Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Toscana, sezione n. 1, sentenza n. 586 depositata il 22 giugno 2023
affinché possa operare la causa di esclusione dell’imponibilità per i proventi “già sottoposti a sequestro o confisca penale”, occorre che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta a cui il provento fa riferimento – La sede dell’amministrazione di una persona giuridica, in particolare, deve essere individuata con “il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione – nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori redditi non sono stati distribuiti
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto dep. il 1.12.2020 e decreto di fissazione udienza ritualmente notificato, R. S., ha proposto appello avverso la sentenza n. 17/1/2020 resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Grosseto, sezione I, pronunciata il 10 febbraio 2020, depositata il 6 marzo 2020 (R.G.R. n. 191/2019), non notificata. Chiedendo a) In tesi, disponga la sospensione del presente processo RGA n. 1759/2020, ai sensi dell’art. 39 del d.lgs. n. 546/1992 (e, comunque, dell’art. 295 c.p.c.), in attesa della definizione, con sentenza passata in giudicato, del giudizio (pregiudiziale) attualmente identificato dal RGA n. 1763/2020; b) In ipotesi, disponga la riunione del presente processo RGA n. 1759/2020, ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 546/1992, con quello, sempre pendente dinanzi a codesta Ecc.ma Corte, attualmente identificato dal RGA n. 1763/2020.
A sostegno delle proprie ragioni l’appellante ha dedotto che 1. La nullità della sentenza per essere stata emessa oltre il termine di 30 giorni dalla pubblica udienza; 2. Reitera i motivi di gravame già decisi e rigettati dal primo giudice ossia:
– I Motivo. Si contesta la presunzione dell’ufficio (e della Guardia di Finanza, prima) secondo cui il Signor R. S. sarebbe amministratore di fatto delle società M., della S. P. Ltd e della S.; conseguentemente, si eccepisce l’inefficacia di tali atti di accertamento e, conseguentemente, l’illegittimità derivata degli avvisi ai fini IRPEF qui impugnati;
– II Motivo. Si contesta la legittimità e fondatezza degli atti di accertamento impugnati, anche nella parte in cui si attribuiscono al comparente lo status di presunto socio occulto delle due società M., della S. e della S; – III Motivo. Sulla illegittimità degli atti di accertamento adottati nei riguardi delle due società M. e della S., per violazione dei principi che presiedono all’obbligo di motivazione (art. 7 della l. n. 212/2000):
non è stato giustificato il perché sono state disattese circostanze di fatto ed evidenze documentali allegate dal contribuente nel corso dell’istruttoria amministrativa. Sulla illegittimità derivata degli avvisi qui impugnati;
– IV Motivo. Illegittimità degli atti di accertamento adottati nei riguardi delle due società M. e della S., per violazione dell’obbligo di motivazione, in punto di contraddittorietà della medesima (art. 7 della l. n. 212/2000). Sulla illegittimità derivata degli avvisi oggetto di causa;
– V Motivo. In ogni caso e comunque, sulla illegittimità degli atti di accertamento adottati nei riguardi delle due società M. e della S., per il mancato assolvimento dell’onere della prova, da parte dell’Ufficio, circa la esterovestizione delle società e, comunque, sulla erronea qualificazione delle medesime come società esterovestite. Sulla illegittimità derivata degli avvisi qui opposti;
– VI Motivo. Sulla illegittimità delle pretese impositive recate negli atti di accertamento adottati nei riguardi delle due società M. e della S. Ltd, per violazione dell’art. 14, co. 4 della l. n. 537/1993. In denegata ipotesi, sulla non riscuotibilità delle misure cautelari riguardo alle presunte imposte ed interessi dovuti dalle società, sulla base dei p.v.c. Sulla illegittimità derivata degli avvisi qui opposti;
– VII Motivo. In subordine, sulla illegittimità delle pretese recate negli atti presupposti ai fini Ires, per l’erronea determinazione della base imponibile delle società M. e S., comunque, per vizio di motivazione. Sulla conseguente illegittimità degli avvisi impugnati;
– VIII Motivo. In ulteriore subordine: sull’illegittima quantificazione dell’utile occulto che sarebbe stato distribuito al socio, odierno comparente;
– IX Motivo. In ulteriore subordine. Sulla illegittima imputazione al comparente del presunto utile occulto maturato dalla S., per difetto della notifica, a tale società, del prodromico atto presupposto ai fini Ires.
