CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMOGRANDE CAMERA
CAUSA DE TOMMASO c. ITALIA
(Ricorso n. 43395/09)
SENTENZA
STRASBURGO
23 febbraio 2017
La presente sentenza è definitiva ma può subire modifiche di forma.
Nella causa De Tommaso c. Italia,
la Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da:
András Sajó, Presidente,
Guido Raimondi,
Josep Casadevall,
Işıl Karakaş,
Mark Villiger,
Boštjan M. Zupančič,
Ján Šikuta,
Ledi Bianku,
Nebojša Vučinić,
Kristina Pardalos,
Paulo Pinto de Albuquerque,
Helen Keller,
Ksenija Turković,
Dmitry Dedov,
Egidijus Kūris,
Robert Spano,
Jon Fridrik Kjølbro, giudici,
e Johan Callewaert, cancelliere aggiunto della Grande Camera,
dopo aver deliberato in camera di consiglio in data 20 maggio 2015, 24 agosto 2016 e 23 novembre 2016,
pronuncia la seguente sentenza, adottata nell’ultima data menzionata:
PROCEDURA
1. La causa trae origine da un ricorso (n. 43395/09) proposto contro la Repubblica italiana con il quale in data 28 luglio 2009 un cittadino italiano, il Sig. Angelo de Tommaso (“il ricorrente”), ha adito la Corte ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. Il ricorrente è stato rappresentato dall’avvocato D. Conticchio, del foro di Casamassima. Il Governo italiano (“il Governo”) è stato rappresentato dai suoi co-agenti, i Sigg. Paola Accardo e G. Mauro Pellegrini.
3. Il ricorrente ha sostenuto, in particolare, che le misure di prevenzione che gli erano state applicate per un periodo di due anni violavano gli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione e l’articolo 2 del Protocollo n. 4.
4. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione della Corte (articolo 52 § 1 del Regolamento della Corte).
5. Il ricorso è stato comunicato al Governo in data 18 ottobre 2011.
6. In data 25 novembre 2014 una Camera della Seconda Sezione, composta da Işıl Karakaş, Presidente, Guido Raimondi, András Sajó, Nebojša Vučinić, Helen Keller, Egidijus Kūris, Robert Spano, giudici, e Stanley Naismith, cancelliere di sezione, ha declinato la giurisdizione a favore della Grande Camera, non essendosi opposta nessuna delle parti (articolo 30 della Convenzione e articolo 72 del Regolamento della Corte).
7. La composizione della Grande Camera è stata determinata in conformità all’articolo 26 §§ 4 e 5 della Convenzione e all’articolo 24 del Regolamento della Corte.
8. Il ricorrente e il Governo hanno presentato osservazioni scritte sulla ricevibilità e sul merito del ricorso.
9. In data 20 maggio 2015 si è svolta una pubblica udienza a Strasburgo nel Palazzo dei diritti dell’uomo (articolo 59 § 3 del Regolamento della Corte).
Sono comparsi dinanzi alla Corte:
(a) per il Governo
I SIGNORI
P. ACCARDO,
G. MAURO PELLEGRINI, co-agenti;
(b) per il ricorrente
I SIGNORI
D. CONTICCHIO, avvocato,
L. FANIZZI,
M. CASULLI, consulenti.
La Corte ha udito le dichiarazioni dei Signori Accardo e Conticchio, e le loro risposte alle domande poste dai giudici.
IN FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE
10. Il ricorrente, Sig. Angelo de Tommaso, è un cittadino italiano nato nel 1963 e vive a Casamassima.
11. Il 22 maggio 2007 la Procura della Repubblica di Bari richiese al Tribunale di Bari di applicare al ricorrente la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni, sulla base della Legge n. 1423/1956, con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza per quel periodo. Il pubblico ministero sostenne che le precedenti condanne del ricorrente per spaccio di sostanze stupefacenti, evasione e detenzione illegale di armi dimostravano che egli si era associato a dei criminali ed era una persona pericolosa. Osservò anche che il ricorrente era stato sottoposto ad “avviso” da parte della polizia, ma aveva persistito nella condotta criminale.
12. Con memorie del 6 marzo 2008 il ricorrente contestò la richiesta del procuratore. Sostenne che vi era stato un errore di identità e che le asserite violazioni degli obblighi di sorveglianza speciale riguardavano una persona che aveva il suo stesso nome e cognome, ma che era nata nel 1973. Affermò inoltre che non erano state formulate accuse a suo carico successivamente a una condanna risalente al 2002. La sua condanna per evasione nel 2004 non costituiva un fattore determinante per applicare la misura in questione. Sostenne che non era necessario sottoporlo a sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.
13. Con provvedimento dell’11 aprile 2008, notificato in data 4 luglio 2008, il Tribunale di Bari applicò al ricorrente la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. Respinse i suoi rilievi, ritenendo che fossero effettivamente soddisfatti i requisiti di legge richiesti per l’applicazione della misura, non sussistendo dubbi sulla sua pericolosità.
14. Il Tribunale ritenne che il ricorrente fosse “attivamente” proclive al reato e che le prove agli atti dimostrassero che egli traeva gran parte dei mezzi di sostentamento dall’attività criminosa.
15. Il Tribunale osservò, in particolare:
“Il soggetto, sottoposto ad “avviso orale della P.S.” in data 18/6/2006, era rimasto senza alcun miglioramento della sua condotta, ancora caratterizzata da intensa frequentazione di elementi di spicco della malavita locale e dalla consumazione di reati (ved. cert. carichi pendenti: violaz. obblighi sorveglianza in data 25/4/2007; violaz. obb. sorveglianza in data 29/4/2007).
16. Il Tribunale ritenne inoltre:
“L’assunto formulato nella richiesta avanzata a questo Tribunale risulta ampiamente suffragato dall’esito dell’istruttoria svolta, che ha (ved. documentazione e cert. acquisite agli atti) posto in risalto che DE TOMMASO Angelo è effettivamente ed attualmente coinvolto in vari fatti criminosi, dei quali i più particolarmente allarmanti per l’ordine e la sicurezza pubblica si ritengono i reati contro il patrimonio e i reati concernenti le armi e gli stupefacenti.
A completamento del negativo quadro, valga il contenuto della recente segnalazione dei CC di Gioia del Colle in data 26/1/2008, da cui risulta che la proclività del soggetto verso il reato, tutt’altro che spenta, viene ancora ritenuta attiva ed operativa. Risulta dagli atti che non svolge una fissa e lecita occupazione (ha prodotto una disponibilità all’assunzione a partire dal febbraio 2008) e che i gravi fatti considerati sono tali, da autorizzare a ritenere che il soggetto abbia, fin qui, tratto dall’attività criminosa gran parte dei mezzi del proprio sostentamento, con incessante ricorso a delitti, compiuti da solo o in associazione organica con pregiudicati (nel luogo di residenza, così come in località diverse): donde la necessità, di irrogazione, anche al fine di determinare un controllo più assiduo, oltre che di anni 2 di sorveglianza speciale di P.S. (misura ritenuta congrua alla luce della personalità del proposto, quale emerge nei fatti che gli sono ascritti), anche dell’obbligo, per la medesima durata, di soggiorno nel Comune di residenza.”
17. Le misure di prevenzione applicate ponevano in capo al ricorrente i seguenti obblighi:
- presentarsi la domenica, ed ogni qualvolta invitato, al competente Ufficio di P.S.;
- iniziare a cercarsi un lavoro entro un mese;
- risiedere a Casamassima e non trasferire la propria residenza in un Comune diverso da quello ove attualmente risiedeva;
- vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna ai sospetti in ordine alla propria condotta;
- non associarsi a persone che avessero subito condanne e fossero sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza;
- non rincasare la sera più tardi delle ore 22.00 e non uscire di casa al mattino prima delle ore 06.00 senza comprovata necessità e comunque senza averne data tempestiva notizia all’Autorità locale di P.S.;
- non detenere e non portare indosso armi;
- non trattenersi abitualmente nelle osterie e nelle bettole o nelle “sale giochi” ovvero in luoghi ove si esercita il meretricio, e non partecipare a pubbliche riunioni o manifestazioni di qualsiasi genere;
- non utilizzare telefoni cellulari o apparati radioelettrici di comunicazione; e
- portare con sé la carta precettiva e presentarla ad ogni richiesta dell’Autorità di Polizia.
18. In data 14 luglio 2008 il ricorrente presentò appello alla Corte di appello di Bari.
19. In data 31 luglio 2008 la Prefettura di Bari dispose la revoca della patente di guida del ricorrente.
20. Con provvedimento del 28 gennaio 2009, notificato al ricorrente in data 4 febbraio 2009, la Corte di appello accolse il ricorso e annullò la misura di prevenzione ex tunc.
21. La Corte di appello osservò in primo luogo che il presupposto applicativo della misura di prevenzione era l’accertamento della “pericolosità attuale” del proposto, la quale non era necessariamente collegata alla commissione di uno specifico reato, ma riguardava piuttosto l’esistenza di una situazione complessa, avente un connotato di durata e rivelatrice di un particolare sistema di vita del soggetto che destava allarme per la sicurezza pubblica.
22. Secondo la Corte di appello “l’attualità” che doveva caratterizzare la pericolosità sociale del soggetto implicava che il relativo giudizio dovesse essere formulato con riferimento al momento deliberativo e dovesse conservare valenza anche nella fase esecutiva, con l’effetto che tutte le circostanze anteriori potevano venire in rilievo soltanto per la loro incidenza “sull’attualità”.
23. La Corte ritenne che al momento deliberativo di applicazione della misura non sussistessero condotte criminose dalle quali desumere la pericolosità del ricorrente.
24. Osservò poi che a carico del ricorrente vi erano diverse condanne definitive per contrabbando di tabacco, consumato dal settembre 1995 all’agosto 1999. Aveva successivamente mutato settore di attività e fino al 18 luglio 2002 si era dedicato al traffico di stupefacenti, unitamente alla detenzione e al porto di armi clandestine, reati per i quali aveva riportato la condanna a quattro anni di reclusione con sentenza del 15 marzo 2003, divenuta irrevocabile il 10 marzo 2004; pena eseguita dal 18 luglio 2002 al 4 dicembre 2005.
25. La Corte di appello osservò conseguentemente che le più recenti attività illecite del ricorrente in materia di stupefacenti risalivano a oltre cinque anni prima dell’adozione della misura di prevenzione. A suo carico pendeva soltanto una evasione dagli arresti domiciliari commessa in data 14 dicembre 2004 (mentre era sottoposto all’obbligo di soggiorno).
26. La Corte sottolineò anche che le violazioni degli obblighi della sorveglianza speciale commesse in data 25 e 29 aprile 2007 erano riferibili a un diverso soggetto, che aveva lo stesso nome e lo stesso cognome del ricorrente, ma che era nato nel 1973.
27. La Corte di appello ritenne che il Tribunale avesse omesso la valutazione della incidenza sulla personalità del ricorrente della funzione risocializzante della pena.
Osservò in particolare:
“Se è pur vero infatti che l’applicazione della sorveglianza speciale è compatibile con lo stato di detenzione del soggetto, che incide soltanto sul momento esecutivo, tuttavia la valutazione della pericolosità non può che essere ancora più pregnante, nei confronti di un soggetto che ha interamente espiato la pena a lui inflitta e che dopo la sua scarcerazione non ha commesso più reati, quale nella specie il De Tommaso.
A giustificare il giudizio di pericolosità non appare sufficiente l’annotazione dei Carabinieri del 26 gennaio 2008 nella quale si segnalava la frequentazione di altri pregiudicati (unitamente ai quali era stato sorpreso a parlare), dandosi atto che comunque il De Tommaso “dal periodo successivo alla proposta di applicazione della misura non era stato coinvolto in ulteriori vicende giudiziarie”.
Va infine evidenziato che, dalla documentazione prodotta dalla difesa in primo grado ed integrata all’odierna udienza camerale, risulta che, sia pure con la saltuarietà tipica della natura dell’attività lavorativa di bracciante agricolo, il proposto quanto meno dopo la sua scarcerazione del 2005 si è costantemente dedicato sino ad oggi ad attività lavorativa lecita che gli assicura una fonte dignitosa di sostentamento.
In conclusione, difettavano già nel marzo 2008 fatti specifici dai quali desumere una persistente pericolosità del proposto il quale dopo la lunga esperienza carceraria subita in espiazione della pena inflittagli non aveva tenuto condotte che giustificassero il giudizio espresso con il decreto impugnato, che va pertanto annullato.”
II. LA PARZIALE DICHIARAZIONE UNILATERALE DEL GOVERNO
28. In data 7 aprile 2015 il Governo ha presentato una nota contenente una proposta di composizione amichevole in relazione alla parte del ricorso concernente la doglianza relativa all’assenza di una pubblica udienza dinanzi al Tribunale e alla Corte di Appello di Bari (articolo 6 § 1 della Convenzione), nonché una dichiarazione unilaterale ai sensi dell’articolo 62A del Regolamento della Corte in relazione a tale doglianza.
29. Nella sua dichiarazione il Governo, rinviando alla giurisprudenza consolidata della Corte (Bocellari e Rizza c. Italia, n. 399/02, 13 novembre 2007; Perre e altri c. Italia, n. 1905/05, 8 luglio 2008; e Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07, 5 gennaio 2010), ha riconosciuto che vi era stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a causa del carattere non pubblico delle udienze, si è offerto di versare un determinato importo a titolo di spese relative a questa parte del ricorso e ne ha chiesto la cancellazione.
III. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
A. La Legge n. 1423/1956
30. In Italia le misure di prevenzione personali praeter delictum risalgono al diciannovesimo secolo. Esistevano già prima dell’unificazione dell’Italia avvenuta nel 1861, e furono successivamente reinserite nella legislazione del Regno d’Italia dalla Legge Pica (n. 1409/1863), e in seguito dal Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1865.
31. Nel 1948 entrò in vigore la Costituzione italiana, che sottolineò la tutela delle libertà fondamentali, in particolare la libertà personale (articolo 13) e la libertà di circolazione (articolo 16), nonché il principio di legalità in relazione ai reati e alle misure di sicurezza (articolo 25, commi 2 e 3).
32. Ciononostante, le misure di prevenzione personali non furono completamente abolite; a seguito dell’introduzione della nuova Legge n. 1423/1956, furono adattate per osservare i criteri fondamentali citati nelle sentenze della Corte costituzionale, che esigevano l’intervento giudiziario e l’osservanza del principio di legalità nell’applicazione delle stesse.
33. La Legge 27 dicembre 1956 n. 1423, come in vigore al momento pertinente, prevede l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle “persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”.
34. L’articolo 1 della Legge prevede che le misure di prevenzione si applicano a:
- “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi;
- coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni; la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica.”
35. A norma dell’articolo 3, alle persone indicate nell’art. 1 che non abbiano cambiato condotta nonostante l’avviso orale di cui all’articolo 4 quando siano pericolose per la sicurezza pubblica può essere applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, alla quale può essere aggiunto, ove le circostanze del caso lo richiedano, il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o l’obbligo di soggiorno in un determinato comune.
36. L’applicazione della misura della sorveglianza della pubblica sicurezza è consentita dopo che il questore ha provveduto ad avvisare oralmente la persona invitandola a tenere una condotta conforme alla legge. Se la persona, nonostante l’avviso, non ha cambiato condotta ed è pericolosa per la sicurezza pubblica, il questore può avanzare proposta alle autorità giudiziarie per l’applicazione della misura.
37. L’articolo 4 della Legge prevede che il tribunale provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposta, con l’intervento del pubblico ministero e dell’interessato, che può presentare memorie e farsi assistere da un avvocato. Le misure di prevenzione sono di competenza esclusiva del tribunale avente sede nel capoluogo di provincia.
38. Il procuratore della Repubblica e l’interessato hanno facoltà di proporre ricorso alla Corte di appello entro dieci giorni; il ricorso non ha effetto sospensivo. La Corte di appello provvede, in camera di consiglio, con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso (articolo 4 commi 5 e 6). Alle stesse condizioni è ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, la Corte di cassazione provvede, in camera di consiglio, entro trenta giorni dal ricorso (articolo 4 comma 7).
39. Qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 3, esso deve specificare la durata della misura – da uno a cinque anni (articolo 4 comma 4) – e deve indicare le prescrizioni che l’interessato deve osservare (articolo 5 comma 1).
40. L’ articolo 5 prevede che qualora la misura applicata sia quella della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza, il tribunale prescrive alla persona sospettata di vivere con il provento di reati, di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora, di farla conoscere nel termine stesso all’autorità di pubblica sicurezza. La persona non può allontanarsi dall’abitazione scelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza. Il tribunale prescrive alla persona: di vivere onestamente, di rispettare le leggi e di non dare ragioni di sospetti; di non associarsi a persone che abbiano subito condanne e siano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza; di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora, senza comprovata necessità e, comunque, dopo averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza; di non detenere e non portare armi; di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni. Il tribunale può inoltre imporre tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale, ed, in particolare, il divieto di soggiorno in uno o più comuni.
41. L’articolo 6 prevede che se la proposta riguarda la misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, il presidente del tribunale, con decreto, nella pendenza del procedimento, può disporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente. Nel caso in cui sussistano motivi di particolare gravità, può altresì disporre che alla persona denunciata sia imposto, in via provvisoria, l’obbligo o il divieto di soggiorno fino a quando non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione.
42. A norma dell’articolo 9 la violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punita con una pena detentiva.
B. La giurisprudenza della Corte costituzionale
43. La Legge n. 1423/1956 prevedeva inizialmente la possibilità di applicare misure di prevenzione nei confronti delle persone soltanto in alcuni casi di “ordinaria pericolosità” – in altre parole, quando era accertato che la persona costituiva un pericolo per la sicurezza pubblica.
Il suo campo di applicazione è stato successivamente ampliato per comprendere altre situazioni di “particolare pericolosità”, nozione applicabile agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso (Legge n. 575/1965) o dediti ad attività eversive (Legge n. 152/1975, introdotte per rispondere all’emergenza del terrorismo di estrema sinistra o di estrema destra durante gli “anni di piombo”. Le categorie di “ordinaria pericolosità” sono state modificate e ridotte a tre dalla Legge n. 327/1988.
44. La Corte costituzionale ha ritenuto in diverse occasioni che le misure di prevenzione previste dalla Legge n. 1423/1956 fossero compatibili con le libertà fondamentali.
45. Con sentenza n. 2 del 1956 ritenne:
“Resta da considerare l’art. 16 della Costituzione: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”.
(…)
Più delicato è il punto se ai “motivi di sanità e di sicurezza”, indicati nell’art. 16, possano ricondursi anche i motivi di “ordine, sicurezza pubblica e pubblica moralità” indicati nell’art. 157 della legge di p.s.
(…)
Esclusa l’interpretazione, inammissibilmente angusta, che la “sicurezza” riguardi solo l’incolumità fisica, sembra razionale e conforme allo spirito della Costituzione dare alla parola “sicurezza” il significato di situazione nella quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza. Sicurezza si ha quando il cittadino può svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica e morale; è “l’ordinato vivere civile” , che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico.
Ciò posto, non è dubbio che le “persone pericolose per l’ordine e la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità” (art. 157 legge p.s.) costituiscano una minaccia alla “sicurezza” indicata, e così intesa, nell’art. 16 della Costituzione.
Per quanto si riferisce alla moralità, non dovrà certo tenersi conto delle convinzioni intime del cittadino di per sé stesse incoercibili, né delle teorie in materia di morale, la cui, manifestazione, come ogni altra del pensiero, é libera o disciplinata da altre norme di legge. Ma i cittadini hanno diritto di non essere turbati ed offesi da manifestazioni immorali, quando queste risultino pregiudizievoli anche alla sanità, indicata nell’art. 16 della Costituzione, o creino situazioni ambientali favorevoli allo sviluppo della delinquenza comune.
Per quanto si riferisce all’ordine pubblico, senza entrare in una disputa teorica sulla definizione di tale concetto, basta precisare che agli effetti dell’art. 16 della Costituzione e dell’art. 157 legge di p.s. la pericolosità in riguardo all’ordine pubblico non può consistere in semplici manifestazioni di natura sociale o politica, le quali trovano disciplina in altre norme di legge, bensì in manifestazioni esteriori di insofferenza o di ribellione ai precetti legislativi ed ai legittimi ordini della pubblica Autorità, manifestazioni che possono facilmente dar luogo a stati di allarme e a violenze, indubbiamente minacciose per la “sicurezza” della generalità dei cittadini, i quali finirebbero col vedere, essi, limitata la propria libertà di circolazione.
Riassumendo, nel testo dell’art. 16 della Costituzione la parola “motivi (di sanità o di sicurezza)” va intesa nel senso di fatti che costituiscano un pericolo per la sicurezza dei cittadini, quale è stata più sopra definita.
Questa conclusione è anche accolta dalla pressoché costante giurisprudenza della Corte di Cassazione e da larga ed autorevole dottrina. Si è osservato, infatti, che la formula generica dell’art. 16 riguarda un’infinità di casi difficilmente prevedibili, che ben possono essere compresi nella sintetica dizione “motivi di sanità o di sicurezza” , e che la finalità della norma costituzionale è di conciliare l’esigenza di non lasciar liberi di circolare indisturbati soggetti socialmente pericolosi e l’esigenza di impedire un generico e incontrollato potere della Polizia.
46. Con sentenza n. 27 del 1959 la Corte costituzionale ha ritenuto che, nonostante le restrizioni delle libertà fondamentali che comportavano, le misure di prevenzione soddisfacevano il requisito legittimo previsto dalla Costituzione di assicurare “l’ordinato e pacifico svolgimento di rapporti fra i cittadini che deve essere garantito, oltre che dal sistema di norme repressive dei fatti illeciti, anche da un parallelo sistema di adeguate misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi nell’avvenire”. Ha aggiunto che tali misure erano necessarie e proporzionate allo scopo perseguito, in quanto le categorie delle persone interessate erano sufficientemente ristrette e specifiche. Conseguentemente, ha concluso che le misure erano compatibili con il principio di legalità di cui agli articoli 13 e 16 della Costituzione in caso di restrizioni dei diritti relativi alla libertà personale.
