle scolastiche dei figli e dalla carta di identità argentina che registra l’uscita definitiva dal Paese l’ 2010;

– l’atto di accertamento qui impugnato è relativo all’anno di imposta 2015, anno in cui la ricorrente aveva la cittadinanza argentina per nascita, avendo acquisito la cittadinanza italiana solo nel 2016, otto anni dopo l’arrivo in Italia e l’inizio del rapporto di lavoro con il Consolato argentino;

– la Convenzione di Vienna del 1963 che disciplina espressamente le relazioni consolari non pone alcun limite e restrizione all’applicazione del regime di esenzione ai dipendenti delle Rappresentanze estere sulla base della cittadinanza o della residenza, come affermato anche dalla CGT II grado per la Lombardia nella sentenza 2586/2022;

– eccezioni e restrizioni (i.e. cittadinanza, residenza, etc.) previste nelle norme nazionali devono considerarsi in contrasto con il principio della completa esenzione fiscale stabilito dall’art. 49 della Convenzione e, pertanto, inapplicabili al caso di specie per la specialità e supremazia che deve essere riconosciuta alla fonte di rango internazionale, anche alla stregua della Convenzione Internazionale sull’Interpretazione dei Trattati del 23.5.1969, il cui art. 27 non consente di invocare le disposizioni della legislazione interna per giustificare la mancata esecuzione di un trattato internazionale;

– l’Ufficio ha dunque prevaricato i confini posti ex lege al perimetro della propria attività, ingerendosi in un rapporto esclusivo tra il Consolato dell’Argentina ed un proprio dipendente avente cittadinanza argentina, sicché solo lo Stato argentino è legittimato ad esercitare il potere impositivo sui redditi erogati ai propri dipendenti;

– in contrario non rileva la Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa tra Italia e Argentina, il cui art. 19 denominato “Funzioni pubbliche” trova applicazione nei casi residuali rispetto alle “funzioni consolari” che sono, invece, specificamente disciplinate dalla Convenzione di Vienna, come ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 14476 del 15 luglio 2016 (sic), fermo restando che il c.d. Modello di Convenzione OCSE rappresenta una mera raccomandazione priva di valore vincolante e di norme direttamente applicabili nell’ordinamento interno;

– la giurisprudenza di legittimità e di merito è concorde, con rare eccezioni, nel riconoscere l’esenzione dei redditi erogati dai Consolati ai propri dipendenti e la esistenza del solo potere impositivo di uno Stato contraente, indipendentemente dall’effettivo pagamento dell’imposta in tale Paese.

Con riguardo, infine, alle eccezioni preliminari, l’appellata rinvia a quanto esposto nel ricorso introduttivo, ribadendo che l’avviso di accertamento, sprovvisto di attestazione di conformità e firma digitale, non può garantire le garanzie di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità del documento originale; che dalla delega prodotta dall’Ufficio emerge l’assenza sia dei requisiti e dei presupposti per l’emissione della stessa, che dei requisiti dei delegati nonché del metodo seguito per la scelta degli stessi.

Con successiva memoria difensiva l’appellata richiama a sostegno dell’invocata esenzione, oltre alle plurime sentenze di merito conformi, la sentenza n. 1663/2023, pubblicata il 19.1.2023, con cui la Cassazione ha ribadito la non imponibilità dei redditi consolari, tanto da indurre la stessa Direzione provinciale II di Milano ad annullare in autotutela “per insussistenza del presupposto impositivo” gli avvisi di accertamento emessi nei confronti di due dipendenti. L’appellata illustra e ribadisce di aver assunto il domicilio fiscale in Italia in vista dell’imminente avvio del rapporto di lavoro con il Consolato argentino a (da luglio 2008 a tempo determinato, poi trasformato a tempo indeterminato il 9 dicembre 2008) nel pieno rispetto della condizione richiesta al n. 2 dell’art. 19 della Convenzione contro le doppie imposizioni per la non imponibilità della remunerazione in Italia (ossia aver acquisito la residenza fiscale in Italia solo in funzione della prestazione lavorativa svolta presso lo Stato estero).

L’appellata conclude per la conferma della decisione e il rigetto dell’appello dell’Ufficio. All’udienza, dopo la discussione delle parti, l’appello è stato trattenuto in decisione dal Collegio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3) L’appello dell’Ufficio è infondato.

3.1) La contribuente è cittadina argentina in servizio in qualità di impiegata nei servizi amministrativi (livello B3) presso il Consolato generale per l’Argentina; la stessa è quindi un “impiegato consolare”, secondo la definizione risultante dall’art. 1 lett. e) della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963, ratificata in Italia con la legge 9 agosto 1967, n. 804. Per tale attività percepisce una remunerazione erogata dallo Stato argentino.