Si è costituita Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Grosseto, in persona del Direttore pro tempore (d’ora in poi Ufficio), contestando tutto quanto ex adverso dedotto e prodotto, ha chiesto “il rigetto dell’appello e la condanna del ricorrente alle spese di giudizio;”.
L’appellante ha depositato memorie illustrative. La causa è stata poi rinviata per la riunione al procedimento r.g. 1763 del 2020, relativa alla sentenza n. 18/1/2020 resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Grosseto, sezione I, pronunciata il 10 febbraio 2020, depositata il 6 marzo 2020 (R.G.R. n. 192/2019), non notificata, disposto all’udienza del 17.5.2023 con la quale era stato dichiarato inammissibile il ricorso spiegato in proprio dal S. e condanna alla rifusione delle spese di lite del primo grado.
MOTIVI DELLA DECISIONE
All’esito dell’udienza svoltasi in modalità mista, la Corte si è riunita in camera di consiglio, al cui esito, il Collegio reputa che gli appelli siano infondati e vadano respinti per quanto di seguito si esporrà.
Quanto all’appello riunito che ha preso r.g.n. 1763/2020, va confermata la statuizione di inammissibilità del ricorso spiegato in prime cure atteso che sul punto la motivazione spese dalla CTP e conforme a diritto e giurisprudenza maggioritaria. Sul punto è sufficiente rilevare che con sentenza n. 26491 del 17/12/2014, richiamata dalla C.T.P., la Corte di Cassazione, Sez. V, ha affermato che “Nell’ipotesi in cui il soggetto passivo dell’avviso di accertamento sia la società e l’atto impositivo sia stato soltanto notificato al suo amministratore di fatto, quest’ultimo non può ricorrere innanzi alla Commissione tributaria in proprio e non quale legale rappresentante della società, con motivi di censura inerenti, peraltro, non l’atto impositivo, ma la qualità, a lui attribuita in sede di notifica dell’atto, di amministratore di fatto della medesima
”. Tale statuizione è confermata dalla giurisprudenza di legittimità successiva atteso che deve reputarsi diritto vivente che il soggetto individuato dall’A.F. quale rappresentante legale di una società non ha interesse giuridico ad agire in giudizio per impugnare l’avviso di accertamento emesso a carico della società. Infatti, l’interesse ad agire, quale condizione dell’azione, deve essere concreto, cioè effettivo, ed attuale. Nel caso di accertamento societario, invece, non sussiste un interesse immediato del rappresentante legale o del socio ad impugnare in proprio l’atto impositivo, semmai l’interesse all’impugnazione sorgerà solo in un momento successivo, ossia quando verrà notificato l’atto di riscossione (cfr. Cass. 17.1.2013 n. 1100 e Cass. 7.6.2012 n. 9282, con specifico riferimento ad una persona fisica indicata erroneamente come legale rappresentante della società di capitali cui l’avviso è rivolto, nello stesso senso Cass. 20.3.2019 n. 7763). È dunque opinione dominante della giurisprudenza quella secondo cui l’accertamento notificato per conoscenza all’amministratore di fatto di una società a responsabilità limitata non è da questi impugnabile, per carenza di interesse ad agire previsto dall’art. 100 c.p.c., atteso che quest’ultimo deve scaturire da un fatto lesivo del diritto tale per cui senza processo ed esercizio della giurisprudenza l’attore soffrirebbe un danno.
