Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Puglia, sezione n. 23, sentenza n. 875 depositata il 5 marzo 2024
La consulenza tecnica d’ufficio (CTU) non può costituire il presupposto per formulare nuove domande, introdurre nuove eccezioni o prospettare motivi aggiunti ex art. 24, D. Lgs. 546/1992
La consulenza tecnica d’ufficio deve riguardare elementi già allegati dalla parte.
Massima:
La consulenza tecnica d’ufficio è «un mezzo ausiliario ed integrativo di conoscenza e valutazione del giudice di merito» al quale spetta «stabilire se – con riguardo alla emersione in corso di causa di particolari profili extra giuridici di natura tecnica o scientifica – essa sia necessaria ovvero opportuna al fine del decidere», fermo restando l’onere probatorio delle parti ( Cass. Sent. 9.10.2019, n. 25261 ). In questo senso, la CTU è sottratta alla disponibilità delle parti e ancorata alle allegazioni e produzioni da esse effettuate, sicché «non può costituire il presupposto per formulare nuove domande, introdurre nuove eccezioni o prospettare motivi aggiunti ex art. 24 D. Lgs. 546/1992 » ( Cass. Sent. 6.5.2021, n. 11969 ).
Nel contenzioso tributario la possibile acquisizione d’ufficio di mezzi di prova è norma eccezionale, la quale preclude al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo.
È vero che è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio e a similari indagini ufficiose una funzione “percipiente”, ma è necessario che verta su elementi almeno già allegati dalla parte e che soltanto un tecnico sia in grado di accertare in concreto, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone (Sez. 2, Sentenza n. 1190 del 22/01/2015, Rv. 633974 ).» ( Cass. sentenza 13.1.2016, n. 404 ).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La contribuente signora XXXXXXX XXX – appellante -, così come costituita in atti, depositava telematicamente in data 30 gennaio 2023 presso questa Corte – Sede staccata di Lecce – l’atto di appello con istanza di sospensione ex articolo 52 d. lgs. n. 546/1992 avverso la sentenza n. 317/02/2022 della Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi, pronunciata il 21 aprile 2022 e depositata il 28 settembre 2022, con la quale, previo suo ricorso introduttivo della controversia proposto contro l’Avviso di Accertamento n. TVHXXXXXXXXX/2020 con cui, ai sensi dell’ articolo 47 del D.P.R. n. 917/1986 ( Tuir) e dell’articolo 41-bis del D.P.R. n. 600/1973, l’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di XXXXXXXX – appellata – accertava a suo carico per l’anno d’imposta 2015 il maggior reddito di capitale derivante dalla partecipazione in qualità di socia della società “”XXXXXXX S.R.L. nella misura del 55%, imputando un importo imponibile pari ad € 35.460,10 (ovvero il 49,72% del 55% di € 71.319,60,00 quale maggior reddito complessivo accertato in capo alla società partecipata) di utili percepiti, rideterminando la maggiore IRPEF dovuta con le relative addizionali, oltre interessi e sanzioni, così veniva deciso:
“La Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi – Sezione II – rigetta il ricorso.
Spese compensate.”
L’appellante si opponeva alla sentenza gravata per i motivi specifici di impugnazione indicati nell’atto di appello ed a cui si fa espresso riferimento.
A conclusione dell’illustrazione di tutte le doglianze poste a corredo dell’impugnazione, l’appellante rivolgeva a questa Corte la richiesta di accoglimento dell’appello, di riforma della sentenza impugnata, di annullamento dell’atto opposto con il ricorso introduttivo della controversia e di condanna della controparte alle spese di lite del doppio grado di giudizio.
L’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di XXXXXXXX – appellata -, così come costituita in atti, depositava presso questa Corte in data 17 marzo 2023 l’atto delle controdeduzioni, contrastando in ogni parte tutto quanto dedotto dall’appellante, concludendo per il rigetto dell’appello, per la conferma dell’impugnata sentenza e per la condanna di controparte alle spese di lite del doppio grado di giudizio.
La Corte all’udienza del 24 luglio 2023, considerata la rinuncia all’istanza cautelare e la presentazione della domanda di adesione per la definizione agevolata ex legge n. 197/2022 della presente lite, con ordinanza n. 1171/2023, depositata il 25 luglio 2023, dichiarava nulla a provvedere e sospendeva il giudizio fino al 10 ottobre 2023, fissando la trattazione del merito all’udienza del 23 ottobre 2023.