47. Con sentenza n. 45 del 1960 la Corte costituzionale ha ritenuto che la Costituzione permettesse alle autorità amministrative di adottare misure che limitavano la libertà di circolazione, come per esempio “il foglio di via obbligatorio”, come previsto dalla Legge n. 1423/1956. Ha inoltre precisato che le misure restrittive della libertà personale dovevano essere disposte soltanto da un magistrato.
48. Con sentenza n. 126 del 1962, ribadendo la sua precedente definizione di “moralità pubblica”, la Corte costituzionale ha rilevato che tale concetto costituiva un aspetto della sicurezza pubblica, un motivo per il quale poteva essere limitata la libertà di circolazione dei cittadini, a norma dell’articolo 16 della Costituzione.
49. Con sentenza n. 23 del 1964 la Corte costituzionale ha ritenuto che le misure di prevenzione non violassero il principio di legalità né la presunzione di innocenza. In particolare, ha osservato che il principio di legalità, sancito nella Costituzione sia in relazione alle restrizioni della libertà personale (articolo 13) che ai reati e alle misure di sicurezza (articolo 25), era applicabile alle misure di prevenzione. Tuttavia, il rispetto di tale principio doveva essere riesaminato in conformità a criteri speciali che tenessero conto della natura e delle finalità delle misure in questione. I loro obiettivi di prevenzione comportavano che esse non fossero disposte sulla base di una specifica constatazione della commissione di un determinato atto, ma piuttosto sulla base di un insieme di condotte indicative di un pericolo per la società.
50. La Corte costituzionale ha ritenuto che, conseguentemente, quando ha determinato le diverse categorie di persone interessate, il legislatore ha dovuto utilizzare criteri diversi da quelli impiegati per definire gli elementi costitutivi di un reato (e avrebbe anche potuto ricorrere a elementi presuntivi); i criteri applicati dovevano corrispondere a tipi di comportamento oggettivamente individuabili. L’approccio da adottare nel definire le misure di prevenzione era diverso, ma non meno rigoroso, dell’approccio per definire i reati e le pene. La Corte costituzionale ha tuttavia concluso che la Legge conteneva una descrizione sufficientemente precisa dei tipi di comportamento che si riteneva rappresentassero un “pericolo per la società” in caso di “oziosi, e i vagabondi abituali inabili al lavoro” e altre categorie di individui.
51. In seguito, in ordine al principio della presunzione di innocenza, la Corte costituzionale ha ritenuto, in primo luogo, che tale principio non si applicasse, in quanto le misure di prevenzione non erano basate sulla colpevolezza e non incidevano sulla responsabilità penale della persona. Le misure non costituivano nemmeno un discostamento da tale principio, dato che una sentenza di assoluzione per insufficienza di prove non avrebbe mai potuto giustificare la conclusione che una persona rappresentava un pericolo per la società, dal momento che dovevano essere presenti altre indicazioni fattuali della pericolosità.
52. Con sentenza n. 32 del 1969 la Corte costituzionale ha sottolineato che la mera appartenenza a una delle categorie di persone elencate dalla Legge non era un motivo sufficiente per applicare una misura di prevenzione. Al contrario, era necessario accertare l’esistenza di una specifica condotta che indicasse che l’interessato rappresentava un pericolo reale e non meramente potenziale.
53. La Corte costituzionale ha riscontrato la violazione della Costituzione soltanto in tre occasioni in ragione di alcuni aspetti procedurali o sostanziali del regime previsto per l’applicazione delle misure.
54. Con sentenza n. 76 del 1970 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della Legge n. 1423/1956 in quanto non prevedeva la presenza obbligatoria di un difensore nel corso del procedimento per l’applicazione delle misure.
55. Con sentenza n. 177 del 1980 the Corte costituzionale ha ritenuto che una delle categorie di persone previste dall’articolo 1 della Legge del 1956 in vigore all’epoca, ovvero coloro “che per le manifestazioni cui hanno dato luogo diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere”, non fosse definita in modo sufficientemente particolareggiato dalla legge e ciò non permetteva di prevedere chi sarebbe stato oggetto delle misure di prevenzione o in quali circostanze, dato che era lasciata eccessiva discrezionalità alle autorità. La Corte costituzionale ha inoltre concluso che vi era stata una violazione del principio di legalità, che era applicabile in relazione alle misure di prevenzione ai sensi dell’articolo 13 (libertà personale) e dell’articolo 25 (misure di sicurezza).
Riassumendo il suo intero corpus giurisprudenziale in materia, la Corte costituzionale ha ritenuto che:
“(3) La tematica delle misure di prevenzione ed i relativi problemi sono stati posti all’attenzione di questa Corte sin dall’inizio della sua attività.
Già con la sentenza n. 2 del 1956, la Corte ebbe ad annunciare alcuni importanti principi, quali l’obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per l’applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti specifici.
Con la successiva sentenza n. 11 del medesimo anno 1956, la Corte affermò che < Il grave problema di assicurare il contemperamento tra le due fondamentali esigenze di non frapporre ostacoli all’attività di prevenzione dei reati e di garantire il rispetto degli inviolabili diritti della personalità umana, appare… risoluto attraverso il riconoscimento dei tradizionali diritti di habeas corpus nell’ambito del principio di stretta legalità >. < Correlativamente >, prosegue la Corte nella citata sentenza, < in nessun caso l’uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell’autorità giudiziaria che ne dia le ragioni >.
La legittimità costituzionale di < un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti >, a garanzia < dell’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti, fra i cittadini > è sempre stata ribadita dalle successive sentenze della Corte (sentenze: n. 27 del 1959; n. 45 del 1960; n. 126 del 1962; n. 23 e n. 68 del 1964; n. 32 del 1969 e n. 76 del 1970) con riferimento agli artt. 13,16,17 e 25, terzo comma, Cost.; ora sottolineando ora attenuando il parallelismo con le misure di sicurezza (di cui appunto all’art. 25, terzo comma, Cost.) e perciò, ora richiamando l’identità del fine di prevenzione di reati perseguito da entrambe le misure che hanno per oggetto la pericolosità sociale del soggetto, ora marcando, invece, le differenze che si vogliono intercorrenti tra di esse.
Soprattutto occorre qui ricordare, non tanto l’inciso contenuto nella sentenza n. 27 del 1959, che definisce < ristrette e qualificate > le < categorie di individui cui la sorveglianza speciale può essere applicata (art. 1 della legge) > (n. 1423 del 1956), quanto la sentenza n. 23 del 1964 di questa Corte, che ha dichiarato non fondata < la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, in riferimento agli artt. 13,25 e 27 Cost. >. Nella parte motiva di questa sentenza si legge che < nella descrizione delle fatti specie (di prevenzione) il legislatore debba normalmente procedere con diversi criteri da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, pero, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili.
Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione rispetto alla previsione dei reati e dalla irrogazione delle pene >. Con riferimento specifico ai numeri 2,3 e 4 dell’art. 1 della legge n. 1423 del 1956, la Corte ha escluso che < le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti >, richiedendosi, invece, < una oggettiva valutazione di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione >.
4) In coerenza con le precedenti decisioni di questa Corte, va ribadito che la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione in quanto limitative, a diversi gradi di intensità, della libertà personale è necessariamente subordinata all’osservanza del principio di legalità e alla esistenza della garanzia giurisdizionale (sent. n. 11 del 1956). Si tratta di due requisiti ugualmente essenziali ed intimamente connessi, perché la mancanza dell’uno vanifica l’altro, rendendolo meramente illusorio.
Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai < casi previsti dalla legge >, lo si ancori all’art. 13 ovvero all’art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in < fattispecie di pericolosità >, previste descritte dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata.
Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l’accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l’altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto < previsti dalla legge > e, perciò, passibili di accertamento giudiziale.
L’intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve) nel procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l’accertamento di fattispecie legali predeterminate.
Si può, infine, ricordare che l’applicazione delle misure di sicurezza personali, finalizzate anche esse a prevenire la commissione di (ulteriori) reati (e che non sempre presuppongono la commissione di un precedente reato; art. 49, secondo e quarto comma e art. 115, secondo e quarto comma del codice penale), talché possono considerarsi una delle due species di un unico genus, è vincolata all’accertamento delle fattispecie legali dal quale dipende il giudizio di pericolosità, sia tale pericolosità presunta o da accertare in concreto.
5) L’accento, anche per le misure di prevenzione, cade dunque sul sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa dei presupposti di fatto dal cui accertamento dedurre il giudizio, prognostico, sulla pericolosità sociale del soggetto.
Le questioni decidende esigono che questa Corte verifichi la sufficienza nel senso anzidetto degli < indici di pericolosità sociale >, per usare la terminologia corrente in letteratura, descritti nelle disposizioni di legge denunziate.
Al proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni.
Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire.
Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l’applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.
6) Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, deve dichiararsi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, n. 3 ultima ipotesi, della legge n. 1423 del 1956.
La disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1), non descrive, infatti, né una o più condotte, né alcuna < manifestazione > cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali < manifestazioni > vengano in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico ministero ed alla autorità di polizia proponenti e segnalanti) già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell’accertamento. I presupposti del giudizio di < proclività a delinquere > non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei < casi > (come vogliono sia l’art. 13, che l’art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità.
Né per la ricostruzione della fattispecie può sovvenire il riferimento al o ai reati della cui prevenzione si tratterebbe. La espressione < proclivi a delinquere > usata dal legislatore del 1956 sembrerebbe richiamare l’istituto della < tendenza a delinquere > di cui all’art. 108 del codice penale, ma l’accosta mento sul piano sostanziale non regge, posto che la dichiarazione prevista da quest’ultima norma presuppone l’avvenuto accertamento di un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale e dei motivi a delinquere, tali da far emergere una speciale inclinazione al delitto; e l’indole particolarmente malvagia del colpevole.
Nel caso in esame la < proclività a delinquere > deve, invece, essere intesa come sinonimo di pericolosità sociale, con la conseguenza che l’intera disposizione normativa, consentendo l’adozione di misure restrittive della libertà personale senza l’individuazione né dei presupposti né dei fini specifici che le giustificano, si deve dichiarare costituzionalmente illegittima.
56. Con sentenza n. 93 del 2010, invocando l’articolo 6 della Convenzione e la sentenza Bocellari e Rizza c. Italia (n. 399/02, 13 novembre 2007), in cui la Corte europea ha riscontrato la violazione dell’articolo 6 in relazione al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione reali ai sensi della Legge del 1956, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della Legge n. 1423/1956, in quanto non offriva all’interessato la possibilità di chiedere che il procedimento per l’applicazione delle misure si svolgesse in pubblica udienza, sia in primo grado che in appello. Tuttavia, con sentenza n. 80 del 2011, la Corte costituzionale ha chiarito che non era necessario prevedere la possibilità di chiedere una pubblica udienza dinanzi alla Corte di cassazione.
57. Con sentenza n. 282 del 2010 la Corte costituzionale è stata chiamata a determinare se l’articolo 9 comma 2 della Legge 27 dicembre 1956 n. 1423 fosse compatibile con l’articolo 25 comma 2 della Costituzione nella misura in cui prevedeva sanzioni penali in caso di inosservanza del requisito previsto all’articolo 5 comma 3, prima parte, della stessa Legge n. 1423/1956, ovvero “di vivere onestamente, rispettare le leggi, non dare ragione alcuna ai sospetti”, e se violasse o meno il principio secondo il quale la situazione in cui sono applicabili disposizioni di diritto penale deve essere definita esaustivamente dalla legge (principio di tassatività).
58. Secondo il tribunale che aveva deferito la questione alla Corte costituzionale, l’obbligo di vivere onestamente, di rispettare le leggi e di non dare ragione ai sospetti, benché compreso nelle condizioni imposte alla persona sottoposta a sorveglianza speciale, costituiva un obbligo di carattere generale applicabile all’intera comunità, e non specificamente alla persona interessata. Conseguentemente, il tribunale che ha rinviato la causa ha sostenuto che proprio per la sua portata generale, l’obbligo in questione non poteva costituire una condizione, con contenuto prescrittivo, tipico e specifico, della misura della sorveglianza speciale, in quanto non era possibile determinare con precisione quale condotta potesse dare luogo al reato di violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, data la natura vaga e indeterminata degli elementi utilizzati per caratterizzare tale reato.
59. Secondo la Corte costituzionale, l’inserimento nella descrizione del reato in questione di espressioni sommarie, parole che hanno più significati, clausole generali o concetti elastici, non ha comportato la violazione dell’articolo 25 comma 2 della Costituzione, nella misura in cui la descrizione complessiva dell’atto asseritamente commesso ha tuttavia consentito al tribunale – vista la finalità perseguita dalla pertinente disposizione penale e il più ampio contesto normativo in cui doveva essere esaminata – di stabilire il significato di tale elemento per mezzo di un processo interpretativo che non eccedeva il suo compito ordinario: in altre parole, nella misura in cui tale descrizione ha permesso di esprimere un giudizio in merito alla corrispondenza tra le circostanze concrete e la definizione astratta del reato, corroborata da una base ermeneutica verificabile, e, corrispondentemente, consentito alla persona cui si applicava la disposizione di avere una percezione sufficientemente chiara e immediata del suo relativo valore prescrittivo. In tale contesto, l’obbligo di “vivere onestamente”, valutato indipendentemente, è apparso di per sé generico e in grado di assumere molteplici significati. Tuttavia, se era esaminato nell’ambito di tutti gli altri requisiti previsti all’articolo 5 della Legge n. 1423/1956, il suo contenuto è diventato più chiaro, e comporta per l’interessato il dovere di adeguare la propria condotta a uno stile di vita che rispetta tutti i summenzionati obblighi, con il risultato che la formulazione “vivere onestamente” è diventata più concreta e orientata verso l’individuo.
60. La Corte costituzionale ha inoltre rilevato che l’obbligo di “rispettare le leggi” rinviava al dovere dell’interessato di rispettare tutte le regole prescrittive che gli chiedevano di comportarsi, o di non comportarsi, in un particolare modo; non solo le leggi penali, quindi, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sarebbe stata un ulteriore indizio del pericolo rappresentato dalla persona per la società, già accertato.
61. In ultimo, in ordine all’obbligo di “non dare ragione alcuna ai sospetti”, la Corte costituzionale ha rilevato che anche questo non doveva essere esaminato indipendentemente ma nel contesto degli altri obblighi esposti all’articolo 5 della Legge n. 1423/1956, quali l’obbligo che aveva la persona sottoposta a sorveglianza speciale di non frequentare alcuni luoghi e di non associarsi con alcune persone.
C. La giurisprudenza della Corte di cassazione
62. Con sentenza n. 10281 del 25 ottobre 2007 le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno osservato che il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione nei confronti di una determinata persona era l’accertamento che la persona costituiva un “attuale pericolo”, che non era necessariamente legato alla commissione di un reato, anche se questo poteva essere un fattore rilevante. Ciò che era importante, secondo la Corte di cassazione, era l’esistenza di una situazione complessa di una certa durata che indicava che lo stile di vita di una persona sollevava problemi in termini di sicurezza pubblica. La valutazione della “attualità del pericolo” era quindi “riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato”.
63. Con sentenza n. 23641 del 2014 la Corte di cassazione ha ritenuto che la valutazione della pericolosità ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione non comportasse la mera valutazione del pericolo soggettivo, ma corrispondesse alla valutazione dei “fatti” che potevano essere esaminati in una prospettiva storica ed erano essi stessi “indicatori” del fatto che l’interessato poteva essere compreso in una delle categorie criminologiche definite dalla legge.
Conseguentemente, secondo la Corte di cassazione, la persona “che era valutata in un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione” non era giudicata “colpevole” o “non colpevole” di un determinato reato, ma era considerata “pericolosa” o “non pericolosa” alla luce della sua precedente condotta (accertata sulla base di varie fonti informative), che era considerata un “indicatore” della possibilità di una futura condotta suscettibile di turbare l’ordine sociale o economico; tale valutazione doveva essere effettuata sulla base di precise disposizioni di legge che “categorizzavano” le varie forme di pericolosità.
64. La Corte di cassazione ha ritenuto che rientrare in una delle categorie stabilite in tal modo fosse una condizione preliminare, ma non fosse di per sé sufficiente, per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, in quanto le categorie in questione rappresentavano indicatori del pericolo rappresentato dalla persona per la società, come emerso chiaramente dall’articolo 1 comma 3 della Legge delega 13 agosto 2010 n. 136, in base alla quale è stato introdotto il Decreto legislativo n. 159/2011.
D. Il decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159
65. Il nuovo “codice anti-mafia”, che unifica la legislazione in materia di azioni di contrasto alla mafia e misure di prevenzione personali e reali, è entrato in vigore nel settembre 2011. Ha abrogato la Legge n. 1423/1956, ma non ha modificato le categorie di persone interessate. Tra le misure applicabili, l’unica abolita dalla nuova legislazione è l’obbligo di non trattenersi nelle osterie e nelle bettole o nelle “sale giochi” ovvero in luoghi ove si esercita il meretricio.
In ordine alla procedura per l’applicazione delle misure di prevenzione, l’articolo 7 del Decreto legislativo prevede che, su richiesta dell’interessato, si può svolgere una pubblica udienza.
66. Infine, nel febbraio 2015 il Governo italiano ha adottato il Decreto legislativo n. 7, divenuto successivamente la Legge 17 aprile 2015 n. 43, contenente misure urgenti di contrasto al terrorismo internazionale. Conseguentemente, sono stati inseriti nel Codice penale nuovi reati terroristici, segnatamente quello relativo ai viaggi a fini terroristici dei combattenti stranieri. È stata inoltre ampliata la portata delle misure di prevenzione personali (e reali) ed è stata introdotta una nuova misura che prevede la confisca di passaporti e carte d’identità.
E. La Legge 13 aprile 1988 n. 117 sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati
67. L’articolo 1 comma 1 della Legge n. 117/1988 prevede che la Legge si applichi “a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria”.
L’articolo 2 della Legge prevede:
- “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento , di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli che derivino da privazione della libertà personale.
- Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto o delle prove.
- Costituiscono colpa grave:
- la grave violazione di legge determinata da negligenza trascurabile;
- l’affermazione, determinate da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
- la negazione, determinate da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
- l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.”
La prima fase dell’articolo 3 comma 1 della Legge n. 117/1988 dichiara che costituisce diniego di giustizia “il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motive, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria”.
68. Le successive disposizioni della Legge n.117/1988 stabiliscono le condizioni e la procedura per presentare un’azione di risarcimento ai sensi degli articoli 2 o 3 della Legge, e specificano anche le azioni che possono essere proposte retroattivamente nei confronti di un magistrato colpevole di dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, o di un diniego di giustizia.
IV. IL MATERIALE DI DIRITTO COMPARATO
69. Secondo informazioni disponibili alla Corte sulla legislazione di trentaquattro Stati membri, la grande maggioranza dei paesi esaminati (ventinove paesi su trentaquattro 1) non possiede misure paragonabili a quelle applicate in Italia nel caso di specie. Si possono trovare misure di questo tipo soltanto in cinque paesi (Austria, Francia, Regno Unito, Russia, e Svizzera).
70. L’Austria, la Francia e la Svizzera hanno adottato misure di questo tipo per trattare il fenomeno della violenza negli stadi: le misure di prevenzione sono utilizzate nei confronti delle persone potenzialmente violente nel corso di eventi sportivi. La Francia prevede anche altri tipi di misure (quali il divieto di partecipare a incontri, eventi o manifestazioni, o il ricovero ospedaliero obbligatorio) di competenza delle autorità amministrative. Nel Regno Unito misure analoghe sono state introdotte nel 2011 nell’ambito della prevenzione del terrorismo.
71. In Russia varie leggi prevedono misure di prevenzione in relazione a ex detenuti condannati per un grave reato, per recidiva o altri specifici tipi di reato, minori abbandonati, delinquenti minorenni, tossicodipendenti e alcolizzati che rappresentano un pericolo per gli altri, persone coinvolte in reati domestici, persone che violano l’ordine pubblico nel corso di manifestazioni pubbliche, persone che fanno parte di organizzazioni giovanili non ufficiali che svolgono attività illegali e persone coinvolte nello spaccio di stupefacenti o nella consumazione illegale di stupefacenti.
72. Per quanto riguarda la legislazione europea, la Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e delle loro famiglie di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri prevede che gli Stati possano limitare tale libertà di circolazione e di soggiorno per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica o salute pubblica (articolo 27). Tuttavia, l’espulsione per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza deve rispettare il principio di proporzionalità e basarsi esclusivamente sul comportamento personale della persona nei riguardi della quale essa è adottata, che deve rappresentare una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave da pregiudicare un interesse fondamentale della società . Per quanto riguarda la durata di tale misura, la direttiva precisa che dopo un ragionevole periodo – e, in ogni caso, dopo un periodo di tre anni a decorrere dall’esecuzione del provvedimento di esclusione – l’interessato deve essere in grado di presentare una domanda di revoca dell’ordine.
73. A livello di Consiglio d’Europa, in data 19 maggio 2015 il Comitato dei Ministri ha adottato il Protocollo addizionale alla Convenzione sulla prevenzione del terrorismo (STCE n. 217) ed esso è stato aperto alla firma a Riga il 22 ottobre 2015. Il Protocollo stabilisce l’obbligo per gli Stati di prevedere come reato il viaggio, o il tentativo di viaggio in uno Stato diverso dallo Stato di residenza o di cittadinanza allo scopo di perpetrare, programmare, preparare o partecipare ad atti terroristici, o fornire o ricevere addestramento al terrorismo, e di adottare le misure che possono essere necessarie per collaborare agli sforzi per impedire a chiunque di recarsi all’estero per unirsi ai terroristi.
IN DIRITTO
I. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 5 DELLA CONVENZIONE E DELL’ARTICOLO 2 DEL PROTOCOLLO N. 4
74. Il ricorrente ha lamentato l’arbitrarietà della misura di sorveglianza applicatagli, nonché l’eccessiva durata della stessa. Ha invocato l’articolo 5 della Convenzione e l’articolo 2 del Protocollo n. 4.