L’amministratore di fatto, quindi, è legittimato ad impugnare solo gli atti di riscossione a lui notificati successivamente, e non l’atto impositivo emesso a carico della società. Infatti, l’autonomia patrimoniale perfetta, caratteristica delle società di capitali, si ravvede nell’imputabilità alla società dell’attività svolta in suo nome, principio non derogabile in relazione alle obbligazioni tributarie della società stessa (C.T.R. Milano sez. 18, 6.2.2018 n. 492). Né potrebbe fondare l’esistenza di una tale interesse l’asserzione reiterata dalla parte appellante che se non avesse spiegato nella qualità impiegata impugnazione egli sarebbe rimasto privo di tutela appunto perché egli sarebbe – come lo è – legittimato ad impugnare gli atti di riscossione eseguiti a suo danno. Dalla conferma della inammissibilità pronunciata dalla decisione gravata consegue anche la correttezza della condanna alle spese di lite del procedimento, costituendo essa il diretto e inevitabile precipitato del principio della soccombenza della quale la corte ha quindi parimenti fatto buon governo.
In entrambi gli appelli riuniti, l’appellante eccepisce la nullità della sentenza di primo grado per essere stata pronunciata oltre il termine di trenta giorni di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 546/92, la doglianza va disattesa, posto che tale violazione non importa alcuna nullità della decisione. Sul punto è sufficiente il richiamo all’ordinanza n. 2299 del 31/01/2020 della Corte di Cassazione, ove viene precisato che “In tema di contenzioso tributario, in caso di rinvio della deliberazione rispetto alla discussione in pubblica udienza o all’esposizione del relatore (ove non vi sia udienza pubblica), il mancato rispetto del termine di trenta giorni stabilito dall’art. 35, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 non comporta nullità della decisione, trattandosi di termine ordinatorio in quanto non espressamente dichiarato perentorio dalla legge” (v. ancora sul punto in senso conforme: Cass. n. 8249/2008 e Cass. n. 4776/2002).
Quanto alla pretesa inesistenza della notifica degli avvisi di accertamento e, conseguentemente, sull’illegittimità derivata degli avvisi di accertamento, la doglianza va disattesa. Si legge, infatti, nella sentenza (cfr. pagg. 5 e 6) “… il S. ed il M. erano i veri promotori e amministratori delle società… Le operazioni venivano realizzate attraverso la costituzione di società situate all’estero ma in realtà riconducibili ai predetti S. e M….”. Da quanto sopra emerge che i Giudici di primo grado hanno analizzato il motivo di doglianza, rigettandolo in quanto provata l’esterovestizione della società. È pacifico infatti che, in caso di società con residenza fiscale estera fittizia, gli avvisi di accertamento vadano notificati presso la sede legale ed amministrativa effettiva delle società, individuata nel caso di specie in Italia.
Lamenta ancora l’appellante che la C.T.P. avrebbe errato nel considerare il S. amministratore di fatto delle società M., considerato che lo stesso non aveva alcun potere decisionale ed autonomia gestionale e di essere stato sotto la continua supervisione del M., peraltro destinatario di sentenza penale di assoluzione. Invero, che l’attività del S. fosse in alcune circostanze sottoposta al controllo del M., non vale a scalfire quanto ricostruito dai Verificatori e, certamente, non è sufficiente ad escludere la co-gestione e co-amministrazione del S. Né tanto meno esclude la esterovestizione delle società dei quali questi era amministratore di fatto la circostanza, pur dedotta, che tali società effettivamente esistessero e fossero operative nelle loro sedi. Sotto il primo profilo dal tenore delle e-mail rinvenute nell’abitazione dei due amministratori emerge che il S. non era mero esecutore delle direttive altrui ma, unitamente al M. gestiva attivamente le società che sono risultate essere esterovestite. La stessa gestione della piattaforma Bloomberg non è un elemento secondario per il semplice fatto che attraverso la stessa potevano essere effettuate solo visure. La piattaforma, infatti, è un sistema multimediale computerizzato che serve a fornire, in tempo reale, servizi circa le variazioni e i movimenti del mercato finanziario per potere operare in maniera informata. Si legge nella richiesta di rinvio a giudizio che la fattispecie delittuosa contestata veniva posta in essere “con la contraffazione delle visure dei titoli finanziari, oggetto del contratto di affitto, attraverso le piattaforme più diffuse di analisi finanziaria (Bloomberg o Euroclear e Cleastream) in modo da dar prova al Prestatore/cliente dell’esistenza del titolo, che lo stesso fosse di proprietà di una delle società riconducibili al gruppo criminale e che fosse stato prenotato a nome del cliente al fine d’indurlo al pagamento della calloption e, quindi, riservarglielo, qualora possibile, anche dell’intero importo del canone di affitto
