Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Sicilia, sezione n. 1, sentenza n. 1 depositata il 2 gennaio 2023
In tema di operazioni soggettivamente inesistenti, incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare non solo l’oggettiva inesistenza del fornitore, ma anche la consapevolezza da parte del destinatario in ordine al suo coinvolgimento in un’evasione d’imposta. Tale principio è stato chiarito da costante giurisprudenza di legittimità – efficacia non vincolante dell’esito del giudizio penale nel processo tributario
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ritualmente depositato, la società A. s.r.l. opponeva, innanzi la Commissione Tributaria Provinciale di Palermo l’avviso di accertamento in epigrafe indicato, con il quale l’Agenzia delle Entrate contestava, per l’anno d’imposta 2006, maggiori imposte dovute a titolo di IRES, IRAP e IVA, applicava le sanzioni e richiedeva gli interessi.
L’avviso di accertamento traeva origine da una verifica fiscale eseguita dalla stessa Agenzia delle Entrate, con la quale erano stati rilevati costi indeducibili in quanto derivanti da operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. In particolare, sulla base di un accertamento condotto a carico di una ditta fornitrice della società, si era concluso che la General Car di M. F. era un soggetto inesistente, sicchè il rapporto con i suoi clienti era qualificabile quale simulazione soggettiva e le fatture emesse anch’esse inesistenti. Si era, così, proceduto al recupero dei costi relativi all’acquisto di un autoveicolo da parte della A. s. r.l., documentato nella fattura emessa dalla General Car di M. F. per un totale di € 60.000,00.
A sostegno dell’opposizione, la società ricorrente deduceva: – illegittimità dell’avviso per mancanza di motivazione e generico richiamo alle procedure di accertamento previste dagli artt. 39, 40 e 41 bis del D.P.R. n. 600/1973; – mancanza di prove in merito alla natura fittizia della fattura passiva contestata.
Costituitasi, l’Agenzia delle Entrate affermava la legittimità dell’accertamento avente natura analitico-induttiva parziale, emesso sulla base delle risultanze di un processo verbale di constatazione. Evidenziava:
– di avere verificato la fittizietà delle operazioni commerciali svolte dalla ditta individuale Marrocco, responsabile di una frode IVA intracomunitaria (c.d. frode carosello), sicchè l’accertamento era basato su presunzioni gravi, precise e concordanti;
– che spetta al contribuente fornire la prova dell’esistenza dell’operazione, non bastando opporre la documentazione formale per avere diritto alla detrazione dell’IVA.
La Commissione Tributaria Provinciale, con sentenza n. 5033/11/17 depositata il 22 settembre 2017, accoglieva il ricorso, osservando che:
-l’Ufficio non aveva fornito una valida qualificazione giuridica dell’accertamento impugnato, avendo proceduto alla rettifica del reddito dichiarato “ai sensi degli artt. 39, 40 e 41/bis del DPR 600/73”, senza considerare che ciascuna delle norme citate disciplina una diversa tipologia di accertamento;
-mancavano indicazioni esplicite delle ragioni di fatto e di diritto poste a base della ricostruzione reddituale effettuata e nessuna prova era stata offerta circa la falsità commessa, peraltro, esclusa successivamente dal P.M. penale, che aveva chiesto l’archiviazione per l’ipotesi di reato contestata al legale rappresentante della società A.;
-l’Agenzia si era limitata a citare, quale fondamento dell’ipotesi delittuosa e dell’evasione commessa, le risultanze delle indagini svolte nei confronti di diverso operatore contrattuale (M. F. );
– nessuna irregolarità contabile era stata contestata alla società A. s.r.l., che aveva regolarmente contabilizzato la fattura e versato l’IVA;
-il costo di acquisto dell’autovettura, confrontato con il prezzo al quale dopo pochi giorni era stata rivenduta, appariva congruo e non indicativo di alcuna frode fiscale.
Avverso la predetta sentenza ha proposto appello l’Agenzia delle Entrate-Direzione Provinciale di Palermo, censurando la decisione dei primi giudici e chiedendone l’integrale riforma per:
-omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in violazione dell’art. 36 del D. Lgs. 546/92;
– violazione ed errata applicazione dell’art. 42 D.P.R. n. 600/73 (in tema di motivazione degli atti di accertamento) ed irrilevanza dell’indicazione della normativa applicata per operare il recupero di imposta;
-violazione ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c. (in tema di onere probatorio), 109 del TUIR (in tema di deducibilità di componenti negativi del reddito) e 21 del D.P.R. n. 633/72 (in ordine alla sussistenza dei requisiti per la detraibilità dell’IVA).
La società contribuente si è costituita con controdeduzioni ed ha chiesto il rigetto dell’appello.