All’udienza del 23 ottobre 2023 la Corte, preso atto della richiesta di un breve rinvio, pendendo trattative per un accordo conciliativo, rinviava con ordinanza n. 1597/2023, depositata il 25 ottobre 2023, la trattazione della controversia all’udienza dell’11 dicembre 2023.
All’udienza pubblica odierna – 11 dicembre 2023 – il Collegio, terminata la discussione, successivamente, in camera di consiglio, come da separato verbale, decide definitivamente la controversia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello è infondato ed è rigettato.
La sentenza impugnata, emessa col n. 317/02/2022 dalla Commissione Tributaria Provinciale di Brindisi, è confermata.
La Corte, dopo attento e scrupoloso esame dei fatti e degli atti che corredano il fascicolo della controversia, procede allo scrutinio dei motivi specifici di impugnazione posti a corredo dell’atto di appello.
Con il primo motivo la contribuente critica la sentenza impugnata, in quanto, a suo dire, il Collegio adito ha omesso di rilevare il mancato deposito in giudizio, da parte dell’Ufficio, della prova relativa alla notifica dell’avviso di accertamento diretto alla società XXXXXXX S.R.L…
L’eccezione di parte appellante risulta chiaramente inammissibile perché nel precedente grado di giudizio nessuna contestazione è stata sollevata in relazione alla ritualità della notifica dell’avviso di accertamento presupposto, con specifico riferimento alla documentazione comprovante la regolarità del procedimento notificatorio. L’unica eccezione sull’argomento atteneva alla presunta violazione della sospensione della notifica degli atti impositivi disposta a seguito dell’emergenza COVID dal D.L. 34/2020, censura che, peraltro, presuppone che la notifica dell’atto sia stata effettuata, ma in periodo in cui, nell’ottica di parte, era inibita dalla legge.
Come noto la natura dispositiva del processo tributario comporta che la materia del contendere è delineata dalle parti e non può essere ampliata dal giudice. Pertanto, se il giudice di prime cure si fosse espresso su una questione non sollevata dalle parti, sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione di cui all’ art. 112 c.p.c..
Sotto tale profilo l’ art. 7 del D.lgs. 546 del 1992 (“Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà…”) costituisce un corollario del generale principio espresso dall’ art. 112 c.p.c., secondo cui “il giudice deve pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Il carattere dispositivo delle norme, che disciplinano il processo tributario, porta a sostenere che ogni fatto debba essere oggetto di contestazione, in virtù del disposto dell’ art. 115 del c.p.c., il quale dispone che “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.”
La novella dell’ articolo 115 c.p.c., introdotta dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, ha recepito l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati “pacifici” se la controparte li abbia esplicitamente ammessi ovvero abbia assunto una posizione difensiva incompatibile con la loro negazione, ammettendone così implicitamente l’esistenza.
Nel caso di specie risulta evidente che la controparte, in primo grado, non ha mai specificamente contestato la regolarità della notifica dell’avviso di accertamento presupposto, né sollevato alcuna censura in merito al mancato deposito della documentazione attestante la predetta notifica. Ne consegue che il fatto, costituito dall’intervenuta notifica dell’avviso di accertamento diretto alla società, deve considerarsi pacifico, non potendo peraltro più formare oggetto di impugnazione.
La doglianza dell’appellante sul punto è, pertanto, inammissibile posto che non può essere eccepita l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su una contestazione mai introdotta in giudizio dalla parte stessa. Invero, si deve sottolineare che la questione in esame non può essere sollevata per la prima volta nel secondo grado di giudizio, stante il divieto di domande nuove in seconda istanza previsto dell’ art. 57 del D.lgs. 546 del 1992, il quale espressamente dispone nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio.
La Corte, a tutto concedere, evidenzia la regolarità della notifica dell’avviso di accertamento eseguita nei confronti della società, così come documentato in atti dall’Ufficio con il deposito della documentazione afferente il predetto procedimento notificatorio.
Con il secondo motivo di appello la parte eccepisce il vizio di motivazione della sentenza impugnata per omessa valutazione dell’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento notificato alla società in violazione dell’ art. 157, comma 6 del D.L. 34/2020. In particolare, dopo aver illustrato le disposizioni contenute nel decreto indicato, l’appellante si duole della circostanza che l’avviso di accertamento presupposto diretto alla società sia stato notificato con modalità ?indifferibile ed urgente per motivi di rilevanza penale’, in quanto, alla data della notifica, il processo penale a carico dell’amministratore della società era già pendente innanzi al Tribunale penale di Brindisi.