La parte pertinente dell’articolo 5 prevede:
- “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
- se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;
- se si trova in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o allo scopo di garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge;
- se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso;
- se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa allo scopo di sorvegliare la sua educazione oppure della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;
- se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;
- se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione.
L’articolo 2 del Protocollo n. 4 prevede:
- “Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolare liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza.
- Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il proprio.
- L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.
- I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica.”
75. Il Governo ha contestato tale argomento.
A. Sulla ricevibilità
1. Osservazioni delle parti
a) Il Governo
76. Il Governo ha sostenuto che l’articolo 5 della Convenzione non era applicabile al caso di specie. Ha sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza consolidata della Corte (rinviando alle cause Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, § 39, Serie A n. 281 A; Villa c. Italia, n. 19675/06, §§ 41-43, 20 aprile 2010; e Monno c. Italia (dec.), n. 18675/09, §§ 21-23, 8 ottobre 2013), gli obblighi derivanti dalle misure di prevenzione non costituivano una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione, ma meramente restrizioni della libertà di circolazione. Ha affermato che la doglianza era pertanto incompatibile con la Convenzione ratione materiae.
b) Il ricorrente
77. Il ricorrente ha sostenuto che la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza era compresa nell’ambito dell’articolo 5 della Convenzione e ha sottolineato che l’inosservanza delle norme di condotta associate a tale misura era punibile con una pena detentiva (articolo 9 della Legge del 1956). Le restrizioni impostegli nel periodo compreso tra il 4 luglio 2008 e il 4 febbraio 2009 lo avevano privato della libertà personale. Ha osservato che il caso di specie era paragonabile alla causa Guzzardi c. Italia (6 novembre 1980, Serie A n. 39), in cui la Corte ha concluso che in considerazione delle particolari circostanze della causa, il ricorrente – cui erano state applicate misure simili a quelle applicate al ricorrente del caso di specie – era stato privato della libertà e che vi era stata violazione dell’articolo 5.
78. Il ricorrente ha affermato che il fatto che non aveva potuto uscire di casa dalle ore 22.00 alle ore 6.00 costituiva una privazione della libertà simile agli arresti domiciliari.
2. La valutazione della Corte
79. La Corte deve determinare in primo luogo se l’articolo 5 della Convenzione sia applicabile nel caso di specie.
80. Ribadisce innanzitutto che nel proclamare il “diritto alla libertà”, il paragrafo 1 dell’articolo 5 contempla la libertà fisica di una persona. Conseguentemente, non riguarda mere restrizioni della libertà di circolazione, che sono disciplinate dall’articolo 2 del Protocollo n. 4. Per determinare se una persona è stata “privata della libertà” ai sensi dell’articolo 5, il punto di partenza deve essere la specifica situazione della stessa e si deve tener conto di una serie di fattori quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura in questione. La differenza tra la privazione della libertà e la restrizione della libertà riguarda il grado o l’intensità, e non il carattere o la sostanza (si vedano Guzzardi, sopra citata, §§ 92-93; Nada c. Svizzera [GC], n. 10593/08, § 225, CEDU 2012; Austin e altri c. Regno Unito [GC], nn. 39692/09, 40713/09 e 41008/09, § 57, CEDU 2012; Stanev c. Bulgaria [GC], n. 36760/06, § 115, CEDU 2012; e Medvedyev e altri c. Francia [GC], n. 3394/03, § 73, CEDU 2010). Inoltre, nella valutazione della natura delle misure di prevenzione previste dalla Legge del 1956 esse devono essere esaminate “cumulativamente e congiuntamente” (si veda Guzzardi, sopra citata, § 95).
81. Come la Corte ha già ritenuto, la necessità di tener conto del “tipo” e “delle modalità di attuazione” della misura in questione (ibid., § 92) le consente di tener conto dello specifico contesto delle circostanze che accompagnano tipi di restrizione diversi dal paradigma della reclusione in una cella. Infatti il contesto in cui è adottata la misura è un fattore importante, dal momento che nella società moderna si verificano comunemente situazioni in cui può essere richiesto alla collettività di tollerare restrizioni della libertà di circolazione o della libertà nell’interesse del bene comune (si veda, mutatis mutandis, Austin e altri, sopra citata, § 59).
82. Il corpus giurisprudenziale degli organi della Convenzione in materia di misure di prevenzione disposte nei confronti di singoli risale alla decisione della Commissione del 5 ottobre 1977 nella causa Guzzardi c. Italia (n. 7960/77, non pubblicata). In tale causa il ricorrente ha affermato che il decreto che lo obbligava a risiedere nella zona di Force equivaleva a una privazione della libertà. Rigettando la sua censura, la Commissione ha concluso che le condizioni di attuazione del decreto che disponeva l’obbligo di soggiorno nei suoi confronti, non comportavano alcuna privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione, ma unicamente restrizioni della sua libertà di circolazione e della libertà di scelta del luogo di residenza.
83. Successivamente, in una distinta causa proposta dallo stesso ricorrente, la Corte ha rinviato alla summenzionata decisione della Commissione per osservare che la sorveglianza speciale accompagnata da un decreto che disponeva l’obbligo di soggiorno in una specifica zona non era di per sé compresa nel campo di applicazione dell’articolo 5 (si veda Guzzardi, sentenza citata sopra, § 94). Ha tuttavia concluso che, alla luce delle particolari circostanze del caso di specie, il ricorrente era stato “privato della libertà” ai sensi dell’articolo 5, e poteva quindi invocare le garanzie previste da tale disposizione. Il ricorrente, che era sospettato di appartenenza a una “banda di mafiosi”, era stato costretto a vivere su un’isola all’interno di una zona (non recintata) di 2,5 km quadrati, principalmente insieme ad altre persone che si trovavano in una situazione analoga, e al personale di sorveglianza. L’obbligo di vivere su un’isola era accompagnato da altre restrizioni analoghe alle misure imposte al Sig. de Tommaso. La Corte ha attribuito particolare importanza alle dimensioni estremamente esigue della zona in cui era stato confinato il ricorrente, alla sorveglianza quasi permanente cui era stato sottoposto e al fatto che gli era stato quasi completamente impossibile avere rapporti sociali (ibid., § 95).
84. La Corte rileva che, successivamente alla causa Guzzardi, si è occupata di diverse cause (Raimondo, sopra citata, § 39; Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 193, CEDU 2000 IV; Vito Sante Santoro c. Italia, n. 36681/97, § 37, CEDU 2004 VI; si vedano altresì, mutatis mutandis, Villa, sopra citata, §§ 43-44, e Monno, sopra citata, §§ 22-23) in materia di sorveglianza speciale accompagnata da un provvedimento che disponeva l’obbligo di soggiorno e da altre restrizioni associate (non lasciare l’abitazione la notte, non allontanarsi dal luogo di residenza, non frequentare bar, discoteche, sale da gioco, luoghi ove si esercita il meretricio, o partecipare a riunioni pubbliche, non associarsi a persone con precedenti penali e che sono state sottoposte a misure di prevenzione). Dato che nessuna di tali cause riguardava circostanze speciali simili a quelle della causa Guzzardi, la Corte ha esaminato le misure di prevenzione in questione ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n.. 4.
85. La Corte osserva che nel caso di specie il ricorrente è stato sottoposto a misure simili a quelle che essa ha esaminato nelle cause citate sopra e che egli, a differenza di quanto avvenuto nella causa Guzzardi, non era stato costretto a vivere in una zona ristretta e non gli era stato precluso di avere rapporti sociali.
86. La Corte non può neanche accogliere il rilievo del ricorrente secondo il quale il fatto di non aver potuto lasciare il domicilio, tranne che in caso di necessità, dalle ore 22 alle ore 6 equivaleva agli arresti domiciliari e quindi alla privazione della libertà.
87. Ribadisce che gli arresti domiciliari sono considerati, dati il loro grado e la loro intensità (si veda Buzadji c. Repubblica di Moldavia [GC], n. 23755/07, § 104, CEDU 2016), una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione (si vedano N.C. c. Italia, n. 24952/94, § 33, 11 gennaio 2001; Nikolova c. Bulgaria (n. 2), n. 40896/98, §§ 60 e 74, 30 settembre 2004; Danov c. Bulgaria, n. 56796/00, §§ 61 e 80, 26 ottobre 2006; e Ninescu c. Repubblica di Moldavia, n. 47306/07, § 53, 15 luglio 2014). Osserva inoltre che, a norma della legislazione italiana, una persona sottoposta agli arresti domiciliari è considerata in stato di custodia cautelare (si vedano Ciobanu c. Romania e Italia, n. 4509/08, § 22, 9 luglio 2013, e Mancini c. Italia, n. 44955/98, § 17, CEDU 2001 IX).
88. La Corte osserva tuttavia che in tutte le cause che ha esaminato simili al caso di specie, i ricorrenti avevano l’obbligo di non uscire di casa durante la notte (si veda il paragrafo 84 supra), e ciò è stato considerato un’ingerenza nella libertà di circolazione. Non può riscontrare motivi sufficientemente rilevanti per modificare questo approccio, soprattutto perché sembra che nel caso di specie, visti gli effetti della sorveglianza speciale del ricorrente e le modalità della sua attuazione, non vi erano restrizioni alla sua libertà di uscire di casa durante il giorno ed egli poteva avere una vita sociale e mantenere i rapporti con il mondo esterno. La Corte rileva inoltre che nella documentazione di cui dispone non vi è alcuna indicazione dalla quale risulti che il ricorrente abbia mai chiesto alle autorità il permesso di allontanarsi dal luogo di residenza.
89. La Corte ritiene che gli obblighi imposti al ricorrente non costituissero una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione, ma meramente restrizioni della libertà di circolazione.
90. Ne consegue che la doglianza ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione è incompatibile con la Convenzione ratione materiae e deve essere rigettata in applicazione dell’articolo 35 §§ 3 lettera a) e 4.
91. Dato che l’articolo 5 non è applicabile, la doglianza del ricorrente deve essere esaminata ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 4, del quale le parti non hanno contestato l’applicabilità nel caso di specie.
92. La Corte osserva che la presente doglianza non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3, lettera a) della Convenzione e che non incorre in altri motivi di irricevibilità. La dichiara pertanto ricevibile.
B. Sul merito
1. Osservazioni delle parti
a) Il ricorrente
93. Il ricorrente ha sostenuto che la sorveglianza speciale e il provvedimento che disponeva l’obbligo di soggiorno costituivano una restrizione del suo diritto di cui all’articolo 2 del Protocollo n 4. Ha osservato in primo luogo che a decorrere dal 1956, approvando la Legge in questione, il Parlamento aveva conferito alla magistratura il potere di determinare quali elementi fattuali fossero sintomatici della pericolosità di un individuo. Ha ammesso che le sentenze della Corte costituzionale avevano stabilito criteri rigorosi per imporre tali misure e stabilire la pericolosità di una persona, ma ha sostenuto che la magistratura aveva “una discrezionalità insindacabile” per pervenire a tale constatazione, sulla base di elementi fattuali che non erano stati definiti dalla Legge e non erano quindi prevedibili per i cittadini.
94. Il ricorrente ha sottolineato anche il carattere vago delle misure impostegli, per esempio l’obbligo di vivere onestamente e non dare ragione alcuna ai sospetti in ordine alla propria condotta. Ha aggiunto che poteva essere inflitta una pena detentiva a chiunque violasse o ignorasse tali obblighi.
95. Ha sostenuto che la misura in questione gli era stata inflitta per un caso di errore di identità, come riconosciuto dalla Corte di appello nella sua sentenza. La Corte di appello aveva ritenuto la misura illegittima ab origine constatando che non era necessaria in assenza di qualsiasi pericolo per la società.
96. Il ricorrente ha inoltre sostenuto che, nonostante l’esito favorevole del procedimento, era stato sottoposto a sorveglianza speciale per 221 giorni. È un periodo eccessivamente lungo ed è stata la conseguenza dell’inosservanza da parte della Corte di appello di Bari del termine di trenta giorni per emettere la sua decisione. In conclusione, ha sostenuto che non si trattava di un problema connesso alla durata dei procedimenti.
b) Il Governo
97. Il Governo ha dichiarato che le misure di prevenzione erano soggette a due garanzie: dovevano essere prevedibili ed essere imposte a seguito di un procedimento giudiziario. La procedura si basava su fattori oggettivi che dimostravano che la persona rappresentava un pericolo per la società e che giustificavano la necessità di applicare tali misure per prevenire ed evitare la commissione di reati.
98. In ordine alla legittimità della misura, il Governo ha rinviato in particolare ai motivi indicati dalla Corte di cassazione nella sua sentenza n. 23641 del 2014 (si veda il paragrafo 63 supra).
99. Ha sottolineato che le misure di prevenzione erano state riesaminate dalla Corte costituzionale, che aveva evidenziato in più occasioni la necessità di una disposizione di legge basata su circostanze oggettive, l’esclusione di un semplice sospetto quale base per tali misure, e l’equilibrio che doveva essere trovato tra il rispetto dei diritti individuali e le esigenze di proteggere la società.
100. Ha informato la Corte che nel 2011 era entrato in vigore il nuovo “Codice anti-mafia”, che unificava la legislazione in materia di azioni e misure di prevenzione anti-mafia relative personali e reali, e che abrogava la Legge n. 1423/1956. Il registro contenente informazioni sulle misure di prevenzione era segreto ed era tenuto dai tribunali.
101. Il Governo ha inoltre sottolineato che i tribunali interni avevano ritenuto che soltanto la violazione sostanziale di una misura di prevenzione potesse dare luogo all’applicazione dell’articolo 9 della Legge in questione, e quindi a una pena detentiva.
102. Il Governo ha aggiunto che l’ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione era conforme alla legge, perseguiva un fine legittimo – vale a dire la conservazione degli interessi pubblici di cui al paragrafo 3 dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 – ed era proporzionata. Secondo la giurisprudenza nazionale, l’inosservanza da parte della Corte di appello del termine di legge (di trenta giorni) non turbava automaticamente il giusto equilibrio richiesto (ha rinviato alla causa Monno, sopra citata, § 27). Inoltre, a norma dell’articolo 3 della Legge n. 117/1988 (si veda il paragrafo 67 supra), una volta scaduto il termine di legge per adottare la misura in questione, il ricorrente avrebbe potuto chiedere alla Corte di appello di pronunciarsi sulla sua domanda e avrebbe potuto promuovere successivamente un’azione risarcitoria.
103. Il Governo ha sostenuto che il ricorrente aveva potuto presentare prove e anche partecipare alle udienze e formulare osservazioni, che erano state successivamente versate nel fascicolo. La Corte di appello di Bari non aveva riconosciuto che vi era stato un errore di identità, ma aveva semplicemente rivalutato tutte le prove su cui si era basata la decisione del Tribunale, concludendo che il ricorrente non costituiva un pericolo per la società. Il Governo ha sostenuto che il ricorrente aveva avuto accesso a un ricorso e lo aveva esperito con successo. Conseguentemente, il giusto equilibrio richiesto non era stato sconvolto.
2. La valutazione della Corte
a) Sulla questione di sapere se via stata un’ingerenza
104. La Corte ribadisce che l’articolo 2 del Protocollo n. 4 garantisce a ogni persona il diritto alla libertà di circolazione all’interno di un dato territorio, nonché il diritto di lasciare tale territorio, che comporta il diritto di recarsi nel paese scelto dalla persona, nel quale la stessa può fare ingresso (si vedano Khlyustov c. Russia, n. 28975/05, § 64, 11 luglio 2013, e Baumann c. Francia, n. 33592/96, § 61, CEDU 2001-V). Secondo la giurisprudenza della Corte, qualsiasi misura restrittiva del diritto alla libertà di circolazione deve essere prevista dalla legge, perseguire uno dei fini legittimi di cui al terzo comma dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 e trovare un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico e i diritti della persona (si vedano Battista c. Italia, n. 43978/09, § 37, CEDU 2014; Khlyustov, sopra citata, § 64; Raimondo, sopra citata, § 39; e Labita, sopra citata, §§ 194-195).
105. Nel caso di specie la Corte ha rilevato che le restrizioni imposte al ricorrente sono comprese nel campo di applicazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 (si veda il paragrafo 91 supra). Essa deve pertanto determinare se l’ingerenza fosse prevista dalla legge, perseguisse uno o più fini legittimi di cui al terzo comma di tale articolo e fosse necessaria in una società democratica.
b) Sulla questione di sapere se l’ingerenza fosse “prevista dalla legge”
i) Principi generali
106. La Corte ribadisce la sua giurisprudenza costante, secondo la quale l’espressione “prevista dalla legge” esige non solo che la misura contestata abbia qualche base nel diritto interno, ma si riferisce anche alla qualità della legge in questione, esigendo che debba essere accessibile alle persone interessate e che i suoi effetti debbano essere prevedibili (si vedano Khlyustov, sopra citata, § 68; X c. Lettonia [GC], n. 27853/09, § 58, CEDU 2013; Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09, § 140, CEDU 2012; Rotaru c. Romania [GC], n. 28341/95, § 52, CEDU 2000-V; e Maestri c. Italia [GC], n. 39748/98, § 30, CEDU 2004-I).
107. Uno dei requisiti derivanti dall’espressione “prevista dalla legge” è la prevedibilità. Pertanto, una norma non può essere considerata una “legge” se non è formulata con sufficiente precisione in modo da consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado – se necessario, mediante appropriata consulenza – di prevedere, a un livello ragionevole nelle specifiche circostanze, le conseguenze che un determinato atto può comportare. Tali conseguenze non devono essere prevedibili con assoluta certezza: l’esperienza dimostra che ciò è irrealizzabile. Ancora una volta, mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico un’eccessiva rigidità, e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze. Di conseguenza, molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica (si vedano Sunday Times c. Regno Unito (n. 1), 26 aprile 1979, § 49, Serie A n. 30; Kokkinakis c. Grecia 25 maggio 1993, § 40, Serie A n. 260-A; Rekvényi c. Ungheria [GC], n. 25390/94, § 34, CEDU 1999-III; e Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, sopra citata, § 141).
108. Il livello di precisione della legislazione nazionale richiesto – che non può in ogni caso prevedere ogni eventualità – dipende in larga misura dal contenuto della legge in questione, dal campo che essa è finalizzata a contemplare e dal numero e dalla qualità di coloro cui è destinata (si vedano RTBF c. Belgio, n. 50084/06, § 104, CEDU 2011; Rekvényi, sopra citata, § 34; Vogt c. Germania, 26 settembre 1995, § 48, Serie A n. 323; e Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, sopra citata, § 142). Spetta inoltre in primo luogo alle autorità nazionali interpretare e applicare il diritto interno (si veda Khlyustov, sopra citata, §§ 68-69).
109. La Corte ribadisce che una norma è “prevedibile” quando offre una misura di protezione contro le ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche (si vedano Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano, sopra citata, § 143, e Khlyustov, sopra citata, § 70). Una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità, benché le particolareggiate procedure e condizioni da osservare non debbano essere necessariamente comprese nelle norme del diritto sostanziale (si vedano Khlyustov, sopra citata, § 70, e Silver e altri c. Regno Unito, 25 marzo 1983, § 88, Serie A n. 61).
ii) Applicazione dei summenzionati principi nel caso di specie
110. La Corte osserva, nella fattispecie, che la Legge n. 1423/1956, come interpretata alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, ha costituito la base giuridica delle singole misure di prevenzione applicate al ricorrente. Conclude pertanto che le misure di prevenzione in questione avevano una base giuridica nel diritto interno.
111. La Corte deve quindi verificare se la Legge fosse accessibile e se i suoi effetti fossero prevedibili. Tale fattore è particolarmente importante in un caso quale quello di specie, in cui la legislazione in questione ha avuto conseguenze molto significative sul ricorrente e sul suo diritto alla libertà di circolazione.
112. La Corte ritiene, in primo luogo, che la Legge n. 1423/1956 soddisfacesse il requisito dell’accessibilità; e ciò effettivamente non è stato contestato dal ricorrente.
113. La Corte deve successivamente determinare se gli effetti della Legge fossero prevedibili. A tal fine, esaminerà in primo luogo la categoria di soggetti cui erano applicabili le misure di prevenzione, e successivamente il loro contenuto.
114. La Corte rileva che a tutt’oggi, deve ancora svolgere un esame dettagliato della prevedibilità della Legge n. 1423/1956. Osserva, tuttavia, che nella causa Labita (sopra citata, § 194) ha constatato che le misure di prevenzione si basavano sulle Leggi nn. 1423/1956, 575/1965, 327/1988 e 55/1990 ed erano quindi “previste dalla legge” ai sensi del terzo comma dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. Nella causa Monno (sopra citata, § 26) la Legge in questione è stata esaminata alla luce della decisione della Corte di appello, che ha riconosciuto che vi era stato un vizio procedurale nel procedimento di primo grado. Secondo la Corte, il mero fatto che la decisione del Tribunale fosse stata successivamente annullata non aveva in quanto tale inciso sulla legittimità delle ingerenze nel periodo precedente. Al contrario, nelle cause Raimondo e Vito Sante Santoro (entrambe citate sopra), la Corte ha rilevato che l’ingerenza nella libertà di circolazione dei ricorrenti non era né “prevista dalla legge”, né “necessaria” a causa del ritardo con cui era stata notificata la decisione di revoca della sorveglianza speciale (si veda Raimondo, sopra citata, § 40) e, a causa dell’illegittima proroga della sorveglianza speciale per un periodo di due mesi e ventidue giorni senza alcun risarcimento del danno subito (si veda Vito Sante Santoro, sopra citata, § 45).
115. Nel caso di specie il ricorrente ha lamentato in particolare l’imprecisione e l’imprevedibilità della Legge n. 1423/1956. Conseguentemente, la Corte è chiamata a esaminare se la legge fosse prevedibile in relazione alle persone cui erano applicabili le misure di prevenzione (articolo 1 della Legge del 1956), alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale.