All’udienza del 21/11/2022 la causa è stata trattata e posta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello è infondato.
La Corte di Cassazione (da ultimo con ordinanza n. 22567 del 10 agosto 2021) ha ribadito (cfr. Cassazione n. 9851 e n. 27566 del 2018; n. 5873/2019), sulla scia della giurisprudenza unionale, che “in tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una “frode corosello”, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.
Va, poi, aggiunto che in casi analoghi la sezione tributaria della Cassazione ha puntualizzato le seguenti coordinate interpretative ed enunciato i seguenti principi di diritto:
-“è onere dell’Amministrazione fornire la prova del fatto che il contribuente che abbia invocato una deduzione IVA nell’ambito di fatture soggettivamente inesistenti fosse a conoscenza che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione fosse iscritta in un’evasione o in una frode. Tale prova può essere data anche attraverso presunzioni semplici” (Cass., sez. trib., 23 marzo 2021, n. 8032);
-“Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto (nella specie di leasing immobiliare), il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode” (Cass. sez. VI, 28 febbraio 2019, n. 5873);
-“In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza o di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass. sez. trib., 30 ottobre 2018, n. 27566 e 20 aprile 2018, n. 9851).
In applicazione dei predetti principi di diritto, ritiene il Collegio, che li condivide pienamente, sufficiente e logica, nel caso concreto, la motivazione espressa nella sentenza appellata in ordine al mancato raggiungimento, anche in via presuntiva, da parte dell’Amministrazione finanziaria – sulla base di “elementi oggettivi e specifici” – della prova che la società contribuente fosse a conoscenza o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza, della evasione commessa da diverso operatore contrattuale (General Car di M. F. ).
Ed invero, va rilevato che la maggiore base imponibile accertata discende, unicamente, dal recupero del costo di acquisto di una autovettura dalla ditta General Car Di M. F. ; che tale operazione risulta registrata nelle scritture contabili della società con fattura n. 355 del 20 dicembre 2006, con pagamento attraverso bonifico bancario e che la stessa autovettura era stata rivenduta al prezzo di euro 62.500,00 oltre IVA con un margine di utile pari al 3,5% in 15 giorni.
Quanto al fornitore General Car Di M. F. , ed alla presunta inesistenza soggettiva, è stato dimostrato che risulta regolarmente iscritto alla camera di Commercio ed operante nel settore dal 1990; che aveva effettuato acquisti di autovetture (144) provenienti da paesi UE per diversi milioni di euro nel corso degli anni 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007 (circostanza questa, peraltro, riportata a pag. 3 del pvc del 28 aprile 2010).
A ciò si aggiunga che risulta prodotta in atti la richiesta di archiviazione proposta dal PM nei confronti del legale rappresentante della società (poi accolta dal Gip) nella quale, dopo avere esaminato i rapporti tra la società A. e la ditta Marrocco, viene evidenziato che “il rapporto economico tra le due ditte si concretizza nell’aspetto formale e documentale tra due soggetti che operano nello stesso settore.
M. F. acquista auto e le rivende, con modalità singolari nella tipologia di impresa e con minime ricariche .. ma l’operazione dal punto di vista cartolare appare giustificata da fatture di vendita e non sussistono fini evasivi atteso che l’acquirente, la società A., paga l’importo in fattura comprensivo di IVA che poi detrae in ragione di una transazione economica che formalmente è documentata e effettiva ”.
Le superiori valutazioni svolte dal PM non possono essere ignorate in questa sede, in quanto, pur tenendo in considerazione l’orientamento della Suprema Corte in ordine all’efficacia non vincolante dell’esito del giudizio penale nel processo tributario, va tuttavia rilevato che il giudice tributario, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito in atti, è tenuto a verificare la rilevanza, rispetto alla fattispecie tributaria soggetta ad esame, di tutti gli elementi desumibili dall’inchiesta penale (cfr. Cass. n.10269/2005; precedente conforme Cass. n. 12577/2000 per il quale: “Il risultato raggiunto in sede penale non rappresenta un qualcosa di completamente avulso dal gravame tributario, in quanto il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel processo penale, purchè proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori“).
Conclusivamente, esaminati gli elementi processuali, va confermata la sentenza di primo grado.
Le spese giudiziali restano governate dal principio della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in favore della parte appellata.
P.Q.M.
rigetta l’appello dell’Agenzia delle Entrare e conferma la sentenza impugnata. Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento, in favore di A. s.r.l., delle spese del secondo grado del giudizio, liquidate in € 2.500,00 (duemilacinquecento/00) a titolo di compensi, oltre il rimborso delle spese forfettarie (nella misura del 15% del compenso totale) e gli accessori di legge (CPA ed IVA).
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