” (cfr. pag. 119, primo periodo in alto). Ecco allora che la disponibilità della piattaforma Bloomberg, come riconosciuto dalla C.T.P., era un elemento importante. L’accesso ad essa infatti era un’attività basilare, propedeutica alle successive attività delle società. Ne consegue peraltro che proprio in tale prospettiva le società che facevano capo al S. dovevano essere effettive ed è evidente che esse potessero e dovessero avere una specifica fisionomia fisica oltre che giuridica. Irrilevante è poi l’assoluzione dell’altro co-amministratore posto peraltro che l’esclusione della rilevanza penale dei fatti addebitati non esclude la rilevanza tutta fiscale dei medesimi, posto peraltro che la consistenza fattuale dell’impiatto del pvc ne è uscito comunque e per diversi fini confermato. In conclusione, appare corretta la qualificazione del sig. S. quale amministratore di fatto, avendo dimostrato la G.d.F. in sede di indagini come lo stesso fosse inserito nella gestione di impresa, non come mero esecutore ma quale vero promotore, che gestiva i contratti, i rapporti bancari, inviava liste titoli, si occupava di importanti brokers e inoltrava loro le visure bloomberg. Come affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 16184/2016 “Per costante orientamento di questa Corte, ai fini della corretta individuazione dell’amministratore di fatto di una società è sufficiente l’accertamento del suo inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società (cfr. Cass. 2586 del 2014, nonché Cass. n. 28819/08; n. 6719/08; n. 9795/99). Pertanto, pur in mancanza di una investitura da parte della società, è possibile individuare in un determinato soggetto la figura dell’amministratore di fatto tutte le volte in cui vi sia la prova che le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, si concretino in atti che, per la loro natura e non occasionalità, siano sintomatici dell’assunzione di quelle funzioni (cfr. Cass. n. 4045/2016)”.
Gli avvisi di accertamento, dunque, sono stati correttamente notificati in Italia, presso quella che è stata individuata quale sede legale ed amministrativa delle società. In senso contrario non è sufficiente il richiamo alla sentenza del Tribunale del riesame, il quale ha escluso la sussistenza della prova in merito al reato di associazione a delinquere. Ciò in quanto, si ripete, l’esclusione del reato di associazione a delinquere non ha alcuna connessione, né tantomeno riflesso, in merito a quanto contestato con gli avvisi di accertamento, ossia l’esterovestizione delle società M. e la gestione delle stesse da parte del S. Tra l’altro se è vero che il Tribunale ha ritenuto non provato il reato di cui all’art. 416 c.p., è altrettanto vero che lo stesso ha “considerato anche l’elenco stilato da G.di F. riportante in sintesi i contratti e le fatture ed ogni altra documentazione rappresentativa delle operazioni illecite poste in essere dall’indagato ed anche sul punto senza illogicità ha rilevato come tali strumenti potrebbero essere significativi in relazione ai reati di cui all’art. 166 D.Lgs. n. 58/1998 o a quello di truffa
”.
Da ciò si può affermare che, se pure in sede di riesame non è stato provato il reato di associazione a delinquere, vi sono forti elementi per sostenere gli ulteriori reati, realizzati attraverso quelle società i cui amministratori sono stati individuati nelle persone del M. e del S.
Quanto poi alla doglianza afferente il riconoscimento in capo al S. della qualità di socio occulto, parimenti il motivo di gravame non coglie nel segno e si presenta come una ridondante ripetizione del motivo già dianzi ampliamente argomentato. Preme solo rimarcare che secondo la giurisprudenza di legittimità, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori redditi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Cass. 27.09.2016, n. 19013) aggiungendo che in mancanza di prova contraria da parte del contribuente la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili non viola il divieto di presunzioni di secondo grado poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci (Cass. 14.12.2016, n. 25683). Facendo applicazione di tali principi nel caso in esame tale prova contraria incombente sul S. non è stata fornita, in guisa da doversi ulteriormente confermare la decisione gravata.