L’art. 49 della Convenzione suindicata stabilisce che: “I funzionari consolari, gli impiegati consolari e i membri della loro famiglia viventi nella loro comunione domestica sono esenti da ogni imposta e tassa, personali o reali, nazionali regionali e comunali”, salve alcune precisate eccezioni non rilevanti nella controversia in esame.

La giurisprudenza di questa Corte riconosce alla norma convenzionale carattere di norma speciale che deroga alla disciplina nazionale in tema di tassazione delle persone fisiche e considera l’articolo 49 applicabile anche ai cittadini stranieri aventi la doppia cittadinanza, in quanto la norma dispone una generale esenzione da ogni imposta e tassa per il personale impiegato presso le rappresentanze diplomatiche e non prevede la perdita del diritto all’esenzione nel caso di acquisizione di ulteriore cittadinanza, non potendo il contemporaneo possesso della ulteriore cittadinanza italiana costituire causa idonea ad escludere l’applicazione dell’art. 49 cit. (cfr. sez. 1, n. 684/2024).

L’art. 4, secondo comma, del d.P.R. 601 del 1973 stabilisce tuttavia che l’esenzione dalle imposte sui redditi si applica “agli impiegati delle rappresentanze diplomatiche e consolari degli Stati esteri, che non siano cittadini italiani né italiani non appartenenti alla Repubblica”.

La norma nazionale, nella parte in cui stabilisce che il diritto all’esenzione non spetta agli impiegati consolari aventi cittadinanza italiana, non riveste portata ostativa nella fattispecie in esame, atteso che la contribuente ha conseguito (anche) la cittadinanza italiana nel 2016, ossia in epoca successiva all’anno d’imposta oggetto dell’accertamento impugnato. Nel caso in esame non sussiste quindi un conflitto normativo da risolvere in base ai principi di gerarchia o di specialità delle fonti, atteso che entrambe le norme succitate dispongono in senso favorevole alla non imponibilità dei redditi percepiti dalla contribuente.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi in materia di mancata presentazione della dichiarazione per i redditi percepiti da dipendente di una rappresentanza diplomatica estera, non avente cittadinanza italiana, ha affermato che, in deroga al principio generale per il quale il soggetto non residente è obbligato a pagare le imposte allo Stato nel quale egli svolge l’attività produttiva del reddito, spetta l’esenzione fiscale al funzionario consolare, cittadino estero, anche se “egli e la sua famiglia siano residenti fiscalmente in Italia, con la precisazione che l’esenzione da tassazione riguarda esclusivamente i redditi percepiti nello svolgimento dell’incarico di rappresentanza diplomatica” (Cass. 19/01/2023 n. 1663).

Quanto sopra esposto, che configura la cittadinanza estera della contribuente ragione da sola necessaria e sufficiente per l’operatività dell’esenzione dalle imposte sui redditi, senza che possa assumere rilevanza ostativa l’eventuale concorrente condizione della residenza fiscale in Italia, basterebbe a palesare l’infondatezza dell’appello.

3.2) La Corte, tuttavia, ritiene di dover disattendere anche l’ulteriore argomento esposto dall’appellante, non intendendo sottrarsi dallo scrutinio della disposizione contenuta all’art. 1, ultimo comma, della Convenzione succitata, laddove si prevede che “Lo stato particolare dei membri dei posti consolari, che sono cittadini o residenti permanenti dello Stato di residenza è disciplinato nell’articolo 71 della presente Convenzione”.

Quest’ultima norma, al secondo comma, stabilisce che “Gli altri membri del posto consolare (id est: gli impiegati consolari e i membri del personale di servizio) che sono cittadini o residenti permanenti dello Stato di residenza, i membri della loro famiglia e i membri della famiglia dei funzionari consolari di cui al paragrafo 1 del presente articolo, godono delle agevolezze, dei privilegi e delle immunità solamente in quanto siano loro accordati da questo Stato”.

La Corte ritiene che dette previsioni, riferite specificamente ai dipendenti consolari che sono cittadini o residenti permanenti in Italia, integrino l’art. 49 della Convenzione medesima, nella parte in cui reca la disciplina generale del regime fiscale degli impiegati consolari, condizionandone l’applicazione alla insussistenza dei due precisati presupposti impositivi.

In forza di dette previsioni, gli impiegati consolari possono godere dell’esenzione dalle imposte sui redditi, a condizione che essi non siano cittadini italiani, né “residenti permanenti” in Italia e sempre che il beneficio sia accordato dallo Stato di residenza.