In buona sostanza, sul punto, la controparte reitera le medesime argomentazioni sollevate nel ricorso introduttivo del giudizio, sebbene la sentenza di primo grado le abbia esplicitamente rigettate.
Pertanto si deve ribadire, in via preliminare, che l’esposta eccezione si rivela inammissibile, poiché relativa ad un accertamento divenuto definitivo per mancata impugnazione. La medesima eccezione risulta, altresì, inammissibile in quanto formulata da soggetto privo di legittimazione attiva, trattandosi di contestazione rilevabile solo dalla società, rimasta però inerte. In ogni caso, deve evidenziarsi che la doglianza è del tutto infondata posto che la notifica dell’avviso di accertamento societario è stata effettuata nel pieno rispetto della normativa applicabile alla fattispecie.
Invero, con il Decreto Legge n. 34 del 2020 rubricato “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, detto anche ?Decreto Rilancio’, il legislatore, per evitare la concentrazione di notifiche di atti impositivi (avvisi di accertamento, avvisi di rettifica, atti di irrogazione sanzioni) al termine del periodo di emergenza da Covid-19, ha previsto, all’articolo 157, il rinvio al 2021 della notifica degli atti con scadenza del termine di decadenza tra l’8 marzo al 31 dicembre 2020. La disposizione in commento prevede, tuttavia, delle eccezioni per i “casi di indifferibilità e urgenza”.
Con la Circolare n. 25/E del 20 agosto 2020 l’Agenzia delle Entrate rispondendo ad alcuni quesiti, ha chiarito quando sono riscontrabili le caratteristiche dell’indifferibilità e dell’urgenza. Interpretando l’articolo 157, comma 2 bis ha così risposto: ” In particolare, in base a quanto stabilito dal comma 2-bis è consentito procedere comunque all’invio, alla notifica e alla messa a disposizione degli atti, comunicazioni e inviti indicati al comma 2 nei «casi di indifferibilità e urgenza»; la disposizione fa salvi anche quelli la cui emissione è funzionale al perfezionamento di adempimenti fiscali che richiedono il contestuale versamento del contribuente per la revoca della dichiarazione di intenti espressa in atto ai fini dell’agevolazione prima casa, ovvero a seguito del controllo sulla regolarità dell’autoliquidazione e del versamento delle imposte da parte dei notai.
A titolo esemplificativo, l’invio delle comunicazioni e la notifica di atti durante il periodo di sospensione può considerarsi legittima anche nei seguenti casi: ? comunicazioni o atti che prevedono una comunicazione di notizia di reato ai sensi dell’ articolo 331 del codice di procedura penale; ? comunicazioni o atti destinati a soggetti sottoposti a procedure concorsuali, per la tempestiva insinuazione nel passivo; ? pericolo per la riscossione” Ancora prima, con la Circolare n. 11/E del 5 maggio 2020, era stato precisato che: “Come già specificato dalla circolare 23 marzo 2020, n. 6/E, non è sospesa, né esclusa l’attività degli Uffici, in quanto l’articolo 67 del Decreto disciplina la sospensione dei termini relativi alle attività di controllo e di accertamento nel periodo corrente dall’8 marzo al 31 maggio 2020. Tuttavia, agli uffici sono state fornite indicazioni volte ad evitare lo svolgimento delle attività per non sollecitare spostamenti fisici. L’eventuale indifferibilità o urgenza dell’attività di accertamento non può che essere oggetto di una valutazione da farsi da parte dell’Ufficio caso per caso, in ragione delle specificità della stessa.
Ciò premesso, con riferimento agli atti connessi a procedimenti penali, ai sensi dell’ articolo 331 del codice di procedura penale, la denuncia deve essere effettuata «senza ritardo». La circolare 4 agosto 2000, n. 154, precisa che «l’obbligo della trasmissione della notizia di reato sorge nel momento della constatazione del fatto costituente reato ovvero con riferimento alle fattispecie delittuose di cui agli articoli 2, 3 e 4 (del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74) il momento della constatazione del fatto deve intendersi al termine delle operazioni di verifica riguardanti l’anno di imposta interessato. Tendenzialmente, il momento della constatazione del fatto costituente reato coincide con la formalizzazione dell’atto impositivo che accerti il superamento delle soglie di punibilità o la specifica violazione.