Venendo ad esaminare il quarto motivo di appello il S. contesta la sentenza per non avere la C.T.P. ritenuto leso il principio del contraddittorio, l’A.F. infatti non avrebbe giustificato il perché siano state disattese le circostanze evidenziate dal contribuente in sede di memorie istruttorie, anche tale motivo è privo di pregio.
L’art. 12 della L. n. 212/2000 di cui si denuncia la violazione prevede espressamente che il contribuente possa comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste. Nel caso di specie i p.v.c. sono stati notificati il 26/07/2018, mentre le memorie sono state notificate all’Ufficio il 17/10/2018, ossia ben oltre il termine previsto dalla norma per poter far pervenire osservazioni. Si osserva, in ogni caso atteso che la doglianza è irrilevante alla luce di un costante insegnamento della Suprema Corte riconducibile alla seguente massima espressa nella sentenza n. 18385 del 12-07-2018: “questa Corte ha in proposito affermato che “in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo” (Cass. n. 8378 del 2017)”.
Anche sotto tale profilo, la sentenza di primo grado che ha riconosciuto la legittimità degli avvisi di accertamento va dunque condivisa.
Con il quinto motivo di appello è stata lamentata l’illegittimità degli atti di accertamento per contraddittorietà della motivazione in quanto gli avvisi di accertamento riportano nella loro intestazione la sede legale dichiarata dalle società, mentre all’interno degli atti si qualifica come sede l’Italia, anche tale profilo va disatteso. Gli avvisi di accertamento riportano in epigrafe quella che è la sede dichiarata dal contribuente, mentre nella loro parte motivazionale vengono rappresentate in maniera esaustiva le ragioni per cui le sedi dichiarate fossero state considerate fittizie e la loro localizzazione in paesi a fiscalità privilegiata o paesi che non consentono lo scambio di dati bancari fosse finalizzata unicamente a beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso e/o a sottrarsi ai controlli previsti.
La motivazione degli atti impugnati, sotto tale profilo, non appare contraddittoria, anzi, è sempre coerente nel rappresentare gli elementi volti a dimostrare l’esterovestizione delle società.
Con il sesto motivo di appello il contribuente contesta l’esterovestizione delle società accertate. Sostiene a tal fine che, come emergerebbe dalla richiesta di rinvio a giudizio, l’intermediazione e la consulenza erano svolte da brokers in prevalenza esteri, i clienti erano ubicati in ogni parte del Globo, i contratti erano sottoscritti dai legali rappresentanti delle società, i conti correnti erano esteri, la stessa procura ha contestato l’aggravante della transnazionalità. L’eccezione è infondata e va disattesa. L’esterovestizione consiste nella dissociazione fra residenza formale e residenza sostanziale del soggetto passivo finalizzata a beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello del Paese di effettiva residenza. L’articolo 73 del D.P.R. n. 917/86 fornisce tre diversi criteri di collegamento in base ai quali individuare la residenza fiscale in Italia di una società, ossia: la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale. Tali criteri sono tra loro alternativi, nel senso che è sufficiente accertare la sussistenza di uno di essi, affinché la società possa essere considerata fiscalmente residente in Italia.
Nel caso di specie, l’A.F. ha ritenuto che la sede dell’amministrazione, intesa come luogo ove si assumono le decisioni più importanti, sotto il profilo strategico, imprenditoriale e decisionale, fosse in Italia, così come lì si trovasse la localizzazione dell’oggetto principale dell’attività d’impresa. In Italia, infatti, risiede il S., il quale unitamente al M., è risultato essere amministratore di fatto delle società, nonché vero promotore delle stesse. Da lì venivano inviate le liste dei titoli, venivano gestiti i contratti, i rapporti bancari, i brokers e la piattaforma bloomberg, importante mezzo di lavoro che, guarda caso, non si trovava presso la formale sede legale delle società ma presso l’ufficio in uso al contribuente come hanno appurato gli agenti accertatori.