116 . A tale riguardo, la Corte rileva che la Corte costituzionale italiana ha annullato la legge nei confronti di una categoria di persone che ha ritenuto non fossero definite in maniera sufficientemente dettagliato, ovvero coloro “che per le manifestazioni cui hanno dato luogo diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere”(si veda la sentenza n. 177 del 1980, paragrafo 55 supra). La disposizione pertinente non era più in vigore all’epoca in cui sono state applicate al ricorrente le misure contestate. Per quanto riguarda tutte le altre categorie di soggetti cui sono applicabili le misure di prevenzione, la Corte costituzionale è pervenuta alla conclusione che la Legge n. 1423/1956 conteneva una descrizione sufficientemente dettagliata dei tipi di comportamento che si riteneva rappresentassero un pericolo per la società. Ha concluso che la semplice appartenenza a una delle categorie di persone di cui all’articolo 1 della Legge non era un motivo sufficiente per l’applicazione di una misura di prevenzione; al contrario, era necessario accertare l’esistenza di uno specifico comportamento che indicasse che l’interessato costituiva un pericolo reale e non puramente teorico. Le misure di prevenzione non potevano quindi essere adottate sulla base di un semplice sospetto, ma dovevano essere basate su una valutazione oggettiva degli “elementi fattuali”, che rivelavano il comportamento abituale della persona e il suo tenore di vita, o specifici segni esteriori delle sue tendenze criminali (si veda la giurisprudenza della Corte costituzionale esposta ai paragrafi 45-55 supra) .
117. La Corte osserva che, nonostante il fatto che la Corte costituzionale sia intervenuta in diverse occasioni per chiarire i criteri da utilizzare per valutare se le misure di prevenzione fossero necessarie, l’applicazione di tali misure resta legata a un’analisi prospettica da parte dei tribunali nazionali, dato che né la Legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione. La Corte ritiene pertanto che la Legge in questione non contenesse disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società.
118. La Corte rileva che, nella fattispecie, il tribunale competente ad applicare al ricorrente la misura di prevenzione ha basato la sua decisione sull’esistenza di tendenze criminali “attive” da parte sua, pur senza attribuirgli alcuno specifico comportamento o attività criminale. Inoltre, il tribunale ha citato come motivo della misura di prevenzione il fatto che il ricorrente non aveva “un’occupazione fissa e lecita” e che la sua vita era caratterizzata dalla regolare associazione con elementi di spicco della malavita locale e dalla commissione di reati (si vedano i paragrafi 15-16 supra).
In altre parole, la Corte ha basato il suo ragionamento sull’assunto dell’esistenza di “tendenze criminali”, criterio che la Corte costituzionale aveva già considerato insufficiente – nella sua sentenza n. 177 del 1980 – per definire una categoria di soggetti cui potevano essere applicate le misure di prevenzione (si veda il paragrafo 55 supra).
La Corte ritiene pertanto che la legislazione vigente al momento pertinente (articolo 1 della Legge del 1956) non indicasse con sufficiente chiarezza la portata o la modalità di esercizio della ampissima discrezionalità conferita ai tribunali interni, e non fosse pertanto formulata con sufficiente precisione in modo da fornire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e consentire al ricorrente di regolare la propria condotta e prevedere con un sufficiente grado di certezza l’applicazione di misure di prevenzione.
119. In ordine alle misure previste agli articoli 3 e 5 della Legge n. 1423/1956 che sono state applicate al ricorrente, la Corte osserva che alcune di esse erano formulate in termini molto generici e il loro contenuto è estremamente vago e indeterminato; ciò vale in particolare per le disposizioni relative agli obblighi di “vivere onestamente e rispettare la legge” e di “non dare ragione alcuna ai sospetti”.
A questo proposito, la Corte rileva che la Corte costituzionale è pervenuta alla conclusione che gli obblighi di “vivere onestamente” e di “non dare ragione alcuna ai sospetti” non violassero il principio di legalità (si veda il paragrafo 59 supra).
120. La Corte osserva che l’interpretazione effettuata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 282 del 2010 era successiva ai fatti del caso di specie e che era quindi impossibile per il ricorrente accertare, sulla base della posizione della Corte costituzionale in tale sentenza, il preciso contenuto di alcuni degli obblighi cui era stato sottoposto nel corso della sorveglianza speciale. Tali obblighi, infatti, possono dar luogo a più diverse interpretazioni, come ha ammesso la stessa Corte costituzionale. La Corte rileva, inoltre, che essi sono formulati in termini generali.
121. Inoltre, l’interpretazione da parte della Corte costituzionale nel 2010 non ha risolto il problema dell’imprevedibilità delle misure di prevenzione applicabili in quanto ai sensi dell’articolo 5 comma 1 della Legge in questione, il tribunale poteva applicare anche imporre qualsiasi misura ritenesse necessaria – senza specificarne il contenuto – in considerazione delle esigenze di tutelare la società.
122. Infine, la Corte non ritiene che gli obblighi di “vivere onestamente e rispettare le leggi ” e di “non dare ragione alcuna ai sospetti ” siano stati delimitati in modo sufficiente dall’interpretazione della Corte costituzionale, per i seguenti motivi. In primo luogo, il “dovere dell’interessato di adattare la propria condotta a uno stile di vita che osservi tutti i summenzionati obblighi” è altrettanto indeterminato dell’“obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi”, in quanto la Corte costituzionale rinvia semplicemente all’articolo 5 stesso. Secondo la Corte tale interpretazione non fornisce indicazioni sufficienti per le persone interessate. In secondo luogo il “dovere della persona interessata di rispettare tutte le regole prescrittive che le chiedono di comportarsi, o di non comportarsi, in un particolare modo; non solo le leggi penali, quindi, ma le disposizioni la cui inosservanza sarebbe un ulteriore indizio del pericolo per la società che è già stato accertato” è un riferimento a tempo indeterminato per l’intero ordinamento giuridico italiano, e non fornisce ulteriori chiarimenti sulle specifiche norme la cui inosservanza rappresenterebbe un ulteriore indizio del pericolo rappresentato dalla persona per la società.
La Corte ritiene pertanto che questa parte della Legge non sia stata formulata in modo sufficientemente dettagliato e non definisca con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate a una persona, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale.
123. La Corte è anche preoccupata del fatto che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l’assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice.
124. La Corte ritiene che la legge abbia lasciato ai giudici un’ampia discrezionalità senza indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale discrezionalità e le modalità per esercitarla. Ne consegue che l’applicazione al ricorrente di misure di prevenzione non era sufficientemente prevedibile e non era accompagnata da adeguate garanzie contro i vari possibili abusi.
125. La Corte conclude pertanto che la Legge n. 1423/1956 era redatta in termini vaghi ed eccessivamente ampi. Né le persone cui erano applicabili le misure di prevenzione (articolo 1 della Legge del 1956) né il contenuto di alcune di queste misure (articoli 3 e 5 della Legge del 1956) erano definiti dalla legge con sufficiente precisione e chiarezza. Ne consegue che la Legge non soddisfaceva i requisiti di prevedibilità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte.
126. Conseguentemente, non si può affermare che l’ingerenza nella libertà di circolazione del ricorrente sia stata basata su disposizioni di legge che soddisfano i requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione. Vi è pertanto stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 a causa dell’imprevedibilità della Legge in questione.
127. Vista la conclusione di cui sopra, la Corte non deve trattare alcuna altra osservazione dedotta dal ricorrente, né esaminare la questione di sapere se le misure applicategli perseguissero uno o più fini legittimi e fossero necessarie in una società democratica.
II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE
128. Il ricorrente ha lamentato la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a causa dell’assenza di una pubblica udienza dinanzi al Tribunale e alla Corte di appello, nonché l’iniquità dei procedimenti. La parte pertinente dell’articolo 6 § 1 recita:
“1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.”
129. Il Governo ha riconosciuto che il ricorrente era stato vittima della violazione dell’articolo 6 § 1 a causa dell’assenza di una pubblica udienza dinanzi ai tribunali interni, e ha contestato le altre censure.
A. La parziale dichiarazione unilaterale del Governo
130. In data 7 aprile 2015 il Governo ha inviato alla Corte una nota contenente la proposta di composizione amichevole in relazione alla parte del ricorso concernente la doglianza relativa all’assenza di una pubblica udienza dinanzi al Tribunale e alla Corte di appello di Bari (articolo 6 § 1 della Convenzione), nonché una dichiarazione unilaterale ai sensi dell’articolo 62 A del Regolamento della Corte in relazione a tale doglianza. Il Governo ha inoltre chiesto alla Corte di cancellare parte del ricorso dal ruolo qualora non fosse stata accettata la composizione amichevole (si veda il paragrafo 29 supra).
131. In data 22 aprile 2015 il ricorrente ha dichiarato di non essere soddisfatto delle condizioni della composizione amichevole proposta. Non ha formulato osservazioni sulla dichiarazione unilaterale.
132. Le parti pertinenti dell’articolo 37 § 1 della Convenzione recitano:
“1. In ogni momento della procedura la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere
(…)
(c) che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata.
Tuttavia la Corte prosegue l’esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli lo imponga.”
133. La Corte osserva innanzitutto che questo è il primo caso di cui è stata investita la Grande Camera in cui è stata formulata una richiesta di cancellare dal ruolo parte di un ricorso. Si sono comunque verificati casi in cui le Sezioni hanno accettato di cancellare dal ruolo parti di un ricorso a seguito di una dichiarazione unilaterale e di esaminare le rimanenti doglianze (si vedano Bystrowski c. Polonia, n. 15476/02, § 36, 13 settembre 2011; Tayfur Tunç e altri c. Turchia (dec.), n. 22373/07, §§ 20-21, 24 marzo 2015; Pubblicità Grafiche Perri S.R.L c. Italia (dec.), n. 30746/03, 14 ottobre 2014; Frascati c. Italia (dec.), n. 5382/08, §§ 21-22, 13 maggio 2014; Ramazan Taş c. Turchia (dec.), n. 5382/10, 14 ottobre 2014; Pasquale Miele c. Italia (dec.), n. 37262/03, 16 settembre 2014; Aleksandr Nikolayevich Dikiy c. Ucraina (dec.), n. 2399/12, 16 dicembre 2014; e Ielcean c. Romania (dec.), n. 76048/11, §§ 18-19, 7 ottobre 2014).
134. La Corte ribadisce che in alcune circostanze può essere opportuno cancellare un ricorso dal ruolo ai sensi dell’articolo 37 § 1, lettera c) della Convenzione sulla base di una dichiarazione unilaterale da parte del Governo convenuto anche qualora il ricorrente desideri che l’esame della causa prosegua. Ha sottolineato al riguardo che tale procedura non è di per sé finalizzata a eludere l’opposizione del ricorrente a una composizione amichevole. Deve essere accertato sulla base delle particolari circostanze della causa se la dichiarazione unilaterale offra una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito dalla Convenzione, non richieda che la Corte continui l’esame della causa (si veda Baudoin c. Francia, n. 35935/03, § 78, 18 novembre 2010).
135. I fattori pertinenti in tal senso comprendono la natura delle doglianze sollevate, la questione di sapere se le questioni sollevate siano simili a questioni già determinate dalla Corte in precedenti cause, la natura e la portata delle misure adottate dal Governo convenuto nell’esecuzione delle sentenze pronunciate dalla Corte in tali cause, nonché le conseguenze di queste misure sul caso in esame (si veda Tahsin Acar c. Turchia (eccezioni preliminari) [GC], n. 26307/95, § 76, CEDU 2003-VI).
136. Anche altri fattori rivestono importanza. In particolare, la dichiarazione unilaterale del Governo deve, sulla base delle doglianze sollevate, contenere il riconoscimento della responsabilità in relazione alle asserite violazioni della Convenzione, o per lo meno qualche ammissione al riguardo. In quest’ultimo caso, è necessario determinare la portata di tali ammissioni e il modo in cui il Governo intende fornire riparazione al ricorrente (si vedano, tra altri precedenti, Tahsin Acar, sopra citata, §§ 76-82, e Prencipe c. Monaco, n. 43376/06, §§ 57 62, 16 luglio 2009).
137. Passando al caso di specie, la Corte osserva che il Governo ha riconosciuto nella sua dichiarazione unilaterale che il ricorrente ha subito la violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a causa dell’assenza di una pubblica udienza, e che esso si è impegnato a versargli una somma di denaro in relazione alle spese procedurali. Quanto alle modalità di riparazione, osserva che il Governo non ha proposto di versare alcuna somma a titolo di danno non patrimoniale.
138. La Corte ribadisce che, come ha costantemente ritenuto, l’esclusione del pubblico da un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione reale costituisce violazione dell’articolo 6 § 1 (si vedano Bocellari e Rizza, sopra citata, §§ 34-41; Perre e altri, sopra citata, §§ 23-26; Bongiorno e altri, sopra citata, §§ 27 30; Leone c. Italia, n. 30506/07, §§ 26-29, 2 febbraio 2010; nonché Capitani e Campanella c. Italia, n. 24920/07, §§ 26-29, 17 maggio 2011). Osserva tuttavia che non vi sono precedenti decisioni relative all’applicabilità dell’articolo 6 § 1 nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione personali, e quindi alla questione della pubblicità delle udienze in tali procedimenti, che sono, inoltre, svolti allo stesso modo di quelli per l’applicazione di misure di prevenzione reali.
139. Alla luce di quanto sopra e di tutte le circostanze della causa, la Corte ritiene che non siano soddisfatte le condizioni per cancellare dal ruolo parte del ricorso.
140. Rigetta pertanto la domanda del Governo di cancellare dal ruolo parte del ricorso ai sensi dell’articolo 37 § 1, lettera c) della Convenzione.
B. Sulla ricevibilità
1. Osservazioni delle parti
a) Il ricorrente
141. Il ricorrente ha sostenuto che l’aspetto penale dell’articolo 6 § 1 era applicabile ai procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione personali in quanto riguardavano la libertà personale del cittadino ed erano disciplinati dalle disposizioni del codice di procedura penale. Ha aggiunto che l’articolo 6 § 1 era applicabile in quanto la Corte aveva già ritenuto che l’aspetto civile dell’articolo 6 si applicasse ai procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione reali.
b) Il Governo
142. Il Governo non ha formulato alcuna osservazione al riguardo.
2. La valutazione della Corte
143. La Corte osserva innanzitutto che l’aspetto penale dell’articolo 6 § 1 della Convenzione non è applicabile, in quanto la sorveglianza speciale non è paragonabile a una sanzione penale, dato che il procedimento concernente il ricorrente non riguardava la determinazione di una “accusa penale” ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione (si vedano Guzzardi, sopra citata, § 108, e Raimondo, sopra citata, § 43). Resta da determinare se sia applicabile l’aspetto civile dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.
144. La Corte ribadisce che, perché sia applicabile l’aspetto civile dell’articolo 6 § 1, deve esservi una controversia (“contestation” nel testo francese) su un “diritto” che si possa dire, almeno per motivi sostenibili, riconosciuto ai sensi della legislazione interna, a prescindere dal fatto che tale diritto sia tutelato dalla Convenzione. La controversia deve essere autentica e seria; può riguardare non solo la reale esistenza di un diritto, bensì anche la sua portata e le modalità per esercitarlo; e, infine, l’esito del procedimento deve essere direttamente determinante per il diritto in questione, semplici tenui legami o remote conseguenze non sono sufficienti perché entri in gioco l’articolo 6 § 1 (si vedano, tra numerosi altri precedenti, Mennitto c. Italia [GC], n. 33804/96, § 23, CEDU 2000 X; Micallef c. Malta [GC], n. 17056/06, § 74, CEDU 2009; e Boulois c. Lussemburgo [GC], n. 37575/04, § 90, CEDU 2012).
145. A tale riguardo il carattere della legislazione che disciplina le modalità di determinazione della questione (diritto civile, commerciale, amministrativo, e così via) e quello dell’autorità investita della competenza in materia (tribunale ordinario, organo amministrativo, e così via) non hanno conseguenze determinanti (si veda Micallef, sopra citata, § 74).
146. La Corte osserva che a differenza della causa Guzzardi, il caso di specie è caratterizzato dal fatto che le misure di prevenzione applicate al ricorrente non costituivano una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 § 1 della Convenzione ma restrizioni della sua libertà di circolazione. Conseguentemente, nel caso di specie non sorge la questione di sapere se il diritto alla libertà sia di carattere “civile” (si veda Guzzardi, sopra citata, § 108, nonché Aerts c. Belgio, 30 luglio 1998, § 59, Reports of Judgments and Decisions 1998-V, e Laidin c. Francia (n. 2), n. 39282/98, § 76, 7 gennaio 2003).
147. La questione dell’applicabilità dell’aspetto civile dell’articolo 6 sorge per un altro aspetto. La Corte ha ritenuto – nell’ambito della reclusione – che alcune restrizioni dei diritti dei detenuti, e le eventuali ripercussioni di tali restrizioni, rientrino nella sfera dei “diritti di carattere civile”. Per esempio, la Corte osserva di aver ritenuto che l’articolo 6 sia applicabile in alcuni tipi di procedimenti disciplinari relativi all’esecuzione di pene detentive (si veda Gülmez c. Turchia, n. 16330/02, §§ 27 31, 20 maggio 2008, in cui è stato proibito al ricorrente di ricevere visite per un anno).
148. Nelle cause Ganci c. Italia (n. 41576/98, §§ 20-26, CEDU 2003 XI), Musumeci c. Italia (n. 33695/96, § 36, 11 gennaio 2005) and Enea c. Italia ([GC], n. 74912/01, § 107, CEDU 2009) la Corte ha ritenuto che l’articolo 6 § 1 fosse applicabile al regime di massima sicurezza nel quale potevano essere collocati alcuni detenuti in Italia. In tali cause le restrizioni imposte ai ricorrenti riguardavano principalmente il divieto di ricevere più di un certo numero di visite mensili da parte dei familiari, il continuo controllo della corrispondenza e delle conversazioni telefoniche e i limiti allo svolgimento di attività fisica all’esterno. Per esempio, nella causa Enea (sopra citata, § 107) la Corte ha ritenuto che la doglianza concernente le restrizioni cui era stato asseritamente sottoposto il ricorrente in conseguenza della collocazione in un reparto di massima sicurezza fosse compatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione in quanto riguardava l’aspetto civile dell’articolo 6. Ha ritenuto che alcune delle restrizioni lamentate dal ricorrente – quali quelle che limitavano I rapporti con la famiglia – rientrassero chiaramente nella sfera dei diritti personali e fossero pertanto di carattere civile (ibid., § 103).
149. La Corte ha inoltre concluso che qualsiasi restrizione che incida sui diritti di carattere civile della persona deve poter essere contestata nel corso di un procedimento giudiziario, a causa del carattere delle restrizioni (per esempio, il divieto di ricevere più di un certo numero di visite mensili da parte dei familiari, o il continuo controllo della corrispondenza e delle conversazioni telefoniche) e delle loro possibili ripercussioni (per esempio, difficoltà a mantenere i legami familiari o i rapporti con persone diverse dai familiari, o l’esclusione dall’attività fisica all’aperto) (ibid., § 106).
150. Nelle cause Stegarescu e Bahrin c. Portogallo (n. 46194/06, §§ 37-38, 6 aprile 2010) la Corte ha applicato l’articolo 6 § 1 a controversie concernenti le restrizioni (visite limitate a un’ora alla settimana e soltanto dietro un divisorio di vetro, attività fisica all’aperto limitata a un’ora al giorno, e l’impossibilità per il primo ricorrente di proseguire gli studi e sostenere esami) cui erano sottoposti i detenuti collocati in celle di massima sicurezza.
151. La Corte osserva che vi è stata una modifica della propria giurisprudenza favorevole all’applicazione dell’aspetto civile dell’articolo 6 alle cause che potrebbero inizialmente sembrare non concernenti un diritto di carattere civile ma che possono avere ripercussioni dirette e significative su un diritto privato spettante a una persona (si vedano Alexandre c. Portogallo, n. 33197/09, § 51, 20 novembre 2012, e Pocius c. Lituania, n. 35601/04, § 43, 6 luglio 2010).
152. Secondo la Corte, il caso di specie presenta similitudini con le cause citate sopra: benché le restrizioni imposte in un contesto carcerario riguardassero le visite dei familiari, i rapporti con altri o le difficoltà a mantenere i rapporti familiari, esse assomigliano a quelle cui è stato sottoposto il ricorrente. La Corte fa riferimento in particolare alla prescrizione di non allontanarsi dal distretto di residenza, di non uscire di casa dalle 22.00 alle 6.00, di non partecipare a riunioni pubbliche e di non utilizzare telefoni cellulari o apparati radioelettrici di comunicazione.
153. La Corte osserva che nel caso di specie è sorta una “controversia autentica e seria” quando il Tribunale ha applicato al ricorrente la sorveglianza speciale, rigettando i suoi rilievi. La controversia è stata successivamente definita dalla Corte di appello di Bari, che ha riconosciuto l’illegittimità della misura di prevenzione applicata al ricorrente.
154. La Corte osserva inoltre che alcune delle restrizioni lamentate dal ricorrente – quali il divieto di uscire di notte, di allontanarsi dal distretto in cui viveva, di frequentare locali pubblici o di utilizzare telefoni cellulari o apparati radioelettrici di comunicazione – rientrano chiaramente nella sfera dei diritti personali e sono pertanto di carattere civile (si vedano, mutatis mutandis, Enea, sopra citata, § 103, e Ganci, sopra citata, § 25).
155. Alla luce di quanto sopra, la Corte conclude che la doglianza del ricorrente concernente le restrizioni cui è stato asseritamente sottoposto in conseguenza dell’applicazione della sorveglianza speciale sia compatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione, in quanto riguarda l’aspetto civile dell’articolo 6. Poiché questa doglianza non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte la dichiara ricevibile.
C. Sul merito
1. Osservazioni delle parti
a) Il ricorrente
156. Il ricorrente ha lamentato la violazione del suo diritto a un equo processo. Ha sostenuto in primo luogo che non ha potuto far svolgere un’udienza pubblica in quanto la legge dell’epoca non lo permetteva e il successivo intervento della Corte costituzionale non aveva consentito di porre rimedio a tale violazione.