Ciò esclude che nella specie possa configurarsi un conflitto tra la fonte di rango internazionale e la normativa nazionale, atteso che la rilevanza e l’efficacia di quest’ultima sono espressamente riconosciute e fatte salve dalla Convenzione di Vienna.

Come sopra precisato, la contribuente nel 2015 non era ancora cittadina italiana; il difetto di detto presupposto impone di verificare l’eventuale presenza dell’altro, ossia di accertare se la stessa abbia assunto la condizione di residente permanente in Italia e da quale epoca.

Difatti, a norma dell’art. 19 della Convenzione tra Italia e Argentina contro le doppie imposizioni, la cui ratifica le ha conferito valore di normativa interna, lo Stato italiano riconosce l’ “agevolezza” di considerare non imponibili in Italia le remunerazioni erogate dal Consolato argentino a chi abbia acquisito la “residenza permanente” in Italia solo in funzione della prestazione lavorativa svolta presso lo Stato estero.

In tale prospettiva occorre innanzitutto precisare il significato e il valore dell’espressione “residente permanente”, al fine di stabilire se, e da quando, la contribuente possa ascriversi alla pertinente categoria ed essere quindi soggetta alle disposizioni contenute nella legislazione nazionale o poter eventualmente beneficiare dell’agevolezza di cui al citato art. 19.

3.3) In prima approssimazione può affermarsi che la residenza permanente è il luogo in cui un individuo risiede effettivamente per la maggior parte di tempo e che costituisce il centro prevalente dei suoi interessi. Occorre, in altri termini, che tra il soggetto e il luogo intercorrano legami stabili e duraturi, denotati da rapporti familiari, di lavoro, economici o sociali che evidenzino la presenza di connessioni non provvisorie.

Si ricorda, al riguardo, che ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Testo Unico delle imposte sui redditi, approvato con DPR del 22 dicembre 1986, n. 917, si considerano fiscalmente residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta, cioè per almeno 183 giorni (o 184 giorni in caso di anno bisestile), sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.

Questa Corte, tuttavia, ritiene che il senso dell’espressione “residente permanente” debba essere principalmente ricercato all’interno delle previsioni normative convenzionali, posto che sono queste ultime ad avervi fatto riferimento e richiamo. Ciò specie quando, come poi si dirà nel caso in esame, gli elementi di fattispecie presentino aspetti discordanti.

Al riguardo, soccorre quindi la previsione contenuta all’art. 4, paragrafo 2 lett. a) della Convenzione 27 aprile 1982 n. 282, tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Argentina per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito, a tenore del quale “una persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale ha un’abitazione permanente”.

3.4) Al fine, quindi, di stabilire se la contribuente abbia o meno titolo all’esenzione di cui trattasi occorre procedere all’accertamento dei presupposti che consentano di ritenere integrata la condizione di residente permanente della stessa.

Tale verifica costituisce una questione di fatto alla cui soluzione deve necessariamente pervenirsi alla stregua degli elementi probatori offerti in giudizio.

Orbene, la contribuente dimostra di aver percepito redditi per attività di lavoro svolta in Argentina negli anni dal 1995 al 1997, deposita altresì attestato di superamento del concorso indetto nel 2003 dall’Ambasciata italiana in Buenos Aires e documentazione che comprova la frequenza dei propri figli, con essa conviventi, presso istituti scolastici argentini dal 1993 fino al 2004.

In atti è presente il registro e delle partenze e degli arrivi in Argentina, dal quale si evidenzia che la contribuente, negli anni dal 2001 al 2004, ha trascorso fuori dall’Argentina solo i periodi delle vacanze natalizie, che ha fatto ingresso in Argentina il 21 febbraio 2005 per poi uscirne il 4 marzo 2006 e farvi nuovamente rientro l’8 maggio 2006.

E’ depositato in atti anche il Documento Nacional de Identitad rilasciato dalla Republica Argentina dal quale si evince che la contribuente ha espresso il proprio voto in occasione delle elezioni nazionali argentine dal 1997 al 2005 e ha trasferito definitivamente il proprio domicilio in Italia nel 2010.

Le allegazioni della parte, di cui sopra si è dato conto, comprovano con sufficiente attendibilità che la contribuente ha soggiornato abitualmente in Argentina quantomeno fino al 2006 e smentiscono la tesi dell’Ufficio secondo cui la contribuente avrebbe assunto la stabile residenza in Italia fin dal 1996, data di attribuzione del Codice Fiscale da parte dell’Ufficio Imposte Dirette di Bolzano.