Ed è sempre nel predetto ufficio, nel p.c. ed in altri dispositivi di memorizzazione ivi localizzati, che sono stati rinvenuti tutti i documenti, le fatture, ed i contratti allegati al p.v.c. A fronte di ciò, gli elementi addotti dal Contribuente non sono sufficienti a negare l’esterovestizione delle società, anzi essi di norma sono riscontrabili nei casi di esterovestizione.
Infatti, nel caso di specie, la predisposizione di una miriade di società utilizzate al bisogno in qualità di fender, escrow agent, clearing settlement dislocate in Paesi diversi ma riconducibili ai due amministratori di fatto, l’apertura di conti correnti in Paesi che il più delle volte tutelano il segreto bancario, la creazione di una fitta rete di brokers, rappresentano proprio il modo attraverso cui le società si sottraevano agli adempimenti tributari in Italia, luogo dove era effettivamente riconducile la loro attività. D’altra parte, nei casi di esterovestizione, gli elementi non vanno valutati nella loro rappresentazione formale ma sostanziale. La giurisprudenza di legittimità, relativamente alle controversie in cui si contesta l’esterovestizione di una società, ha sempre riconosciuto che la residenza fiscale di un soggetto collettivo coincide con il luogo in cui effettivamente si adottano le scelte più importanti dell’ente stesso. La Corte di Cassazione, in particolare, ha chiarito come, ai fini dell’individuazione della sede amministrativa, la situazione sostanziale ed effettiva debba prevalere sul profilo formale ed apparente (cfr. Corte di Cassazione, sentenza 10 dicembre 1974, n. 4172). La sede dell’amministrazione di una persona giuridica, in particolare, deve essere individuata con “il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione”, cioè “il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento (…) degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente” (cfr. Corte di Cassazione sentenza 16 giugno 1984, n. 3604).
In altri termini, la stessa si colloca nel luogo in cui “l’imprenditore svolge realmente l’attività di direzione, amministrazione e coordinamento di fattori produttivi” (Corte di Cassazione, sentenza 19 gennaio 1991, n. 505). La sede dell’amministrazione, infatti “non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della medesima (società), oppure una persona che genericamente ne cura gli interessi (
), ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell’impresa” (cfr. Corte di Cassazione 9 giugno 1988 sentenza n. 3910). A fronte degli elementi rappresentati dall’A.F. il contribuente non ha opposto nulla se non elementi di natura formale. Non è, infatti, stato prodotto alcun documento che potesse provare che i country managers godessero di autonomia nelle decisioni di spesa e nella stipula dei contratti e confermare l’effettiva sede estera delle società, come per esempio i documenti dai quali si evinca il corretto adempimento degli obblighi fiscali nello stato estero, le delibere del consiglio di amministrazione, le direttive interne, la corrispondenza o altri documenti che precedono o integrano le trattative commerciali cui è orientata la strategia aziendale. In assenza di forti elementi probatori che scalfiscano la ricostruzione della G.d.F. va considerata, quindi, legittima l’attribuzione di esterovestizione alle società M.