157. Il ricorrente ha inoltre sostenuto che il Tribunale di Bari aveva ritenuto che egli fosse pericoloso in quanto aveva commesso reati contro la persona e il patrimonio, mentre era chiaro dal suo certificato del casellario giudiziale – che era stato versato nel fascicolo – che le sentenze con le quali era stato condannato passate in giudicato tra il settembre del 1995 e l’agosto del 1999 riguardavano il contrabbando di tabacco. Era stato successivamente condannato per spaccio di stupefacenti nel 2003 e per evasione nel 2004.
158. Inoltre il certificato del casellario giudiziale contenuto nel fascicolo dimostrava che le asserite violazioni degli obblighi della sorveglianza speciale riguardavano in realtà una persona che aveva il suo stesso nome e cognome, ma che era nata nel 1973.
159. A sostegno della sua censura concernente la violazione del diritto a un equo processo, il ricorrente ha inoltre sostenuto che il Tribunale non aveva tenuto conto delle prove agli atti che dimostravano che svolgeva un’occupazione lecita e non aveva un tenore di vita elevato. Il Tribunale non aveva tenuto conto neanche dei documenti che certificavano che aveva lavorato come bracciante agricolo. Benché fosse vero che la Corte di appello aveva successivamente annullato la misura in questione, essa aveva impiegato diversi mesi per emettere il provvedimento, mentre la legge prescriveva un termine di trenta giorni (si veda il paragrafo 96 supra).
b) Il Governo
160. Il Governo ha sottolineato che nella sentenza n. 93 del 12 marzo 2010 la Corte costituzionale, applicando i principi sanciti nella giurisprudenza della Corte, aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della Legge n. 1423/1956 e dell’articolo 2 ter della Legge n. 575/1965 in quanto non offrivano alle persone la possibilità di chiedere una pubblica udienza nell’ambito di procedimenti in materia di applicazione di misure di prevenzione.
161. Il Governo ha riconosciuto che il ricorrente è stato vittima di una violazione dell’articolo 6 § 1 a causa dell’assenza di una pubblica udienza nei tribunali interni.
162. In ordine alla doglianza che ha lamentato l’iniquità dei procedimenti, il Governo ha sottolineato che il ricorrente aveva potuto presentare prove, e anche partecipare alle udienze e formulare osservazioni, che erano state versate nel fascicolo. Ha sostenuto che la Corte di appello di Bari non aveva riconosciuto che vi era stato un errore di identità, ma aveva semplicemente rivalutato tutte le prove sulle quali era stata basata la decisione del Tribunale, concludendo che il ricorrente non costituiva un pericolo per la società. Secondo il Governo il ricorrente aveva avuto accesso a un ricorso e se ne era avvalso con successo. Conseguentemente, ha sostenuto che non vi era stata violazione dell’articolo 6 a tale riguardo.
2. La valutazione della Corte
a) Assenza di una pubblica udienza dinanzi al Tribunale e alla Corte di appello
163. La Corte ribadisce che, benché una pubblica udienza costituisca un principio fondamentale sancito dall’articolo 6 § 1, l’obbligo di svolgere tale udienza non è assoluto in quanto le circostanze che possono giustificare la dispensa dall’udienza dipendono essenzialmente dalla natura delle questioni che devono essere determinate dai tribunali interni (si veda Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 41-42, CEDU 2006 XIV).
164. La Corte rileva innanzitutto che, nella fattispecie, il Governo ha riconosciuto che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 in quanto le udienze in Tribunale e nella Corte di appello di Bari non erano pubbliche.
165. Osserva inoltre che la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 4 della Legge n. 1423/1956 e dell’articolo 2 ter della Legge n. 575/1965 in quanto non offrivano alle persone la possibilità di chiedere una pubblica udienza nell’ambito di procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione (si veda il paragrafo 56 supra).
166. La Corte rinvia anche alla sua pertinente giurisprudenza relativa all’assenza di una pubblica udienza nell’ambito di procedimenti in materia di misure di prevenzione reali (si vedano Bocellari e Rizza, sopra citata, §§ 34-41; Perre e altri, sopra citata, §§ 23-26; Bongiorno e altri, sopra citata, §§ 27 30; Leone, sopra citata, §§ 26-29; e Capitani e Campanella, sopra citata, §§ 26 29).
167. Inoltre, secondo la Corte, le circostanze della causa imponevano di svolgere una pubblica udienza, tenendo presente che i tribunali nazionali dovevano valutare aspetti quali la personalità, il comportamento e la pericolosità del ricorrente, che erano tutti determinanti per l’applicazione di misure di prevenzione (si veda, mutatis mutandis, Jussila, sopra citata, § 41).
168. Conseguentemente, alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione a tale riguardo.
b) La doglianza concernente l’asserita iniquità dei procedimenti
169. In ordine alle doglianze relative specificamente al procedimento nel Tribunale di Bari, la Corte ribadisce di avere il compito di garantire il rispetto degli impegni assunti dalle Parti contraenti della Convenzione.
170. In particolare, ribadisce di non avere la funzione di occuparsi degli asseriti errori di diritto o di fatto commessi dai tribunali interni, a meno che, e nella misura in cui, essi possono aver violato i diritti e le libertà tutelati dalla Convenzione (si vedano, per esempio García Ruiz c. Spagna [GC], n. 30544/96, § 28, CEDU 1999-I, e Perez c. Francia [GC], n. 47287/99, § 82, CEDU 2004-I), per esempio, qualora si possa affermare che costituiscono una “iniquità” in violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Benché l’articolo 6 garantisca il diritto a un equo processo, esso non prevede norme sulla ammissibilità delle prove o sulle modalità di valutazione delle prove, dato che queste sono principalmente questioni che devono essere disciplinate dalla legislazione nazionale e dai tribunali nazionali. In linea di massima, la Corte non deve esaminare questioni quali il peso attribuito da parte dei tribunali nazionali a particolari elementi probatori o a conclusioni o valutazioni presentati a loro perché li esaminino. La Corte non dovrebbe agire come un organo di quarta istanza e non contesterà pertanto ai sensi dell’articolo 6 § 1 la valutazione dei tribunali nazionali, a meno che le loro conclusioni possano essere considerate arbitrarie o manifestamente irragionevoli (si vedano, per esempio, Dulaurans c. Francia, n. 34553/97, §§ 33-34 e 38, 21 marzo 2000; Khamidov c. Russia, n. 72118/01, § 170, 15 novembre 2007; Anđelković c. Serbia, n. 1401/08, § 24, 9 aprile 2013; e Bochan c. Ucraina (n. 2) [GC], n. 22251/08, §§ 64-65, CEDU 2015).
171. L’unico compito della Corte in relazione all’articolo 6 della Convenzione è l’esame dei ricorsi che sostengono che i tribunali interni non hanno osservato le specifiche garanzie procedurali previste da tale articolo o che il complessivo svolgimento del procedimento non ha garantito al ricorrente un equo processo (si veda, tra numerosi altri precedenti, Donadze c. Georgia, n. 74644/01, §§ 30-31, 7 marzo 2006).
172 . Nel caso di specie, il procedimento è stato svolto complessivamente in conformità ai requisiti di un equo processo. La principale doglianza del ricorrente era che la valutazione delle prove svolta dal Tribunale di Bari era stata arbitraria, la Corte sottolinea tuttavia che la Corte di appello si è pronunciata a suo favore (si vedano i paragrafi 26-27 supra) e ha conseguentemente annullato la misura di prevenzione.
173. Non vi è pertanto stata violazione dell’articolo 6 a tale riguardo.
III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 13 DELLA CONVENZIONE
174. Il ricorrente ha inoltre lamentato che non disponeva di alcun ricorso effettivo con cui chiedere una riparazione nei tribunali interni e ha dedotto la violazione dell’articolo 13 della Convenzione, che prevede:
“Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violate, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.”
175. Il Governo ha contestato tale rilievo.
A. Sulla ricevibilità
176. La Corte osserva che questa doglianza, nella misura in cui riguarda l’esistenza di un ricorso interno con il quale il ricorrente avrebbe potuto sollevare la sua doglianza ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 4, non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3, lettera a) della Convenzione. Osserva inoltre che non incorre in altri motivi di irricevibilità e deve pertanto essere dichiarata ricevibile.
B. Sul merito
1. Osservazioni delle parti
a) Il Governo
177. Il Governo ha sostenuto che la doglianza del ricorrente non era sostenibile (invocando Monno , sopra citata, § 30). Ha inoltre sottolineato che il ricorrente aveva vinto la causa in Corte di appello.
b) Il ricorrente
178 . Il ricorrente ha sostenuto che non disponeva di un ricorso effettivo per chiedere riparazione per la violazione dell’articolo 5 della Convenzione e dell’articolo 2 del Protocollo n . 4.
2. La valutazione della Corte
a) Principi applicabili
179. La Corte ribadisce che l’articolo 13 garantisce la disponibilità a livello nazionale di un ricorso con il quale lamentare la violazione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione. Pertanto, anche se è concessa agli Stati contraenti una certa discrezionalità per quanto riguarda il modo di conformarsi ai loro obblighi ai sensi della presente disposizione, deve esistere un ricorso interno che permetta alla competente autorità nazionale di trattare la sostanza della pertinente doglianza ai sensi della Convenzione e di concedere un adeguato conforto. La portata dell’obbligo di cui all’articolo 13 varia a seconda della natura della doglianza del ricorrente ai sensi della Convenzione, ma il ricorso deve in ogni caso essere “effettivo”, in pratica, così come in diritto, in particolare nel senso che il suo esercizio non deve essere ostacolato ingiustificatamente da atti o omissioni delle autorità dello Stato (si veda Nada, sopra citata, §§ 208-209; si vedano altresì Büyükdağ c. Turchia, n. 28340/95, § 64, 21 dicembre 2000, e i riferimenti ivi citati, in particolare Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, § 95, Reports 1996-VI). In alcune circostanze, l’insieme dei ricorsi previsti dal diritto interno possono soddisfare i requisiti di cui all’articolo 13 (si veda, tra altri precedenti, Leander c. Svezia, 26 marzo 1987, § 77, Serie A n. 116).
180. L’articolo 13 esige tuttavia che nel diritto interno esista un ricorso soltanto in relazione a doglianze che possono essere considerate “sostenibili” dal punto di vista della Convenzione (si veda, per esempio, Boyle e Rice c. Regno Unito , 27 aprile 1988, § 54, Serie A n. 131). Esso non obbliga gli Stati membri a consentire alle persone di contestare le leggi nazionali davanti a un’istanza nazionale in quanto in contrasto con la Convenzione (si veda Costello-Roberts c. Regno Unito, 25 marzo 1993, § 40, Serie A n. 247-C ), ma tenta soltanto di garantire che chiunque sollevi una doglianza sostenibile della violazione di un diritto tutelato dalla Convenzione disponga di un ricorso effettivo nell’ordinamento giuridico interno (ibid., § 39).
b) L’applicazione dei summenzionati principi al caso di specie
181. La Corte osserva che, in considerazione della sua constatazione di cui sopra della violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 (si veda il paragrafo 126 supra), questa doglianza è sostenibile. Resta pertanto da verificare se il ricorrente disponesse di un ricorso effettivo ai sensi del diritto italiano, con il quale lamentare le violazioni dei suoi diritti previsti dalla Convenzione.
182. La Corte ribadisce che se vi è un ricorso sostenibile che lamenta che una misura adottata dalle autorità poteva violare la libertà di circolazione di un ricorrente, l’articolo 13 della Convenzione esige che l’ordinamento giuridico nazionale offra all’interessato la possibilità di contestare la misura in contraddittorio dinanzi ai tribunali (si veda, mutatis mutandis, Riener, sopra citata, § 138).
183 . Tuttavia, una procedura di ricorso interno non può essere considerata effettiva ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione se non offre la possibilità di trattare la sostanza di un “ricorso sostenibile” ai fini della Convenzione e di concedere un adeguato conforto. In questo modo, enunciando direttamente l’obbligo degli Stati di proteggere i diritti umani prima di tutto all’interno del proprio ordinamento giuridico, l’articolo 13 stabilisce un’ulteriore garanzia per le persone al fine di garantire che esse godano effettivamente di tali diritti (ibid., § 142; si vedano altresì Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 152, CEDU 2000-XI, e T.P. e K.M. c. Regno Unito [GC], n. 28945/95, § 107, CEDU 2001-V).
184. La Corte osserva che il ricorrente ha potuto presentare ricorso alla Corte di appello di Bari, sostenendo l’illegittimità della sorveglianza speciale e del provvedimento che disponeva l’obbligo di soggiorno . Dopo aver esaminato le condizioni e la proporzionalità del decreto che disponeva la sorveglianza speciale, la Corte di appello lo ha annullato.
185 . Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che il ricorrente disponesse quindi di un ricorso effettivo ai sensi del diritto italiano, che gli offriva la possibilità di sollevare le sue doglianze relative alle violazioni della Convenzione. Non vi è pertanto stata violazione dell’articolo 13 in combinato disposto con l’articolo 2 del Protocollo n. 4.
IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE
186. L’articolo 41 della Convenzione prevede:
“Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.”
A. Danno
187. Il ricorrente ha chiesto una somma a titolo di danno patrimoniale, lasciando che sia la Corte a determinarne l’importo.
188. In ordine al danno non patrimoniale, ha chiesto 20.000 euro (EUR) per il periodo trascorso in sorveglianza speciale.
189. Il Governo non ha formulato osservazioni ai sensi dell’articolo 41.
190. La Corte rileva che la domanda relativa al danno patrimoniale non è stata quantificata; rigetta pertanto la domanda. D’altra parte, considera opportuno accordare al ricorrente EUR 5.000 per il danno non patrimoniale.
B. Spese
191. Il ricorrente ha chiesto anche EUR 6.000 per le spese sostenute dinanzi ai tribunali interni ed EUR 5.525 per quelle sostenute dinanzi alla Corte.
192. Il Governo non ha commentato tale richiesta.
193. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente ha diritto al rimborso delle spese solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie, alla luce dei documenti in suo possesso e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole accordare l’intero importo richiesto dal ricorrente, che copre tutte le voci delle spese.
C. Interessi moratori
194. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, maggiorato di tre punti percentuali.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE
- Rigetta, all’unanimità, la domanda del Governo di cancellare parte del ricorso dal ruolo sulla base della sua dichiarazione unilaterale relativa alla doglianza concernente l’assenza di una pubblica udienza dinanzi al Tribunale e alla Corte di appello di Bari;
- Dichiara, a maggioranza, irricevibile la doglianza ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione;
- Dichiara, all’unanimità, ricevibile la doglianza ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 4;
- Ritiene, all’unanimità, che vi sia stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4;
- Dichiara, all’unanimità, ricevibile la doglianza ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
- Ritiene, all’unanimità, che vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 a causa dell’assenza di una pubblica udienza nel Tribunale di Bari e nella Corte di appello di Bari;
- Ritiene, con quattordici voti contro tre, che non vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 in ordine al diritto a un equo processo;
- Ritiene, con dodici voti contro cinque, che non vi sia stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione;
- Ritiene, all’unanimità,
- che lo Stato convenuto debba versare al ricorrente, entro tre mesi, le seguenti somme:
- EUR 5.000 (cinquemila euro), oltre l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno non patrimoniale;
- EUR 11.525 (undicimilacinquecentoventicinque euro), oltre l’importo eventualmente dovuto dal ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
- che a decorrere da detto termine e fino al versamento tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, maggiorato di tre punti percentuali;
- che lo Stato convenuto debba versare al ricorrente, entro tre mesi, le seguenti somme:
- Rigetta, con sedici voti contro uno, la domanda di equa soddisfazione del ricorrente per il resto
Fatta in inglese e francese, e poi pronunciata in pubblica udienza nel Palazzo dei diritti umani, a Strasburgo, in data 23 febbraio 2017.
Johan Callewaert
Cancelliere aggiunto
András Sajó
Presidente
In conformità all’articolo 45 § 2 della Convenzione e all’articolo 74 § 2 del Regolamento della Corte, sono allegate alla presente sentenza le seguenti opinioni separate:
- l’opinione concordante comune ai Giudici Raimondi, Villiger, Šikuta, Keller e Kjølbro;
- l’opinione concordante del Giudice Dedov;
- l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Sajó;
- l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Vučinić;
- l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Pinto de Albuquerque;
- l’opinione parzialmente dissenziente del Giudice Kūris.
A.S.
J.C.
OPINIONE CONCORDANTE COMUNE AI GIUDICI RAIMONDI, VILLIGER, ŠIKUTA, KELLER E KJØLBRO
(Traduzione)
1. Concordiamo con la conclusione della Grande Camera secondo la quale nel caso di specie vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. Non concordiamo tuttavia con la base giuridica proposta per tale conclusione, vale a dire l’imprevedibilità della sorveglianza speciale e l’obbligo di soggiorno, in altre parole la carenza della Legge n.1423/1956, strumento previsto dall’ordinamento giuridico italiano che permetteva di applicare la misura in questione.
2. Tale approccio è incompatibile con tutta una serie di cause in cui la Corte ha dovuto occuparsi delle misure di prevenzione personali previste dalla legislazione italiana.
3. Il corpus giurisprudenziale degli organi della Convenzione in materia di misure di prevenzione disposte nei confronti di singoli risale alla decisione della Commissione del 5 ottobre 1977 nella causa Guzzardi c. Italia (n. 7960/77, non pubblicata). In una successiva causa introdotta dallo stesso ricorrente la Corte ha concluso che, in considerazione delle particolari circostanze della causa, il ricorrente era stato “privato della libertà” ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione (si veda Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, § 95, Serie A n. 39).
4. La Corte rileva che, successivamente alla causa Guzzardi, si è occupata di diverse cause (Raimondo, sopra citata, § 39; Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 193, CEDU 2000 IV; Vito Sante Santoro c. Italia, n. 36681/97, § 37, CEDU 2004 VI; si vedano altresì, mutatis mutandis, Villa, sopra citata, §§ 43-44, e Monno, sopra citata, §§ 22-23) in materia di sorveglianza speciale accompagnata da un provvedimento che disponeva l’obbligo di soggiorno e altre restrizioni associate (non uscire di casa la notte, non allontanarsi dal luogo di residenza, non frequentare osterie, bettole, sale da gioco, luoghi ove si esercita il meretricio, o partecipare a pubbliche riunioni, non associarsi a persone con precedenti penali e che sono state sottoposte a misure di prevenzione). Dato che nessuna di tali cause riguardava circostanze speciali simili a quelle della causa Guzzardi, la Corte ha esaminato le misure di prevenzione in questione ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n.4.
5. In tali cause la Corte non ha riscontrato carenze – in termini di prevedibilità e, più in generale, di qualità della legge – nella legislazione applicabile, in particolare nella Legge n.1423/1956. Certamente nella causa Vito Sante Santoro (sopra citata, § 46) la Corte ha constatato che la misura in questione non era né necessaria né “prevista dalla legge”. Tuttavia, tale particolare causa riguardava l’applicazione di una misura non compresa nel pertinente quadro normativo, ovvero una misura che aveva inciso sulla libertà di circolazione del ricorrente, ma che era prescritta; quindi, anche in tale causa, la Corte non ha espresso critiche sulla qualità della legge in questione.
6. Al contrario, la sentenza relativa al caso di specie rileva, in primo luogo, che la Legge n. 1423/1956 non aveva definito con sufficiente chiarezza le persone cui erano applicabili le misure di prevenzione, in modo da soddisfare il requisito della prevedibilità della legge e, in secondo luogo, che la Legge stessa era redatta in termini vaghi e generici, che non definivano con sufficiente precisione e chiarezza il contenuto di alcune misure di prevenzione, e, conseguentemente, la Legge non soddisfaceva i requisiti di prevedibilità stabiliti dalla giurisprudenza della Corte (si veda il paragrafo 125 della sentenza).
7. A nostro avviso non vi era alcuna necessità di abbandonare un approccio che era stato stabile per diversi anni, soprattutto dato che i tribunali italiani, e segnatamente la Corte costituzionale, avevano elaborato una precisa linea giurisprudenziale sulla questione di sapere se la legislazione interna in materia di imposizione di misure di prevenzione fosse sufficientemente chiara e prevedibile nella sua applicazione, dichiarando incostituzionale, se del caso, le parti della legislazione che non soddisfacevano tali criteri. Perciò, nella sentenza n. 177 del 1980, la Corte costituzionale ha rilevato che una delle categorie di soggetti di cui all’articolo 1 della Legge del 1956 in vigore all’epoca, vale a dire coloro “che per le manifestazioni cui hanno dato luogo diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere” non era stato definito dalla Legge in modo sufficientemente dettagliato e non era stato possibile prevedere chi avrebbe potuto essere il destinatario delle misure di prevenzione o in quali circostanze, in quanto era lasciata alle autorità una eccessiva discrezionalità. La Corte costituzionale ha inoltre concluso che vi era stata violazione del principio di legalità, che era applicabile in relazione alle misure di prevenzione a norma dell’articolo 13 (libertà personale) e dell’articolo 25 (misure di sicurezza).
8. La presente sentenza rinvia ampiamente (si vedano i paragrafi 43-61) alla lunga serie di sentenze della Corte costituzionale italiana che trattano tale questione. Vorremmo richiamare l’attenzione in particolare sulla citata sentenza n. 177 del 1980, che riassume la giurisprudenza dell’epoca in relazione a questioni che comprendevano l’individuazione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione, e alla sentenza n. 282 del 2010, che tratta in particolare le misure applicabili.
9. A nostro avviso, tale corpus giurisprudenziale fornisce prove soddisfacenti del fatto che, nonostante il carattere alquanto generico dei requisiti di legge, non erano sorti problemi in termini di prevedibilità in relazione all’individuazione dei soggetti ai quali potevano essere applicate misure di prevenzione o delle misure applicabili stesse.