Ai fini in discorso, non può invece attribuirsi valore probatorio alla data dell’ 2010 di uscita definitiva dall’Argentina, trattandosi di dato smentito dalle stesse allegazioni difensive dell’appellata dalle quali emerge che la stessa ha assunto servizio presso la sede diplomatica argentina in Italia da del 2008 con contratto a tempo determinato, poi trasformato in rapporto a tempo indeterminato nel dello stesso anno.

Devono condividersi, a tale riguardo, le osservazioni dell’Ufficio che colloca in Italia il “centro degli interessi vitali” della contribuente da data antecedente al 2010 in ragione dello svolgimento della prestazione lavorativa in Milano, dell’acquisto di un immobile destinato a prima casa in nel corso del 2008 e dell’ingresso nel 2009 come socia al 50% nella società Sas e (——).

L’Agenzia delle Entrate ha depositato anche un documento dal quale risulta che alla contribuente è stato assegnato il domicilio fiscale in dall’ luglio 2007, ma come affermato dalla Suprema Corte nella decisione sopra richiamata, la residenza fiscale non osta ex se al riconoscimento dell’esenzione e, osserva questa Corte, non vale a comprovare la stabile residenza in Italia da tale data, tenuto conto che, anche a voler prendere in considerazione la data stessa, non sarebbe comunque raggiunto il numero di 183 giorni di residenza in Italia nel 2007.

Dagli atti non emergono elementi che consentano di stabilire con certezza quale sia stata la “residenza permanente” della contribuente nel periodo che intercorre dall’ 2006, ultima data nota di rientro in Argentina e la data del luglio 2007 indicata dall’Ufficio.

In tale contesto deve darsi applicazione alla regola dettata all’art. 4 lett. c) della citata Convenzione 282, secondo cui “se una persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati contraenti, ovvero non soggiorna abitualmente in alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità”.

Ciò sta a significare che l’appellata deve considerarsi residente in Argentina fino alla data di acquisto in Italia della “prima casa”, che identifica una significativa e durevole connessione della contribuente con il nostro Paese. Del resto, secondo la norma convenzionale sopra richiamata, il possesso di un’abitazione stabile e permanente, come di regola è la “prima casa”, costituisce propriamente l’indice per considerare una persona residente permanente dello Stato contraente.

Quanto precede evidenzia, a parere della Corte, che la contribuente ha acquisito la “residenza permanente” in Italia nel 2008, ossia in prossimità dell’assunzione presso la sede diplomatica argentina e solo in funzione della prestazione lavorativa presso lo Stato estero per l’esercizio delle funzioni consolari.

In tale contesto ne deriva che, esclusa la rilevanza ex se ostativa dell’attribuzione della residenza fiscale, deve trovare applicazione l’esenzione dal prelievo fiscale, in deroga al principio generale per il quale le imposte vanno versate allo Stato nel quale si svolge l’attività produttiva del reddito.

Si richiama al riguardo la succitata disposizione dettata nell’art. 19 della Convenzione contro le doppie imposizioni, che esenta da imposizione in Italia le remunerazioni erogate dal Consolato argentino a chi, come l’appellata, ha acquisito la “residenza permanente” in Italia in funzione della prestazione lavorativa svolta presso lo Stato estero.

In tal caso il potere impositivo è rimesso soltanto allo Stato che eroga i compensi e l’astratta soggezione del reddito alla tassazione estera è sufficiente a rendere operativo il diritto all’esenzione dall’imposta interna sui redditi, costituendo circostanza assolutamente irrilevante che il prelievo fiscale sia stato, o meno, effettivamente subito nel Paese estero (giurisprudenza consolidata, cfr., ex pluriribus, Cass. 29 gennaio 2001 n. 1231; 21 febbraio 2001 n. 2532; 25 settembre 2023 n. 27278).

Ne deriva l’infondatezza dell’appello anche per il profilo esaminato.

4) Per tutte le considerazioni esposte, l’appello dell’Ufficio deve essere respinto.

La questione trattata è da sola idonea a dirimere la presente controversia, ne segue che esigenze di economia processuale consentono di assorbire le questioni non espressamente trattate.

Le spese possono compensarsi, tenuto conto della relativa complessità del tema trattato e del perdurare di orientamenti difformi.

P.Q.M.

La Corte di Giustizia tributaria di secondo grado per la Lombardia, sez. 2, definitivamente pronunciando Respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la decisione di primo grado.

Compensa tra le parti le spese di giudizio