Con il settimo motivo di appello, il Contribuente sostiene che la pretesa erariale sarebbe illegittima ai sensi dell’art. 14, co. 4, della L. n. 537/1993 in quanto è stato eseguito un sequestro preventivo per la somma di E. 31.774.283,82, anche tale doglianza non ha pregio e va respinta. L’imposizione dei proventi illeciti richiede, quale presupposto, il loro preventivo inquadramento in una delle categorie di reddito indicate nell’art. 6 del T.U.I.R.. La disposizione di interpretazione autentica dell’art. 14, comma 4, contenuta nell’art. 36, comma 34-bis, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, ha chiarito che i proventi illeciti non classificabili nelle categorie di reddito indicate nell’art. 6 del T.U.I.R. devono, comunque, essere considerati redditi diversi. Pertanto, detti proventi illeciti costituiscono, per il soggetto che li ha conseguiti, reddito imponibile, con i connessi adempimenti contabili e obblighi dichiarativi. L’unica deroga all’imponibilità dei proventi di illecita provenienza è rappresentata, ai sensi del citato 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, dall’ipotesi in cui il contribuente sia stato spossessato della relativa ricchezza, a seguito di un provvedimento di sequestro o confisca. Come riconosciuto dalla C.T.P., la Corte di Cassazione, in ripetute pronunce, ha, tuttavia, circoscritto tale principio, subordinandolo alla verifica di specifiche condizioni. In particolare, affinché operi la causa di esclusione dell’imponibilità, costituita dalla circostanza che i detti proventi risultino “già sottoposti a sequestro o confisca penale”, occorre che il provvedimento ablatorio sia intervenuto entro lo stesso periodo d’imposta cui il provento si riferisce (in tal senso Corte di Cassazione sentenza n. 7337 del 29 novembre 2002). Tale principio è stato successivamente confermato in varie sentenze. Valga per tutte la sentenza della Suprema Corte n. 21195 dell’8 ottobre 2014, in cui i giudici di legittimità hanno rimarcato che il sistema tributario si fonda sull’autonomia dell’obbligazione tributaria per singolo periodo d’imposta, per cui, affinché possa operare la causa di esclusione dell’imponibilità per i proventi “già sottoposti a sequestro o confisca penale”, occorre, in ossequio al menzionato principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della costituzione, che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta a cui il provento fa riferimento.
L’obbligazione tributaria, riproducendosi come “autonoma” in ogni periodo d’imposta (art. 7 del TUIR), presenta una non eliminabile connotazione temporale, per il fatto che, oltrepassato quel periodo, la fattispecie impositiva rinasce come diversa. Ne deriva che, come il presupposto dell’imposta va individuato nel “possesso di redditi” nel periodo considerato, così eventuali vicende di quel possesso, oltre lo stesso arco temporale, non ricoprono alcuna rilevanza sulla configurazione della fattispecie tributaria (cfr. sentenze Cass. Nn. 7337/2003 e 19078/2005, suffragate dalle sentenze n. 4625/2008, 28574/2008, 869/2010, 25467/2013, 28519 /2013 e 21195/2014). Nel caso di specie gli anni d’imposta oggetto di accertamento sono il 2014 ed il 2015, mentre il sequestro è del 2016, per cui non è palesemente “intervenuto nello stesso periodo d’imposta a cui il provento fa riferimento”, ma successivamente. Questo comporta che il sequestro non è causa di esclusione all’imponibilità dei proventi illeciti recuperati e, pertanto, non è opponibile all’A.F. La lettura normativa dell’Ufficio, avallata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, non viola neppure i principi costituzionali di cui agli art. 3 e 53. Anzi, proprio tale lettura della norma risulta “indotta dal principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. onde evitare ingiustificate disparità di trattamento tra i percettori di proventi illeciti ed i possessori di redditi leciti, per i quali – secondo i principi generali del sistema tributario – i redditi medesimi sono esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo d’imposta nel quale risultano prodotti (Cass. 22 febbraio 2008 n. 4625; Cass. 29 settembre 2005 n. 19078; Cass. 13 maggio 2003, n. 7337, tutte relative, come la presente, a periodi d’imposta anteriori all’entrata in vigore della 1. n. 537 del 1993)” (Cass. sentenza del 02/12/2008, n. 28574; in senso conforme Cassazione sent. n. 4625 del 22 febbraio 2008).
Per quanto sopra esposto appare del tutto infondata la tesi del Contribuente secondo cui le pretese impositive e sanzionatorie non possano essere oggetto di riscossione coattiva ai sensi degli art. 15 e ss. del D.P.R. n. 602/73. Le suddette argomentazioni invero non hanno alcun fondamento positivo, anzi, sono sconfessate dalle stesse norme richiamate nel ricorso. Attesa infatti la legittimità degli avvisi di accertamento, in quanto il sequestro non è intervenuto nei medesimi periodi d’imposta a cui fanno riferimento gli atti impositivi, la riscossione dovrà necessariamente essere effettuata in via frazionata ai sensi degli artt. 15 e ss. del D.P.R. n. 602/73, nonché dell’art. 68 del D.Lgs. n. 546/92.