10. In ordine a tali misure, nella causa oggetto della sentenza n. 282 del 2010, la Corte costituzionale è stata chiamata a determinare se l’articolo 9 comma 2 della Legge 27 dicembre 1956 n. 1423 fosse compatibile con l’articolo 25 comma 2 della Costituzione, nella misura in cui prevedeva sanzioni penali in caso di inosservanza del requisito di cui all’articolo 5 comma 3, prima parte, della stessa Legge, vale a dire “vivere onestamente, rispettare le leggi, non dare ragione alcuna ai sospetti”, e se violasse il principio che prevedeva che le situazioni in cui sono applicabili disposizioni di diritto penale debbano essere definite esaustivamente dalla legge (principio di tassatività).
11. La sentenza del 2010 ha spiegato, a nostro avviso in modo convincente, il motivo per cui l’obbligo di “vivere onestamente, rispettare le leggi, non dare ragione alcuna ai sospetti”, se valutato indipendentemente, appariva di per sé generico e in grado di assumere molteplici significati; e perché, al contrario, se era esaminato nel contesto di tutti gli altri requisiti di cui all’articolo 5 della Legge n. 1423/1956, il suo contenuto era più chiaro, e comportava l’obbligo per l’interessato di adeguare la propria condotta a uno stile di vita rispettoso di tutti i summenzionati requisiti, con il risultato che la formulazione “vivere onestamente” è diventata più concreta e orientata verso l’individuo. La sentenza in questione ha specificato che il requisito di “non dare ragione alcuna ai sospetti” non doveva essere esaminato indipendentemente, ma nel contesto degli altri requisiti esposti all’articolo 5 della Legge n. 1423/1956, quali l’obbligo per la persona sottoposta a sorveglianza speciale di non frequentare alcuni luoghi o di non associarsi ad alcune persone.
12. La sentenza della Grande Camera osserva che l’interpretazione effettuata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 282 del 2010 era successiva ai fatti del caso di specie e che era quindi impossibile per il ricorrente accertare, sulla base della posizione della Corte costituzionale in tale sentenza, il preciso contenuto di alcune delle condizioni cui era sottoposto nel corso della sorveglianza speciale (si veda il paragrafo 120 della sentenza). A nostro avviso, la posizione assunta dalla Corte costituzionale resta del tutto valida nel caso di specie, dato che si limita a confermare una situazione già esistente all’epoca dei fatti.
13. Il fatto che la portata e il contenuto della legge n. 1423/1956 fossero stati chiariti dai tribunali interni – che avevano introdotto importanti garanzie, e specificato le condizioni che dovevano essere soddisfatte per l’applicazione di misure di prevenzione – è illustrato chiaramente dalla decisione della Corte di appello di Bari del 22 gennaio 2009. Il ragionamento della Corte di appello e la sua applicazione della Legge n. 1423/1956, come interpretata nella pertinente giurisprudenza, dimostrano che dovevano essere osservate importanti garanzie e condizioni. Ciò può essere rilevato dal ragionamento della Corte di appello in relazione alla “attualità del pericolo” rappresentato dalla persona interessata. Essa ha osservato che si doveva tener conto di diversi fattori, tra cui i precedenti penali, le indagini in corso e le attuali attività, il tenore di vita e i mezzi di sostentamento della persona, e le persone cui si associava. Ne consegue che la valutazione richiedeva aspetti oggettivi, una sufficiente base fattuale e prove e informazioni aggiornate. Proprio applicando i requisiti stabiliti dalla giurisprudenza la Corte di appello di Bari ha potuto annullare la sentenza del Tribunale di Bari. Ciò equivale a un chiaro riconoscimento della prevedibilità dell’applicazione della Legge n. 1423/1956. In ogni caso, il ricorrente – cercando se necessario un’adeguata consulenza – era in grado di prevedere, a un livello ragionevole date le circostanze, se poteva essere compreso in una delle categorie di soggetti cui potevano essere applicate le misure di prevenzione, nonché la natura e la durata delle misure applicabili.
14. Riteniamo pertanto che le misure in questione fossero effettivamente “previste dalla legge”.
15. Riteniamo anche che le misure che comportavano restrizioni della libertà di circolazione perseguissero scopi legittimi, in particolare “il mantenimento dell’ordine pubblico ” e “la prevenzione dei reati” (si veda Monno, sopra citata, § 26, e Villa, sopra citata, § 46).
16. Riteniamo tuttavia che le misure in questione non fossero “necessarie in una società democratica”, per i seguenti motivi.
17. L’ingerenza è considerata “necessaria in una società democratica” per uno scopo legittimo se soddisfa una “pressante esigenza sociale” ed è proporzionata al legittimo scopo perseguito. A tal fine, le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla devono essere “pertinenti e sufficienti”. Benché spetti alle autorità nazionali compiere l’iniziale valutazione sotto tutti questi aspetti, la valutazione finale della necessità dell’ingerenza rimane soggetta al riesame della Corte per la conformità con i requisiti della Convenzione (si vedano, per esempio, S. e Marper c. Regno Unito [GC], nn. 30562/04 e 30566/04, § 101, CEDU 2008, e Coster c. Regno Unito [GC], n. 24876/94, § 104, 18 gennaio 2001).
18. Inoltre, per quanto riguarda la proporzionalità di una misura contestata, essa sarà giustificata solo fintanto che favorisce efficacemente l’obiettivo perseguito inizialmente (si veda Villa, sopra citata, § 47, e, mutatis mutandis, Napijalo c. Croazia, n. 66485/01, §§ 78-82, 13 novembre 2003, nonché Gochev c Bulgaria, n. 34383/03, § 49, 26 novembre 2009). Inoltre, pur potendo essere inizialmente giustificata, una misura restrittiva della libertà di circolazione di una persona può diventare sproporzionata e violare i diritti della persona, se è prorogata automaticamente per un periodo eccessivamente lungo (si vedano Luordo c. Italia, n. 32190/96, § 96, CEDU 2003-IX; Riener c. Bulgaria, n. 46343/99, § 121, 23 maggio 2006; e Földes e Földesné Hajlik c. Ungheria, n. 41463/02, § 35, CEDU 2006 XII).
19. In ogni caso, le autorità interne hanno l’obbligo di assicurare che qualsiasi violazione del diritto di una persona ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 4, sia, dal momento dell’inizio e per tutta la sua durata, giustificata e proporzionata in considerazione delle circostanze. Tale riesame dovrebbe normalmente essere svolto, almeno in ultima istanza, dai tribunali, in quanto offrono le migliori garanzie di indipendenza, imparzialità e legittimità delle procedure (si vedano Gochev, sopra citata, § 50, e Sissanis c. Romania, n. 23468/02, § 70, 25 gennaio 2007). La portata del riesame giudiziario dovrebbe consentire al tribunale di tener conto di tutti i fattori pertinenti, compreso di quelli relativi alla proporzionalità della misura restrittiva (si veda, mutatis mutandis, Le Compte, Van Leuven e De Meyere c. Belgio, 23 giugno 1981, § 60, Serie A n. 43).
20. Nel caso di specie si può rilevare che il Tribunale di Bari ha deciso di applicare al ricorrente la misura della sorveglianza speciale sulla base di alcuni indizi, che lo avevano condotto a concludere che egli fosse dedito ad attività criminali. La Corte di appello ha tuttavia constatato che alcuni reati attribuiti al ricorrente erano stati commessi in realtà da un’altra persona che aveva il suo stesso nome e cognome. La Corte di appello ha inoltre sottolineato nella sua sentenza che il tribunale non aveva tenuto conto del fatto che il ricorrente lavorava dal 2005 come bracciante agricolo e che non era stata scoperta alcuna specifica prova di legami con delinquenti abituali. Ha aggiunto che il Tribunale aveva omesso di effettuare una valutazione dettagliata della pericolosità del ricorrente alla luce del fatto che aveva interamente espiato la pena e non aveva commesso ulteriori reati dopo essere stato scarcerato.
21. Dalla sentenza del Tribunale di Bari si può desumere che i motivi invocati da esso per applicare al ricorrente la misura di prevenzione non erano pertinenti o sufficienti. Come ha osservato la Corte di appello, non sussistevano fatti specifici che permettessero di stabilire che il ricorrente continuava a rappresentare un pericolo. Conseguentemente, la misura di prevenzione non avrebbe dovuto essere applicata. Tale osservazione è sufficiente per constatare la violazione dell’articolo 2 del Protocollo n .4.
22. Si deve inoltre rilevare che la Corte di appello avrebbe dovuto emettere la decisione entro il termine di trenta giorni previsto dalla legislazione interna. La decisione è stata tuttavia notificata al ricorrente il 4 febbraio 2009, sei mesi e ventuno giorni dopo il deposito del ricorso in data 14 luglio 2008, data in cui è iniziato a decorrere il termine. Conseguentemente, riteniamo che la violazione di cui sopra sia stata aggravata dall’eccessivo tempo trascorso tra la data di presentazione del ricorso e l’emissione della decisione da parte della Corte di appello di Bari.
23. Erano necessarie particolare diligenza e tempestività per adottare una decisione che incideva sui diritti garantiti dall’articolo 2 del Protocollo n. 4 in circostanze quali quelle del caso di specie, in cui il ricorrente è stato sottoposto alla misura di prevenzione dal 4 luglio 2008, data in cui gli è stata notificata la decisione del Tribunale, al 4 febbraio 2009, data in cui gli è stata notificata la decisione della Corte di appello – vale a dire, per complessivi sette mesi, compreso un periodo di sei mesi e ventun giorni in attesa della decisione dalla Corte di appello. Riteniamo che tale lasso di tempo sia stato sufficiente a rendere sproporzionate le restrizioni della libertà di circolazione del ricorrente. In ordine al rilievo del Governo, secondo il quale il ricorrente avrebbe potuto instaurare un’azione risarcitoria nei confronti dei magistrati, rileviamo che il Governo non ha prodotto alcun esempio per dimostrare che un simile ricorso sia stato utilizzato con successo in circostanze analoghe a quelle del caso di specie.
24. Per quanto sopra esposto, riteniamo che le restrizioni della libertà di circolazione del ricorrente non possano essere considerate “necessarie in una società democratica”.
25. Tali fattori sono sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 a causa della sproporzionalità della sorveglianza speciale e del decreto che ha disposto l’obbligo di soggiorno.
OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE DEDOV
Sottoscrivo incondizionatamente il fine legittimo indicato dalla Corte costituzionale italiana nella sua sentenza n. 2 del 1956: “l’ordinato vivere civile”, che è indubbiamente la meta di uno Stato di diritto, libero e democratico.” Se viene stabilita la pace sociale, i diritti e le libertà fondamentali sono pienamente rispettati. Sappiamo, tuttavia, che non è così facile trovare il proprio posto nella società, trovare il modo di integrarsi nella società, fare uso dei propri talenti e delle proprie qualità al fine di trovare una professione adeguata e partecipare alla divisione del lavoro in modo amichevole e pacifico. Ciò è sempre difficile, e lungo la strada le crisi psicologiche personali sono inevitabili. Non tutti possiedono sufficiente cultura e autocontrollo per evitare comportamenti offensivi, violenti o altri tipi di comportamenti anti-sociali, o l’emarginazione in termini generali.
Il problema è che il summenzionato obiettivo non può essere conseguito soltanto mediante misure coercitive. Desidero invitare le autorità nazionali a sviluppare il sistema nazionale. Credo che si dovrebbe sottolineare maggiormente la riabilitazione sociale e psicologica (oltre che la pena stessa). Tale approccio potrebbe essere applicato in primo luogo alle persone che hanno riportato condanne, ma anche altre persone potrebbero essere sottoposte a tali misure su base volontaria. A tal fine, l’analisi della qualità del diritto esposta nella presente sentenza avrebbe potuto essere integrata da una conclusione che le misure coercitive in questione non sono proporzionate dato che le stesse non permettono di conseguire lo scopo legittimo perseguito. Gli arresti domiciliari o la prescrizione di trovare un lavoro non convinceranno una persona a modificare il proprio stile di vita. Ciò significa inoltre che la conclusione sulla proporzionalità avrebbe riguardato l’arte legislativa piuttosto che l’attuazione delle misure nella pratica.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE SAJÓ
Ho votato a favore della constatazione della violazione dell’articolo 6 e convengo che vi sia stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 (imprevedibilità sia dell’elenco delle persone cui possono essere applicate le misure (articolo 1 della Legge del 1956) che delle misure stesse (articoli 3 e 5 della Legge del 1956). Mi rammarico tuttavia di non poter seguire la posizione della maggioranza nella misura in cui riguarda gli articoli 5 e 6 (aspetto penale), principalmente per i motivi esposti nell’opinione separata del Giudice Pinto de Albuquerque.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE VUČINIĆ
Ho votato a favore della constatazione della violazione degli articoli 6 e 13, per i motivi esposti nella parte 2 dell’opinione separata del Giudice Pinto de Albuquerque.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE PINTO DE ALBUQUERQUE
Indice
- Introduzione (§ 1)
Parte 1 (§§ 2-31) - Natura della privazione della libertà nel contesto delle misure di prevenzione (§§ 2-11)
- Prius ergo est suspicio (§§ 2-8)
- La frode delle etichette nel contesto delle misure di prevenzione (§§ 9-11)
- Garanzie sostanziali in relazione a misure di prevenzione (§§ 12 31)
- Applicabilità dell’articolo 5 della Convenzione (§§ 12-20)
- Applicazione dell’articolo 5 al caso di specie: assenza di motivi di privazione della libertà previsti dalla Convenzione (§§ 21-31)
Parte 2 (§§ 32-58)
- Garanzie processuali in relazione a misure di prevenzione (§§ 32 48)
- Applicabilità dell’articolo 6 § 1 (aspetto penale) della Convenzione (§§ 32-43)
- Applicazione dell’articolo 6 al caso di specie: assenza di udienza pubblica e di un equo processo (§§ 44-48)
- Mezzi di ricorso interni relativi alla causa in esame (§§ 49-58)
- Assenza di un rapido riesame giudiziario (§§ 49-53)
- Assenza di risarcimento per l’illegittima misura di prevenzione (§§ 54-58)
- Conclusione (§§ 59-60)
I.; Introduzione (§ 1)
1. Dissento dalla decisione di dichiarare irricevibili le doglianze di cui agli articoli 5 e 6 (aspetto penale) della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (“la Convenzione”). A mio avviso, le misure applicate al ricorrente ai sensi della Legge n. 1423/1956 (“la Legge del 1956”)1 , ovvero la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza unita all’ordine che disponeva l’obbligo di soggiorno per due anni e alle altre misure restrittive, sono di carattere penale e hanno comportato la privazione del diritto del ricorrente alla libertà. Per i motivi esposti in appresso esse avrebbero dovuto essere soggette alle garanzie sostanziali e processuali di cui agli articoli 5 e 6 (aspetto penale) della Convenzione.
Avendo votato contro la decisione di irricevibilità, ho votato nel merito a favore della constatazione della violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4, in ragione della imprevedibilità sia dell’elenco delle persone cui potevano essere applicate le misure (articolo 1 della Legge del 1956) che delle misure stesse (articoli 3 e 5 della Legge del 1956). Concordo interamente con il ragionamento della sentenza sul punto specifico della imprevedibilità di tali disposizioni.
Il fine della presente opinione è di giustificare il mio voto sulla decisione di irricevibilità e, conseguentemente, di trarre dall’applicabilità degli articoli 5 e 6 (aspetto penale) ai fatti della causa le opportune conclusioni sul merito Ho votato anche a favore della constatazione della violazione dell’articolo 13, per motivi relativi alle carenze dei mezzi di ricorso interni nel caso in esame.
Parte 1 (§§ 2-31)
II. Natura della privazione della libertà nel contesto delle misure di prevenzione (§§ 2-11)
A. Prius ergo est suspicio (§§ 2-8)
2. La Costituzione italiana non prevede misure di prevenzione personali2 . Le disposizioni pertinenti degli articoli 25 e 27 sulle misure afflittive sanciscono soltanto le norme in materia di pene e misure di sicurezza.
In una fondamentale sentenza del 1964, la Corte costituzionale ha affermato “[il] principio secondo cui l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito, oltre che dal sistema delle norme repressive di fatti illeciti, anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire. Pertanto, il giudice delle leggi ha ritenuto le disposizioni della Legge del 1956 compatibili con la Costituzione italiana, segnatamente con il principio di legalità di cui all’articolo 13 in ordine alla libertà personale e di cui all’articolo 25 comma 3 in ordine alle misure di sicurezza 3 .
In altre decisioni, la Corte costituzionale è stata meno precisa e ha esaminato i ricorsi ai sensi degli articoli 13 e 25 in generale, senza specificare se stesse trattando l’aspetto relativo ai reati o quello relativo alle misure di sicurezza. In ogni caso, la Consulta ha sempre avuto un approccio più flessibile nell’esame dell’osservanza del principio di legalità in relazione alle misure di prevenzione piuttosto che in relazione alle disposizioni di diritto penale stricto sensu. In modo ellittico ha fissato il criterio di precisione delle disposizioni che disciplinano le misure di prevenzione, che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore in relazione al criterio richiesto per le disposizioni di diritto penale 4 .
La Corte costituzionale ha inoltre ritenuto che le misure di prevenzione non violassero il principio della presunzione di innocenza. Il ragionamento è bizzarro. I giudici del Palazzo della Consulta hanno sostenuto che la presunzione di innocenza non si applicava alle misure di prevenzione, in quanto esse non erano basate sulla colpevolezza e non incidevano sulla responsabilità penale della persona. Ha tuttavia contemporaneamente ritenuto che le misure di prevenzione non derogassero neanche da tale principio, dato che “semplici sospetti” basati su “valutazioni puramente soggettive e incontrollabili” non sarebbero stati sufficienti per l’applicabilità di tali misure 5 .
Il legislatore ha reagito a tale giurisprudenza con la Legge n. 327/1988, che ha abolito due categorie di persone sospettate nella Legge del 1956 – da un lato, “gli oziosi e i vagabondi abituali validi al lavoro” e, dall’altro, “coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume” – e ha richiesto che le tre rimanenti categorie di persone alle quali era applicabile la Legge dovessero essere determinate “sulla base di elementi di fatto”.
3. Dal punto di vista costituzionale, dal 1964 in Italia non è cambiato niente per quanto riguarda la compatibilità del regime delle misure di prevenzione personali con la Costituzione. È vero che successivamente, il giudice delle leggi ha riscontrato in alcune occasioni anche la violazione della Costituzione, in relazione a questioni molto specifiche 6 . Come indicato nella sentenza della Grande Camera, nel 1970 essa ha ritenuto che gli interessati avrebbero dovuto essere assistiti da un difensore nel corso del procedimento relativo all’applicazione di tali misure. Nel 1980 ha constatato che la legge non definiva in modo sufficientemente particolareggiato una delle categorie di persone interessate dalle misure, ovvero coloro “che per le manifestazioni cui hanno dato luogo diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere”. Nel 2010 ha ritenuto che il fatto che la persona interessata non avesse la possibilità di chiedere una pubblica udienza nell’ambito del procedimento relativo all’applicazione di misure di prevenzione, in primo grado o in appello, fosse incostituzionale. L’essenza del regime del 1956 è rimasta comunque invariata, con l’assenso dei giudici del Palazzo della Consulta.
4. In realtà le misure di prevenzione personali sono state applicate ai sensi della Legge del 1956 nei confronti di persone sospettate di reati prima che fossero state condannate e in caso di assoluzione 7 o di sentenza di proscioglimento pronunciata in conformità all’articolo 530 comma 2 del codice di procedura penale per insufficienza o contraddittorietà delle prove 8 . Nonostante la formale separazione tra il procedimento penale, disciplinato dal codice di procedura penale, e il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, disciplinato dalla Legge del 1956, le prove acquisite nel primo procedimento potevano essere utilizzate nel secondo procedimento in quanto indicative della necessità delle misure di prevenzione 9 . Ciò permetteva ovviamente la strumentalizzazione delle misure di prevenzione al fine di “punire” coloro che erano stati prosciolti dalle imputazioni nel corso del procedimento penale. Date le circostanze, le misure di prevenzione non erano che una pena di “seconda classe”, “pene basate sul sospetto” (pene del sospetto )10. Anche successivamente alla riforma approvata dalla Legge n. 327/1988, una probatio minus plena 11 era sufficiente per collocare le persone sotto il radar del sistema della giustizia penale, con il suo arsenale di misure restrittive previste dalla Legge del 1956.
5. Il fatto peggiore è che le misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956 erano sostanzialmente altamente desocializzanti, in conseguenza delle rigorose restrizioni imposte alla vita personale, professionale e sociale della persona sospettata, oltre alla privazione della libertà per parte del giorno. Avevano un carattere intrinsecamente anti-risocializzante. Ciò a sua volta faceva aumentare la probabilità che la persona sospettata commettesse reati quando violava il regime delle restrizioni imposte, dato che tale violazione era di per sé punibile come reato e comportava una severa pena detentiva. Quindi, come ha affermato giustamente Bricola nel 1974, il risultato dell’applicazione di misure personali finalizzate alla prevenzione del reato era la commissione di nuovi reati, che fornivano una base giuridica per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di persone che non avevano potuto essere state inizialmente perseguite per mancanza di prove 12 . Di fatto, la tortuosa logica della Legge del 1956 aveva effettivamente un elevato potenziale criminogeno 13 .
Oltre al carattere anti-risocializzante, tali misure avevano anche effetti discriminatori, dato che per legge la loro applicazione era considerata un fattore aggravante nel contesto della pena prevista per vari reati 14 . Di fatto, tale aggravante era del tutto estranea alla materia del reato di base, e pertanto il fattore aggravante era dovuto esclusivamente all’etichettatura negativa attribuita dal legislatore alle persone sottoposte a misure di prevenzione 15 . Tra i numerosi effetti personali negativi di tali misure vi era l’effetto intrinsecamente disonorante, che aveva conseguenze non solo dal punto di vista sociologico, ma anche per l’applicazione della legge.