In considerazione di quanto sopra, si ritiene che le attività accertative in argomento risultino presentare le caratteristiche di «indifferibilità o urgenza»”. Alla luce dei chiarimenti offerti dai documenti di prassi citati, si comprende la legittimità dell’operato dell’Ufficio nel procedimento di notifica dell’avviso di accertamento diretto alla società e l’infondatezza dell’eccezione di parte avversa.
Con il terzo motivo di appello si contesta la mancata valutazione da parte dei giudici di prime cure delle integrazioni documentali depositate nel precedente grado di giudizio. In particolare, si fa riferimento alle dichiarazioni integrative UNICO, IVA e IRAP presentate in data 12.10.2021 dal consulente fiscale che ha gestito la contabilità della XXXXXXX S.R.L., da cui è emerso un reddito imponibile di € 30.169,0, con IVA dovuta pari ad € 6.022,11, IRES dovuta di € 8.329,18 ed IRAP di € 1.802,18.
In primo luogo si fa osservare che anche il motivo di appello in esame si appalesa inammissibile in quanto diretto alla rideterminazione degli addebiti risultanti da un avviso di accertamento divenuto definitivo per mancata impugnazione.
Inoltre, in ogni caso, la contestazione risulta in totale contrasto con il disposto dell’ art. 2 del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, il quale, al comma 8, prevede che le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d’imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, non oltre i termini stabiliti dall’ articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.
La possibilità di presentare dichiarazioni integrative è, quindi subordinata alla condizione della tempestiva presentazione della dichiarazione da correggere. Non avendo, la società, assolto ai propri obblighi dichiarativi relativamente all’anno d’imposta 2015, contrariamente a quanto sostenuto da controparte, le dichiarazioni del 12/10/2021 non possono essere considerate integrative, trattandosi, delle prime dichiarazioni presentate per la predetta annualità. Le stesse devono, altresì, ritenersi omesse perché inviate con ritardo superiore a novanta giorni dalla scadenza del termine di legge, secondo quanto disposto dal comma 7 dell’art. 2 del D. P.R. 322 del 1998. Peraltro, sulla materia, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio: “in tema di imposte sui redditi, costituisce causa ostativa alla presentazione della dichiarazione integrativa, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, articolo 2, comma 8, la notifica della contestazione di una violazione commessa nella redazione di precedente dichiarazione, in quanto se fosse possibile porre rimedio alle irregolarità anche dopo la contestazione delle stesse la correzione si risolverebbe in un inammissibile strumento di elusione delle sanzioni previste dal legislatore (Sez. 5, n. 15015 del 16/06/2017; Sez. 6-5, n. 15798 del 27/07/2015)”( Cassazione Ord. 24 novembre 2017, n. 28172).
La contestazione di parte appellante si appalesa, quindi, in contrasto con le disposizioni di legge sopra richiamate oltre che contraria ai principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione.
Con il quarto motivo di ricorso, la controparte lamenta il mancato accoglimento da parte del giudice di primo grado della richiesta di consulenza tecnica d’ufficio per la verifica della correttezza degli addebiti contestati alla società XXXXXXX srl e, conseguentemente, alla sig.ra XXXXXXX, in qualità di socia della stessa.
Al riguardo, non si può che rilevare l’inammissibilità della doglianza di controparte in quanto volta a mettere in discussione, ancora una volta, una pretesa tributaria che si è consolidata per effetto della mancata impugnazione dell’avviso di accertamento con cui la stessa è stata determinata.
Deve, peraltro, aggiungersi che la richiesta di consulenza tecnica è, evidentemente, del tutto contraria alle norme che la disciplinano nell’ambito del processo tributario. L’ art. 7 del D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, al secondo comma, dispone che “Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica. I compensi spettanti ai consulenti tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla legge 8 luglio 1980, n. 319 e successive modificazioni e integrazioni.” La consulenza tecnica d’ufficio è «un mezzo ausiliario ed integrativo di conoscenza e valutazione del giudice di merito» al quale spetta «stabilire se – con riguardo alla emersione in corso di causa di particolari profili extra giuridici di natura tecnica o scientifica – essa sia necessaria ovvero opportuna al fine del decidere», fermo restando l’onere probatorio delle parti (cfr. Cass. Sent. 9.10.2019, n. 25261). In questo senso, la CTU è sottratta alla disponibilità delle parti e ancorata alle allegazioni e produzioni da esse effettuate, sicché «non può costituire il presupposto per formulare nuove domande, introdurre nuove eccezioni o prospettare motivi aggiunti ex art. 24, D.Lgs. 546/1992» (cfr. Cass. Sent. 6.5.2021, n. 11969).