Con l’ottavo motivo di appello il contribuente lamenta l’omessa motivazione della pronuncia sull’eccezione relativa all’erronea determinazione dell’imponibile nonché il vizio di motivazione. Le somme riscosse, secondo la ricostruzione operata dagli accertatori, non possono essere considerate mere caparre confirmatorie, come pure paventato dall’odierno appellante, ma sono state correttamente qualificate dai Verificatori quali proventi da reato e riprese a tassazione dall’Ufficio, giusta applicazione degli artt. 14 della L. n. 537/93 e 6 del TUIR. Per quanto concerne la ricostruzione dell’imponibile, va osservato che la stessa è dettagliata sia nei p.v.c. che negli avvisi di accertamento, ove si legge che gli importi sono stati calcolati sulla base sulla base delle fatture emesse, nonché, in alcuni casi, sulla base delle ricevute di pagamento emesse nei confronti della “W. I. M.” ma ricondotte alle società accertate in virtù della piena identità tra i due soggetti economici. In particolare, per quanto riguarda l’importo di E 997.500,00, richiamato nel ricorso, lo stesso è stato calcolato (come peraltro chiaramente esposto a pag. 36 del p.v.c. emesso a carico della M. B. – cfr. all. 1 primo grado) sulla base delle fatture emesse dalla M. con sede in Belize (di cui all’allegato 17 del p.v.c. – all.11) e di una ricevuta di pagamento emessa nei confronti della “W. I. M.” (di cui all’allegato 18 del p.v.c.). La quantificazione degli importi, dunque, lungi dall’essere apodittica, è ben tracciata nei p.v.c. e allegati, oltre ad essere estremamente semplice anche nella sua ricostruzione, di guisa che l’eccezione disattesa, essendo peraltro stata formulata in modo piuttosto generica. Per quanto concerne, infine, il mancato riconoscimento dei costi, lo stesso appare legittimo per espressa previsione di cui all’art. 14, co. 4 bis, della L. n. 537/93 secondo cui i costi e le spese riconducibili a fatti che costituiscono reato sono indeducibili, con la conseguenza che, per i responsabili dei delitti, il reddito tassabile deve essere determinato senza tenere conto delle spese sostenute per la loro commissione, come sarebbero nel caso di specie quelle relative al pagamento dei brokers. In senso contrario non valgono le sentenze richiamate nell’appello, in quanto non pertinenti, affrontando la questione ben diversa del mancato riconoscimento dei costi nel caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
L’appellante lamenta inoltre l’erronea motivazione della C.T.P. in merito al motivo di ricorso con cui si contestava l’illegittima quantificazione degli utili distribuiti, i quali secondo l’Appellante avrebbero dovuto essere calcolati non sui ricavi accertati ma sull’utile effettivo, ossia sul maggior reddito accertato al netto delle imposte dirette da assolvere sul medesimo; parimenti la doglianza non coglie nel segno. Secondo la giurisprudenza di legittimità (v. sentenza Cass., n. 16022/2009), è stato affermato che “… nel caso in cui la presunzione (di distribuzione di utili occulti) non sia superata, la quota attribuita al socio non può essere considerata al netto delle imposte che la società è tenuta a pagare, in quanto, trattandosi di ricavi extracontabili, nessun pagamento di imposte è ipotizzabile al riguardo …“. L’Ufficio, dunque, ha correttamente calcolato la quota attribuita al socio.
Quanto, infine, all’ultimo motivo di appello, il S. lamenta l’imputazione dell’utile riferito alla S., per difetto di notifica a tale società dell’avviso di accertamento ai fini Ires, parimenti la doglianza va respinta atteso che sin dal primo grado l’Ufficio legale aveva provveduto ad annullare parzialmente l’avviso di accertamento, scomputando dai maggiori utili accertati la quota di E. 4.972,00, riferibile alla S. Il provvedimento di annullamento parziale inoltre era stato portato a conoscenza del contribuente mediante allegazione dello stesso agli atti processuali.
In conclusione, l’appello va respinto e, per l’effetto va confermata la decisione di prime cure.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte respinge gli appelli riuniti; condanna l’appellante alla refusione delle spese di lite del presente grado che liquida in euro 20.000,00
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