6. Inoltre il cumulo di misure di prevenzione personali e sanzioni penali non era limitato neanche dal principio del ne bis in idem, in considerazione del cosiddetto principio della compatibilità logica di entrambe, che la giurisprudenza aveva tratto da alcune disposizioni della legge 16 . La legge favorisce di fatto tale giurisprudenza. L’articolo 166 comma 2 del codice penale permette l’applicazione di misure di prevenzione anche in caso di sospensione della pena stabilita con sentenza penale, se è possibile acquisire altre prove aliunde 17 . In conseguenza del summenzionato principio di compatibilità logica, le misure di prevenzione sono state congiunte anche a una condanna emessa nell’ambito di una sentenza di patteggiamento 18 o a una condanna all’ergastolo 19 .
7. L’effetto punitivo delle misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956 è stato esasperato dalla loro applicazione mentre il procedimento penale era ancora in corso, sulla base dei fatti esaminati nell’ambito di tale procedimento. In tale contesto, le misure di prevenzione erano finalizzate a eludere i requisiti temporali più rigorosi richiesti per l’applicabilità di misure cautelari secondo le ordinarie norme di procedura penale 20 . In pratica, l’interscambiabilità tra le misure di prevenzione e le misure cautelari, che hanno carattere, regime ed effetti diversi, è diventato un escamotage della legge contenuta nei libri 21 . In pendenza di procedimenti penali, le misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956 hanno svolto in realtà per la polizia e i procuratori la funzione di un potente oggetto di patteggiamento “endo-processuale”. Per parlare in termini crudi, l’ascendente tattico della polizia e della Procura era enormemente potenziato dall’utilizzo delle misure di prevenzione come mezzo con il quale esercitare pressione su un imputato presumibilmente innocente affinché collaborasse nell’ambito del procedimento penale in corso.
8. Infine, le misure di prevenzione personali hanno abbandonato il principio della responsabilità personale delle azioni. Nelle parole di Elia, il giudizio preventivo “squalifica socialmente una persona, senza squalificare prima un fatto” (un giudizio con il quale si squalifica socialmente una persona, senza prima poter squalificare un fatto) 22 . Di fatto, le misure di cui alla Legge del 1956 si applicavano ante o praeter delictum. Essendo basate su un giudizio altamente indeterminato e probabilistico sulla futura condotta della persona sospettata (Prius ergo est suspicio )23, esse la prendevano di mira a prescindere dalla prova di un precedente reato, sulla base di; presunte « tipologie di delinquebnti » (tipologie d’autore). In tale contesto la garanzia di un riesame giudiziario non era che un’illusione 24 . La Legge del 1956 divenne lo strumento di una politica penale basata sul Täter-Typus che ha tradito la regola fondamentale formulata una volta così eloquentemente da Bettiol per il diritto penale: Im Anfang ist die Tat 25 .
B. La frode delle etichette nel contesto delle misure di prevenzione (§§ 9-11)
9. Fino a questo momento, Strasburgo ha fornito uno scarso aiuto per contrastare questa “errata etichettatura della realtà” (frode delle etichette). Quando ha valutato la compatibilità delle misure di prevenzione con la Convenzione, la Corte ha concentrato la sua attenzione sul procedimento per la loro applicazione, nel corso del quale era valutata la pericolosità della persona interessata, esaminando se fossero stati rispettati i diritti di difesa 26 . Come sarà dimostrato in appresso, successivamente alla embrionale sentenza Guzzardi c. Italia 27 , la Corte ha sempre evitato un’analisi approfondita delle caratteristiche sostanziali delle misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956, assumendo meramente la loro legittimità. La più recente opportunità che ha avuto di svolgere tale esercizio è stata nella causa Monno e non ha approfittato di tale opportunità, dichiarando il ricorso irricevibile a maggioranza 28.
10. Inoltre, secondo la Corte, l’annullamento di una misura di prevenzione da parte della Corte di appello non incide in quanto tale sulla legittimità dell’ingerenza durante il precedente periodo, dato che la decisione del Tribunale di primo grado era stata prima facie valida ed effettiva fino al momento in cui era stata annullata dal giudice di grado superiore 29 . Inoltre, era stato ritenuto che l’inosservanza del termine previsto dalla legge non avesse comportato lo sconvolgimento del giusto equilibrio 30 .
11. La Corte ha inoltre costantemente ritenuto che l’esclusione del pubblico da un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali costituisse violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione 31 . Tuttavia fino a questo momento non esisteva alcuna giurisprudenza simile in materia di misure di prevenzione personali.
In una parola, fino a questo momento la Corte non ha assicurato le garanzie minime di legalità sostanziale ed equità procedurale nel campo altamente invasivo delle misure di prevenzione personali. La presente sentenza modifica tale corso.
III. Garanzie sostanziali in relazione a misure di prevenzione (§§ 12 31)
A. Applicabilità dell’articolo 5 della Convenzione (§§ 12-20)
12. La doglianza del ricorrente di cui all’articolo 5 è che egli è stato sottoposto a una privazione della libertà arbitraria ed eccessiva. Per determinare se sia applicabile l’articolo 5 della Convenzione, la Corte deve applicare i criteri esposti nella sentenza Guzzardi c. Italia 32 . Per determinare se una persona sia stata “privata della libertà” ai sensi dell’articolo 5, il punto di partenza deve essere la specifica situazione del ricorrente e di deve tener conto di una serie di fattori quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura in questione. La differenza tra la privazione della libertà e la restrizione della libertà riguarda il grado o l’intensità, e non il carattere o la sostanza 33 . Inoltre, nella valutazione della natura delle misure di prevenzione previste dalla Legge del 1956 esse devono essere esaminate “cumulativamente e congiuntamente” 34 . La Corte ha infine che la necessità di tener conto del “tipo” e “delle modalità di attuazione” della misura in questione le consente di tener conto dello specifico contesto e delle circostanze che accompagnano tipi di restrizione diversi dal paradigma della reclusione in una cella 35 .
13. Nella causa Guzzardi, La Corte è stata chiamata a esaminare le misure di prevenzione personali applicate al ricorrente. Ha ritenuto che il ricorrente fosse stato privato della libertà e che vi fosse stata violazione dell’articolo 5. Il ricorrente, che era sospettato di appartenenza a una “banda di mafiosi”, era stato costretto a vivere su un’isola all’interno di una zona (non recintata) di 2,5 km quadrati, principalmente insieme ad altre persone che si trovavano in una situazione analoga, e al personale di sorveglianza. L’obbligo di vivere su un’isola era accompagnato da altre restrizioni analoghe alle misure imposte ai ricorrenti delle cause summenzionate 36.
14. Tutte le altre cause esaminate successivamente erano simili alla causa Guzzardi perché le restrizioni imposte erano analoghe: presentarsi una volta alla settimana all’autorità di pubblica sicurezza responsabile della vigilanza; cercarsi un lavoro entro un mese; non trasferire la residenza; vivere onestamente, rispettare le leggi e non dare ragione alcuna ai sospetti; non associarsi a persone che avevano riportato condanne e che erano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza; non rincasare dopo le ore 22 o non uscire di casa prima delle ore 6, tranne che in caso di necessità e dopo averne dato tempestivamente notizia alle autorità; non detenere o portare armi; non trattenersi in osterie, bettole, sale da gioco o case di prostituzione e non partecipare a pubbliche riunioni. L’unica differenza riguardo alla situazione della causa Guzzardi era che i ricorrenti non erano costretti a vivere su un’isola. Su tale base tali cause sono state esaminate soltanto ai sensi dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 37 .
15. Tale giurisprudenza è contraddittoria. Da un lato, nella causa Guzzardi la Corte ha ritenuto che le misure di prevenzione applicate al ricorrente in conformità alla Legge del 1956 comportassero la privazione della libertà. Dall’altro, nelle cause italiane successive alla causa Guzzardi, a cominciare dalla infelice sentenza della causa Raimondo, la Corte ha ritenuto che le misure in questione non costituissero una privazione della libertà, ma meramente una restrizione della libertà di circolazione 38 . Sono dell’opinione che la Corte debba tornare ai principi fondamentali dell’approccio relativo alla causa Guzzardi, come ribadito esplicitamente nella causa Ciulla 39 .
16. A mio avviso, un confronto delle misure applicate ai rispettivi ricorrenti delle cause Guzzardi e De Tommaso dimostra quanto segue: i ricorrenti di entrambe le cause sono stati sottoposti a restrizioni analoghe. Benché il ricorrente del caso di specie, a differenza del ricorrente della causa Guzzardi, non è stato costretto a vivere su un’isola in una zona (non recintata) di 2.5 metri quadrati, il cumulo e la combinazione delle misure applicate nel caso di specie comportava la privazione – e non semplicemente la restrizione – della libertà, specialmente in considerazione dell’obbligo di non rincasare dopo le ore 22 e di non uscire di casa prime delle ore 6.
In pratica, l’obbligo è rimasto in vigore per 221 giorni, unitamente ai seguenti ulteriori obblighi: vivere in una particolare città; presentarsi una volta alla settimana all’autorità di pubblica sicurezza responsabile della vigilanza; non associarsi a persone che avevano riportato condanne e che erano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza; non detenere o portare armi; non trattenersi in osterie, bettole, sale giochi e luoghi onde si esercita il meretricio; non partecipare a pubbliche riunioni di qualsiasi genere; e vivere onestamente. In ultimo, il ricorrente era anche sottoposto a una restrizione relativa alle comunicazioni telefoniche.
17. Tuttavia, nel caso di specie – a differenza di quanto avvenuto nella causa Guzzardi, in cui il ricorrente doveva comunicare anticipatamente alle autorità il numero telefonico e il nominativo della persona cui telefonava o che gli telefonava ogni volta che desiderava effettuare o ricevere una telefonata interurbana – il ricorrente non poteva utilizzare telefoni cellulari apparati radioelettrici di comunicazione, misura che ovviamente rendeva la sua situazione anche peggiore.
18. Detto ciò, si deve sottolineare che la superficie del luogo in cui il ricorrente deve vivere non costituisce l’unica base per ritenere che l’articolo 5 sia applicabile. Con riferimento alla “situazione concreta”40 del ricorrente, osservo che il provvedimento che disponeva l’obbligo di soggiorno è stato applicato al ricorrente per 221 giorni (dal 4 luglio 2008 al 4 febbraio 2009), vale a dire, 1.768 ore (221 giorni x 8 ore al giorno). In tale contesto, si dovrebbe richiamare l’attenzione sul fatto che la giurisprudenza della Corte è abbondante in materia di situazioni in cui la privazione del diritto alla libertà è durata per molto meno tempo di quanto avvenuto nel caso di specie 41 .
19. Peraltro, è inoltre utile rinviare alla giurisprudenza della Corte in materia di arresti domiciliari. Alla luce della causa Buzadji, gli arresti domiciliari costituiscono una forma di privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 della Convenzione 42 . Gli arresti domiciliari consistono nel divieto all’imputato di allontanarsi dalla propria abitazione senza l’autorizzazione delle autorità competenti. Ai sensi dell’articolo 284 del codice di procedura penale, di norma la persona interessata non può allontanarsi dalla propria abitazione mentre si trova agli arresti domiciliari. Il giudice può tuttavia autorizzare l’imputato a uscire di casa per esercitare una attività lavorativa o per provvedere ad altre “indispensabili esigenze di vita”. La disposizione non specifica la quantità di ore che la persona può trascorrere fuori casa, lasciando tale determinazione alla discrezione del giudice. La disposizione sulla detenzione domiciliare (articolo 47 ter comma 4 della Legge n. 354/1975) rinvia al summenzionato articolo 284 per il regime che disciplina la pena. La violazione di queste disposizioni è punibile ai sensi dell’articolo 385 del codice penale, che prevede la pena della reclusione fino a un anno, e nei casi in cui è stata usata violenza la reclusione fino a cinque anni.
In sostanza nel caso di specie la situazione non era diversa. Il ricorrente non era libero di uscire di casa dalle ore 22 alle ore 6, senza darne “tempestiva notizia” alle autorità di pubblica sicurezza e soltanto in caso di “comprovata necessità”. L’inosservanza di tale obbligo giuridico poteva essere punita con la pena della reclusione fino a cinque anni.
20. L’articolo 5 è quindi applicabile a questa forma di privazione della libertà, come nelle cause Guzzardi e Ciulla (entrambe citate sopra). Vi sarebbe una “erronea etichettatura della realtà” (frode delle etichette) se si ritenesse che l’articolo 5 § 1 non si applichi alle misure previste dalla Legge del 1956, in considerazione del loro carattere notevolmente invasivo in termini di restrizione della libertà, sia in generale che nel caso di specie.
B. Applicazione dell’articolo 5 al caso di specie: assenza di motivi di privazione della libertà previsti dalla Convenzione (§§ 21-31)
21. Sottoscrivo interamente la valutazione della Grande Camera relativa alla carente qualità della legge in esame, sia in ordine ai soggetti cui potevano essere applicate le misure (articolo 1 della Legge del 1956) che in ordine alle misure stesse (articoli 3 e 5 della Legge del 1956).
22. I lodevoli sforzi compiuti dalla Corte costituzionale italiana per restringere l’ampiezza dei concetti utilizzati in tali disposizioni non le salva dal biasimo dell’imprevedibilità. Il comune cittadino non poteva prevedere quali particolari forme di comportamento avrebbero potuto essere comprese nella pertinente disposizione della Legge del 1956 e quale specifica misura sarebbe stata applicata alla sua condotta, semplicemente perché la Legge era formulata in termini troppo ampi, ed era caratterizzata da concetti vaghi, indeterminati, che avevano a volte sfumature moralistiche. Dato che la Legge non stabiliva un rapporto chiaro e prevedibile tra particolari forme di condotta e specifiche misure penali, era lasciata eccessiva discrezionalità alla polizia e ai procuratori 43.
23. Ma il problema non finisce qui. La Grande Camera avrebbe dovuto compiere un’analisi più approfondita. Oltre alla qualità carente della legge, la privazione del diritto alla libertà ante o praeter delictum ai fini della prevenzione dei reati non si concilia con alcuno dei motivi esposti esaustivamente nell’articolo 5 § 1 della Convenzione.
24. Ripeto quanto già dichiarato in modo molto convincente nella sentenza Guzzardi: il decreto che disponeva l’obbligo di soggiorno e la condizione che il ricorrente restasse a casa per otto ore al giorno ai fini della prevenzione dei reati non possono essere considerati compresi in alcuna delle situazione elencate esaustivamente nell’articolo 5 § 1. 44
25. L’articolo 5 § 1, lettera a) della Convenzione non si applica 45 . Il decreto che disponeva l’obbligo di soggiorno a carico del ricorrente non rappresentava la pena per uno specifico reato, bensì una misura di prevenzione adottata in quanto vi erano forti indizi della proclività al crimine. Non aveva la natura della detenzione che “segue e dipende” o avviene “a seguito di” una “condanna”. 46
26. L’articolo 5 § 1, lettera b) della Convenzione non si applica 47 . La detenzione del ricorrente non era il risultato dell’inosservanza di un decreto emesso da un tribunale 48 , o della necessità di assicurare l’adempimento di uno specifico obbligo prescritto dalla legge 49 .
27. L’articolo 5 § 1, lettera c) della Convenzione non si applica 50. Il ricorrente non si trovava in alcuna delle condizioni contemplate dalla lettera c). Non vi erano “motivi plausibili di sospettare che avesse commesso un reato”, né evi erano “fondati motivi di ritenere che fosse necessario impedirgli di commettere un reato” o “di darsi alla fuga dopo averlo commesso”. La ragione è semplice: in conformità alla giurisprudenza fermamente consolidata della Corte, ai fini dell’articolo 5 § 1, lettera c) il sospetto deve riferirsi a un “reato concreto e specifico” 51 , che non era il caso previsto nella Legge italiana del 1956.
28. L’articolo 5 § 1, lettera d) non si applica 52 , dato che il ricorrente non era un minore.
29. L’ articolo 5 § 1, lettera e) non si applica 53. Il ricorrente non è compreso in alcuna delle categorie menzionate da tale disposizione.
30. In ultimo, l’articolo 5 § 1, lettera f) qui non è neanche pertinente 54 .
31. Per riassumere, la privazione di libertà del ricorrente deve essere biasimata per due motivi principali: in primo luogo non era compatibile con il principio di legalità previsto nell’articolo 5 § 1 della Convenzione ,e in secondo luogo non era prevista da alcuna disposizione eccezionale dell’articolo 5 § 1 lettere a-f). La sentenza della Corte ha trattato solo il primo aspetto. A mio avviso, era imperativo che la Corte effettuasse un ulteriore passo e affrontasse la delicata questione della compatibilità con la Convenzione della privazione del diritto alla libertà ante o praeter delictum ai fini della prevenzione dei reati.
Alla luce di quanto sopra la conclusione è imperativa: la Convenzione non prevede un motivo di privazione del diritto alla libertà ante o praeter delictum ai fini della prevenzione dei reati.
Parte 2 (§§ 32-58)
IV. Garanzie processuali in relazione a misure di prevenzione (§§ 32 48)
A. Applicabilità dell’articolo 6 § 1 (aspetto penale) della Convenzione (§§ 32-43)
32. Secondo la giurisprudenza relativa alla causa Engel e altri 55, i criteri pertinenti per l’applicabilità dell’aspetto penale dell’articolo 6 sono la qualificazione giuridica del reato in questione nella legislazione nazionale, l’effettiva natura del reato e la natura e il grado di severità della pena che può essere inflitta all’interessato. Tali criteri sono inoltre alternativi e non cumulativi: perché si applichi l’articolo 6 in ordine alle parole “accusa penale”, è sufficiente che il reato in questione debba essere per sua natura “penale” dal punto di vista della Convenzione, o debba aver comportato che all’interessato possa essere applicata una sanzione che, a causa della sua natura e del grado di severità, appartenga in generale alla sfera “penale”. Ciò non preclude un approccio cumulativo qualora l’analisi distinta di ciascun criterio non permetta di pervenire a una chiara conclusione sull’esistenza di una “accusa penale 56 .
33. Diversi argomenti sono favorevoli alla conclusione che alla luce dei summenzionati criteri le varie misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956 sono misure penali.
In primo luogo, le misure di prevenzione personali di cui alla Legge del 1956 erano basate su una “accusa penale” ai sensi della Convenzione. L’accusa consisteva nell’imputazione di una condotta pericolosa o di una personalità pericolosa che induceva a sospettare una futura attività criminale. Come sottolineato nella causa Deweer 57, la Corte deve valutare se “la situazione della [persona sospettata] abbia subito ripercussioni sostanziali”. Ciò corrisponde interamente alla situazione di cui alla Legge del 1956, in quanto la persona interessata da tale procedimento è diventata un “sospetto” (si veda il linguaggio corrispondente nell’articolo 4 della Legge: sospetti; articolo 5: persona sospetta di vivere, di non dare ragione di sospetti).
34. In secondo luogo, appena era instaurato il procedimento ai sensi della Legge del 1956, il sospetto poteva essere sottoposto a restrizioni temporanee dei suoi diritti a norma dell’articolo 6 della Legge.
35. In terzo luogo, se i sospetti erano confermati da una sentenza, la persona sospettata poteva essere sottoposta a misure altamente restrittive che incidevano su un’ampia gamma di libertà fondamentali, per un periodo che poteva durare cinque anni. Tale termine poteva essere ulteriormente esteso se la persona sospettata commetteva un reato nel corso del periodo in cui era sottoposta a sorveglianza speciale, in conformità all’articolo 11 della Legge del 1956. La severità di tali misure era incontestabile.
36. In quarto luogo, come questione di principio, la Corte costituzionale stessa ritiene che le misure di prevenzione previste dalla Legge del 1956 siano di natura penale, allo stesso modo delle misure di sicurezza. La Corte costituzionale stessa ha osservato molto tempo fa “il fondamento comune e la comune finalità” delle misure di sicurezza (misure di sicurezza) e delle misure di prevenzione (misure di prevenzione), nella sua sentenza n. 68 del 1964 58 . Con sentenza n. 177 del 1980, la Corte costituzionale ha equiparato le misure di prevenzione personali di cui alla Legge del 1956 alle misure di sicurezza previste dal codice penale, come se fossero “due species di un unico genus” 59 . Conseguentemente, applica a esse le garanzie dei principi di legalità e della presunzione di innocenza 60 . Tuttavia come le misure di sicurezza, le misure di prevenzione non sono limitate dal principio del divieto di retroattività della legge 61 .
37. In quinto luogo, tali misure avevano una finalità di prevenzione generale e speciale, come qualsiasi ordinaria sanzione penale. In pratica, si basavano anche sul carattere socialmente riprovevole della condotta del sospetto, fattore che costituisce similmente la base dei qualsiasi sanzione penale. Gli studiosi del diritto italiani hanno sempre sottolineato lo stretto nesso tra le misure di prevenzione personali e il diritto penale e i suoi fini . 62
38. In sesto luogo, la violazione delle misure penali previste dalla Legge del 1956 era punibile con la pena della reclusione fino a cinque anni 63 . Il carattere altamente repressivo delle misure di prevenzione era inoltre peggiorato dal fatto che l’applicazione di tali misure era considerata un fattore aggravante nell’ambito della condanna per vari reati previsti dal codice penale.
39. In settimo luogo, l’articolo 4 della Legge del 1956 prevedeva che gli articoli generali 636 e 637 del codice di procedura penale, che disciplinano la procedura penale, erano applicabili anche alle misure di prevenzione personali. La Corte costituzionale stessa ha ammesso, con sentenza n. 306 del 1997, che nonostante le differenze che separavano il procedimento penale ordinario da quello concernente misure di prevenzione “quest’ultimo si trova ad essere modellato sulle forme del primo”. L’avviso dell’udienza relativa al procedimento concernente le misure di prevenzione assomigliava a una vera e propria vocatio in iudicium simile al decreto di citazione in un ordinario procedimento penale, e il decreto giudiziario che applicava una misura di prevenzione assomigliava a una vera e propria sentenza, che doveva contenere le motivazioni 64 .
40. In ottavo luogo, benché alle misure di prevenzione patrimoniali si applicassero le garanzie di un pubblico ed equo processo, come ha già riscontrato la Corte nelle cause Bocellari e Rizza e Capitani e Campanella (entrambe citate sopra), esse si sarebbero dovute applicare a fortiori alle misure di prevenzione personali.