Tale facoltà deve essere esercitata, quindi, nel rispetto delle disposizioni sul giusto processo ( art. 111 Cost.), che non consentono al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti (cfr. Cass., Sentenze 13.1.2016, n. 404; 20.6.2008, n. 16923; Cass., Ordinanze 3.3.2021, n. 5788; 24.1.2018, n. 1728 ; 15.9.2017, n. 21433 ): è stato osservato, infatti, quanto segue: «La consulenza tecnica e le altre indagini delegabili d’ufficio hanno la finalità di coadiuvare il giudice tributario nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze.
Ne consegue che i suddetti mezzi non possono essere utilizzati al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimo non farvi ricorso se si tenda con essi a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati
In sintesi nel contenzioso tributario la possibile acquisizione d’ufficio di mezzi di prova è norma eccezionale, la quale preclude al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo.
Facendo applicazione di tale principio, va negato che costituisca tanto error in procedendo, quanto vizio motivazionale, l’omesso ricorso a consulenze o indagini tecniche d’ufficio ai fini della determinazione estimativa, non essendo tale potere esercitabile in funzione di ricerca di dati che dovevano essere previamente allegati dalla parte interessata. (Sez. 5, Sentenza n. 18976 del 10/09/2007, Rv. 601261)
E’ vero che è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio e a similari indagini ufficiose una funzione ” percipiente”, ma è necessario essa verta su elementi almeno già allegati dalla parte e che soltanto un tecnico sia in grado di accertare in concreto, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone (Sez. 2, Sentenza n. 1190 del 22/01/2015, Rv. 633974).» ( Cass. sentenza 13.1.2016, n. 404).
Nel caso di specie, anche prescindendo dall’inammissibilità della richiesta di revisione di un atto impositivo definitivo, risulta evidente che non sussistevano le condizioni richieste dalla norma perché il giudice disponesse una consulenza tecnica d’ufficio, sia con riferimento alla necessità di acquisizione di elementi conoscitivi di particolare complessità sia in considerazione delle evidenti carenze probatorie di parte. Infatti, la contribuente non ha allegato alcun elemento minimamente idoneo a comportare una diversa quantificazione della pretesa, in quanto la mera allegazione di dichiarazioni fiscali presentate oltre il termine di 90 giorni dalla scadenza, quindi da ritenersi omesse, senza alcun ulteriore supporto documentale si rivela insufficiente ai fini probatori in questione.
La Corte avverte il dovere di precisare che l’avviso di accertamento societario è fondato su una verifica fiscale nell’ambito della quale i verificatori, nel pieno rispetto del principio della capacità contributiva espresso dall’ articolo 53 della Costituzione, hanno operato un attento esame dei documenti contabili acquisiti e riguardanti sia le vendite che gli acquisti della società, provvedendo poi alla riconciliazione con i dati esposti in bilancio. All’esito del controllo effettuato sono emersi ricavi non contabilizzati per € 129.172,00 risultanti dal raffronto tra il registro dei corrispettivi e le chiusure giornaliere del misuratore fiscale nonché costi privi dei requisiti di deducibilità previsti dalla legge.
In conclusione, rilevata la totale infondatezza di tutte le doglianze rappresentate dall’appellante, la Corte, definitivamente decidendo e nulla ostando, rigetta l’appello e conferma l’impugnata sentenza.
La condanna dell’appellante alle spese di lite di questo giudizio di appello deriva dalla sua soccombenza e vengono liquidate a favore dell’Ufficio vittorioso in complessivi € 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre accessori di legge, se dovuti.
P.Q.M.
La Corte rigetta l’appello e conferma l’impugnata sentenza.
Condanna l’appellante alle spese di lite di questo giudizio di appello, liquidate a favore dell’Ufficio in complessivi € 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre accessori di legge, se dovuti.