41. In nono luogo, in considerazione della gravità delle misure applicabili, sarebbe inconcepibile che i sospettati in procedimenti ai sensi della Legge del 1956 non abbiano il diritto di essere informati delle accuse a loro carico (articolo 6 § 3, lettera a)), diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la propria difesa, diritto a difendersi personalmente e a presentare prove a discarico (articolo 6 § 3, lettere b) e c)), e diritto ad avere l’assistenza di un difensore di propria scelta (articolo 6 § 3, lettera c)). Tali requisiti essenziali del procedimento penale sono similmente applicabili ai sensi della Legge del 1956: per esempio, “l’interessato può presentare osservazioni ed essere rappresentato da un avvocato ” (sentenza della Corte costituzionale n. 76/1970).
42. In decimo luogo, la Corte ha rilevato che le violazioni disciplinari erano contemplate dall’aspetto penale dell’articolo 6 della Convenzione, in particolare a causa della severità delle pena 65 . In astratto, le misure applicabili ai procedimenti di cui alla Legge del 1956 erano più severe delle usuali sanzioni disciplinari. Le misure di prevenzione applicate al ricorrente confermano tale valutazione generale. L’aspetto penale dell’articolo 6 dovrebbe quindi essere a fortiori applicabile nel caso di specie 66 .
43. Alla luce di quanto sopra, le misure di prevenzione personali, previste dalla Legge del 1956, sono di natura penale. Sono soddisfatti tutti i tradizionali criteri derivanti dalla giurisprudenza della causa Engel e altri and Others 67 . La presente causa rispecchia visibilmente la natura eccessivamente punitiva delle misure di prevenzione di cui alla Legge del 1956, nella misura in cui l’elenco delle misure applicabili è troppo ampio e non esaustivo e la durata della loro applicazione è eccessiva (cinque anni, che tuttavia prorogabili). Inoltre l’ingerenza nelle libertà fondamentali della persona sospettata è talmente grave che sono necessarie le garanzie dell’aspetto penale dell’articolo 6. La situazione in Italia è particolarmente cruciale dato che tali misure potevano essere applicate anche dopo un’assoluzione in un procedimento penale.
B. Applicazione dell’articolo 6 al caso di specie: assenza di udienza pubblica e di un equo processo (§§ 44-48)
44. Le doglianze presentate ai sensi dell’articolo 6 (aspetto penale) possono essere sintetizzate come segue: assenza di una pubblica udienza; omesso svolgimento di una corretta valutazione delle prove; e assenza di un ricorso. Dato che l’articolo 6 (aspetto penale) è applicabile, resta da determinare se sia stato violato. A mio avviso vi è stata violazione di tale articolo per tre motivi.
45. Come ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sua sentenza n. 93/2010, la pubblica udienza è un requisito fondamentale per un procedimento di questo tipo. Il Governo ha riconosciuto che il ricorrente è stato vittima di una violazione dell’articolo 6 § 1 in ragione dell’assenza di una pubblica udienza dinanzi ai tribunali interni.
46. Nella valutazione delle prove si sono verificati due gravi errori: in relazione all’attività lavorativa agricola del ricorrente dal 2005, come riconosciuto dalla Corte di appello (successivamente alla scarcerazione avvenuta nel 2005, il ricorrente si è costantemente dedicato a un’attività lavorativa lecita che gli ha fornito una fonte dignitosa di reddito (“dopo la sua scarcerazione del 2005 si è costantemente dedicato sino ad oggi ad attività lavorativa lecita che gli assicura una fonte dignitosa di sostentamento”), diversamente dalla valutazione effettuata in primo grado; e in relazione alle dedotte violazioni agli obblighi della sorveglianza speciale (“violazioni agli obblighi di sorveglianza”). La Corte di appello ha riconosciuto un grave errore di identità, ed essa ha espressamente dichiarato che le violazioni degli obblighi che hanno comportato l’applicazione della misura della sorveglianza speciale riguardavano un diverso soggetto.
47. Benché la Corte non controlli normalmente gli errori commessi nella valutazione delle prove, essa lo fa quando sono manifesti e flagranti, come nel presente caso. Tali errori sono stati effettivamente di dimensione tale da influire sulla essenziale equità del procedimento. Osservo inoltre che il tribunale di primo grado ha giustificato la misura soltanto con due brevi paragrafi.
48. In sintesi, l’articolo 6 (aspetto penale) è applicabile ed è stato violato.
V. Mezzi di ricorso interni in relazione alla causa in esame (§§ 49-58)
A. Assenza di un rapido riesame giudiziario (§§ 49-53)
49. Avendo votato contro la decisione di irricevibilità della doglianza ai sensi dell’articolo 5, ho votato nel merito a favore della constatazione della violazione dell’articolo 13, per i seguenti motivi.
Il ricorrente è stato sottoposto a un eccessivo numero di misure penali di ampio raggio e varie per un tempo eccessivamente lungo, del tutto sproporzionato ai vaghi e infondati sospetti a suo carico. Si deve sottolineare che le misure sono state applicate al ricorrente per 221 giorni, nonostante il termine di legge di trenta giorni entro il quale la Corte di appello doveva pronunciarsi. Tale termine, prescritto dalla legislazione interna, non è stato rispettato.
50. Nel caso di specie le misure sono state annullate ex tunc, mettendo in questione la loro base giuridica 68 . Il ricorrente ha dovuto sopportare un onere eccessivo, in quanto sono stati impiegati nove mesi per determinare la legittimità delle misure, mentre la legge prescrive un termine di trenta giorni, e il giusto equilibrio è stato pertanto sconvolto.
51. Detto ciò, per me è chiaro che non esisteva un ricorso appropriato, come risulta dalla ratio della sentenza della Corte costituzionale n. 93/2010 sull’assenza di una pubblica udienza nei procedimenti dinanzi alla Corte di appello e l’eccessivo ritardo nella risposta da parte del Tribunale di secondo grado.
52. Inoltre, nel garantire alle persone detenute il diritto a ricorrere in giudizio per contestare la legittimità della privazione della libertà; cui sono sottoposte, l’articolo 5 § 4 proclama anche il loro diritto, a seguito dell’instaurazione di tale procedimento, a una rapida decisione giudiziaria relativa alla legittimità della detenzione e che ne disponga la cessazione qualora essa risulti illegittima. Inoltre, la questione di sapere se sia stato rispettato il diritto delle persone detenute a una rapida decisione deve – come nel caso dell’osservanza del requisito del “termine ragionevole” di cui agli articoli 5 § 3 e 6 § 1 della Convenzione – essere determinata alla luce delle circostanze di ciascuna causa 69 .
53. Il procedimento instaurato dinanzi alla Corte di appello non era compatibile con l’articolo 5 § 4, in quanto non soddisfaceva il requisito della rapidità. Vi è pertanto stata violazione dell’articolo 5 § 4 della Convenzione 70 . Dato che la doglianza ai sensi dell’articolo 5 è stata ritenuta irricevibile dalla maggioranza, ho votato a favore della constatazione della violazione dell’articolo 13, sulla base della summenzionata carenza del ricorso nazionale in caso di assenza di un rapido riesame giudiziario.
B. Assenza di risarcimento per l’illegittima misura di prevenzione (§§ 54-58)
54. Come la Corte ha costantemente ritenuto, il diritto al risarcimento sancito nell’articolo 5 § 5 della Convenzione presuppone che sia stata accertata la violazione di uno degli altri paragrafi di tale articolo, o da parte di un’autorità interna o da parte degli organi previsti dalla Convenzione 71 . Nel caso di specie, in conseguenza della violazione dell’articolo 5 § 1, avrebbe dovuto essere applicato il paragrafo 5. Conseguentemente, la Corte avrebbe dovuto esaminare se il ricorrente avesse un ricorso disponibile ai sensi della legislazione italiana ai fini dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.
55. L’articolo 314 del codice di procedura penale prevede il diritto a una riparazione in due distinti casi: qualora l’imputato sia stato prosciolto nell’ambito di un procedimento penale di merito (risarcimento per una ingiustizia sostanziale, previsto al comma 1) o quando risulti accertato che l’indagato sia stato collocato o mantenuto in custodia cautelare in violazione degli articoli 273 e 280 del codice di procedura penale (risarcimento per un’ingiustizia “procedurale”, previsto al comma 2).
56. Con sentenza n. 310 del 1996, la Corte costituzionale ha ritenuto che, oltre ai casi previsti nell’articolo 314 del codice di procedura penale, le persone avessero diritto al risarcimento qualora fossero state detenute ingiustamente in conseguenza di un illegittimo ordine di esecuzione di una pena. Inoltre, con sentenza n. 284 del 2003, la Corte costituzionale ha precisato che il diritto al risarcimento per l’ingiusta detenzione non fosse precluso per il mero fatto che l’ordine era legittimo o che la detenzione era il risultato di una condotta legittima da parte delle autorità interne. Quello che importava era l’obiettiva ingiustizia della privazione della libertà.
57. Per quanto sopra esposto, è chiaro che non vi erano disposizioni che conferivano al ricorrente il diritto di promuovere un’azione risarcitoria nei tribunali nazionali a causa di una misura di sorveglianza speciale. Da una lettura dell’articolo 314 del codice di procedura penale e della pertinente giurisprudenza della Corte costituzionale, risulta che la possibilità di chiedere il risarcimento del danno subito in conseguenza della misura di sorveglianza speciale non sia prevista in alcuno scenario citato sopra. Di fatto, il Governo stesso ha già riconosciuto tale carenza nella causa Vito Sante Santoro (sopra citata) 72.
58. Conseguentemente, vi è anche stata violazione del paragrafo 5 dell’articolo 5 della Convenzione 73 . Viste le conclusioni della maggioranza ai sensi dell’articolo 5, ho votato a favore della constatazione della violazione dell’articolo 13 della Convenzione, in ragione dell’assenza di ricorsi nazionali per risarcire il danno subito dal ricorrente, oltre all’assenza di un rapido riesame giudiziario.
VI. Conclusione (§§ 59-60)
59. Gli articoli 5 e 6 (aspetto penale) della Convenzione sono applicabili al caso di specie. Il ricorrente è stato vittima di una violazione dei diritti riconosciutigli dagli articoli 5 e 6, in conseguenza di un serie di misure penali draconiane, che costituiscono un reliquato superato di strutture giuridiche liberticide, e che sono, alla luce delle condizioni attuali 74 , totalmente in conflitto con lo stato di diritto intrinseco in uno Stato democratico, il diritto alla libertà e i requisiti fondamentali di un equo e pubblico processo, sanciti dagli articoli 5 e 6 della Convenzione, per non parlare degli altri diritti e libertà fondamentali quali la libertà di riunione.
60. La strada da seguire è chiara. Il legislatore italiano deve evidentemente trarre dalla presente sentenza tutte le conclusioni logiche in relazione al recente Decreto legislativo n. 159/2011, e prima lo fa meglio è.
OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE KŪRIS
1. Come il Giudice Pinto de Albuquerque, sono dell’opinione che l’articolo 5 della Convenzione fosse applicabile nel caso di specie. Sottoscrivo seriamente i rilievi del mio illustre collega, esposti nella sua opinione parzialmente dissenziente, sulla natura penale delle misure di “prevenzione” applicate al ricorrente. Metto la parola “prevenzione” tra virgolette, poiché, come trapela senza ambiguità dal fascicolo, ai fini della legislazione interna applicata non vi era assolutamente niente da “prevenire” nella condotta del ricorrente. (Svilupperò questa questione a tempo debito) Anch’io concordo con il rilievo che, date le circostanze della causa, tali misure sarebbero equivalse a una privazione della libertà se fossero state valutate “cumulativamente e congiuntamente”, come richiesto dal criterio di cui alla causa Guzzardi. In particolare, il ricorrente del caso di specie, diversamente da quello della causa Guzzardi (6 novembre 1980, § 108, Serie A n. 39), non è stato in verità costretto a vivere su un’isola, ma le misure di “prevenzione” gli sono state applicate per un periodo molto più lungo – 221 giorni (e notti) contro i 165 giorni della causa Guzzardi. Nel caso di specie, una valutazione “cumulativa” delle misure contestate avrebbe richiesto lo svolgimento di un esame molto più dettagliato di tutte le pertinenti circostanze fattuali, compreso dell’essenza di ciascuna misura restrittiva, singolarmente e “congiuntamente”, nonché del fatto che erano state applicate al ricorrente sotto la minaccia (estremamente realistica) della reclusione. La necessità di un simile esame approfondito delle circostanze fattuali presupponeva l’esame della doglianza ai sensi dell’articolo 5.
Perciò, pur condividendo la dottrina che “proclamando il ‘diritto alla libertà’, il paragrafo 1 dell’articolo 5 contempla la libertà fisica della persona”, che “per determinare se una è stata ‘privata della libertà’ ai sensi dell’articolo 5, il punto di partenza deve essere la specifica situazione della stessa e si deve tener conto di una serie di fattori quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura in questione” e che “la differenza tra differenza tra la privazione della libertà e la restrizione della libertà riguarda il grado o l’intensità, e non il carattere o la sostanza” (si veda il paragrafo 80 della sentenza), non posso essere d’accordo sul fatto che la “valutazione della natura delle misure di prevenzione previste dalla Legge del 1956”, applicate al ricorrente del caso di specie, le ha esaminate “cumulativamente e congiuntamente” (ibid.).
2. Nella causa Guzzardi (sopra citata), decisa in un’epoca in cui l’Italia non aveva ancora ratificato il Protocollo n. 4, la Corte ha constatato che “vi era stata (…) privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5” (si veda il punto 4 del dispositivo; si veda altresì il punto 8, in cui è “sintetizzato (…) che (…) il ricorrente è stato vittima di una violazione dell’articolo 5 § 1”) e che tale privazione della libertà non era giustificata ai sensi di varie lettere dell’articolo 5 § 1 (si vedano i punti 5, 6 e 7 del dispositivo). Alla luce di questa constatazione, la conclusione della maggioranza nel caso di specie che l’articolo 2 del Protocollo n. 4 è applicabile alla situazione del ricorrente, mentre l’articolo 5 non lo è, significa quanto meno che una forma di privazione della libertà è considerata una privazione della libertà fino al momento in cui lo Stato membro diventa pienamente parte del Protocollo n. 4 e che la stessa forma di privazione della libertà cessa di essere una privazione della libertà quando il Protocollo n. 4 entra in vigore per lo Stato membro interessato (o, quanto prima possibile, una volta che esso ratifica tale Protocollo). Per estensione, ciò significherebbe che quella che può essere una privazione della libertà in uno Stato può non essere una privazione della libertà in un altro. È la Corte pronta ad accettare che in ipotetiche causa identiche contro la Svizzera, la Turchia o il Regno Unito, che non hanno ratificato il Protocollo n. 4, l’articolo 5 sarebbe applicabile, mentre esso non è applicabile in cause identiche contro, per esempio, l’Italia, la Francia o la Lituania, che lo hanno ratificato?
Sarebbe una posizione molto interessante e stimolante in cause relative al diritto alla libertà. L’unico problema con un’interpretazione così “pluralistica” e “flessibile” (non nel senso più attraente di queste parole) della Convenzione e dei suoi Protocolli è che ha poco (se non niente del tutto) a che fare con i canoni dell’interpretazione giuridica in generale o con il diritto umano alla libertà, come sancito dalla Convenzione, in particolare.
3. Sono anche convinto che non solo l’articolo 5 è applicabile nel caso di specie ma che vi è anche stata violazione di questo articolo. Le misure di “prevenzione” applicate al ricorrente (con la minaccia della reclusione) costituivano, nella loro totalità e ampiezza e con riguardo al lungo periodo nel quale sono state applicate, una privazione della libertà, sia in termini di uso ordinario della parola “libertà” come dettato dal senso comune che ai fini dell’articolo 5, la cui interpretazione giurisprudenziale, mi piacerebbe credere, dovrebbe tendere a non allontanarsi dal senso comune.
Perché cos’altro erano tali misure di «prevenzione » se non una privazione della libertà, applicate al ricorrente in un modo che era soltanto un copia e incolla meccanico e indiscriminato delle disposizioni di legge? Che esse siano state applicate indiscriminatamente, vale a dire, senza tener conto della concreta situazione del ricorrente, è ovvio dal fatto che egli era obbligato « a darsi alla ricerca di un lavoro entro un mese », benché, come successivamente accertato dalla Corte di appello di Bari, egli si fosse “costantemente dedicato sino ad oggi ad attività lavorativa lecita che gli assicura una fonte dignitosa di sostentamento” (si veda il paragrafo 27 della sentenza). Alcune di queste misure erano molto restrittive e comprendevano un elemento di privazione della libertà nel suo senso più diretto – “fisico”! Ossia, il ricorrente era obbligato “a non rincasare dopo le ore 22 e a non uscire di casa prima delle ore 6, senza comprovata necessità e comunque senza averne data tempestiva notizia all’Autorità locale di P.S.”, che comprendeva effettivamente un elemento di arresto domiciliare e in tal senso equivaleva a un arresto domiciliare “interrotto”, o “incompleto” (su questa questione, concordo, ancora una volta, con i rilievi del Giudice Pinto de Albuquerque). Il rilievo della maggioranza secondo il quale tale misura non era un arresto domiciliare sulla base del fatto che “a norma della legislazione italiana, una persona sottoposta agli arresti domiciliari è considerata in stato di custodia cautelare” (si veda il paragrafo 87 della sentenza) va contro i fondamentali canoni di interpretazione della Convenzione: è probabile che la misura discussa qui – “non rincasare dopo le ore 22 e non uscire di casa prima delle ore 6, senza comprovata necessità e comunque senza averne data tempestiva notizia all’Autorità locale di P.S.” – non sia considerata un arresto domiciliare a norma della legislazione italiana, ma non è un arresto domiciliare a norma della Convenzione? A mio avviso, la sentenza relativa alla causa Buzadji c. Repubblica di Moldavia ([GC], n. 23755/07, CEDU 2016) sostiene il contrario. In primo luogo, la Convenzione è uno strumento autonomo dalla legislazione interna (in questo caso italiana) ed è sempre stata trattata dalla Corte come tale. Non è più così? In secondo luogo, le 221 notti trascorse dal ricorrente sottoposto a tale misura (con la minaccia della reclusione) indicano che il “grado e l’intensità” (ibid., § 104) della misura erano lungi dall’essere insignificanti.
Ma vi è dell’altro sul contenuto delle misure contestate.
4. Alcune misure erano manifestamente irrazionali e difficili da spiegare nel ventunesimo secolo, come il divieto per il ricorrente di utilizzare “telefoni cellulari o apparati radioelettrici di comunicazione” – ma non internet e in particolare non Skype (la legge applicata risaliva al periodo precedente a internet). Questo è divertente. Sarebbe stato più comprensibile se i tribunali avessero proibito al ricorrente di comunicare con alcune persone, ma esse hanno scelto di proibirgli di comunicare con alcuni mezzi.
5. Inoltre alcune misure si escludevano reciprocamente. Per esempio, il ricorrente era obbligato “a darsi alla ricerca di un lavoro entro un mese” – impresa quasi inutile fin dall’inizio, dato che, oltre al divieto generale impostogli di non uscire di casa prima delle ore 6 e di non rincasare dopo le ore 22, gli era proibito di “usare telefoni cellulari”, di “partecipare a pubbliche riunioni” o di guidare un veicolo (dato che gli era stata revocata la patente di guida). A Casamassima, una città con una popolazione inferiore ai diciottomila abitanti al momento pertinente, non vi erano probabilmente molti datori di lavoro che avrebbero abbracciato con entusiasmo la prospettiva di assumere tale “imbarazzante” – se non “inutile” – dipendente.
6. Tutto ciò, unito al divieto per il ricorrente “di associarsi a persone che avevano riportato condanne e che erano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza” (tutte? anche se erano, per esempio, suoi parenti? o anche se non sapeva che le persone con cui gli capitava di associarsi in un modo o nell’altro avevano riportato condanne di qualche tipo?) e “di non trattenersi nelle osterie, nelle bettole, o nelle “sale giochi” (…) e non partecipare a pubbliche riunioni” (tutte le riunioni? comprese quelle organizzate, per esempio, dai sindacati, se fosse riuscito a trovare un lavoro e si fosse iscritto a uno di essi? o poteva andare a teatro o agli spettacoli, che erano sia “pubblici” che “riunioni”?) può condurre il lettore a domandarsi che cosa abbia in mente la maggioranza quando dichiara che “al ricorrente… non era stato precluso di avere rapporti sociali” (corsivo aggiunto), dato che “non era stato costretto a vivere in una zona ristretta” (si veda il paragrafo 85 della sentenza).
7. Se la maggioranza avesse deciso a favore dell’applicabilità dell’articolo 5 e concluso che vi era stata violazione di tale articolo, non sarebbe stato necessario per la Grande Camera dedicarsi all’esame della dedotta violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione e produrre pertanto un ragionamento che sottolinea ingiustificabilmente poco (chiaramente troppo poco) l’essenziale caratteristica fattuale di questo caso, vale a dire che si tratta di un caso di errore di identità. Certamente, è stato violato anche l’articolo 2 del Protocollo n. 4, ma – dato che qualsiasi ingerenza nel diritto di una persona alla libertà comprende sempre, per definizione, un’ingerenza nella sua libertà di circolazione – la constatazione della violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 sarebbe stata “contemplata” dalla constatazione “più generale” della violazione dell’articolo 5.
Tuttavia, dato che la maggioranza ha ritenuto l’articolo 5 inapplicabile, non ho avuto altra scelta che votare a favore della constatazione della violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 (si veda il punto 4 del dispositivo).
8. Concordo anche con il Giudice Pinto de Albuquerque sull’applicabilità dell’aspetto penale dell’articolo 6 § 1 e condivido la sua opinione che tale articolo sia stato violato proprio sotto tale aspetto. Secondo la maggioranza “l’aspetto penale dell’articolo 6 § 1 della Convenzione non è applicabile, in quanto la sorveglianza speciale non è paragonabile a una sanzione penale, dato che il procedimento concernente il ricorrente non riguardava la determinazione di una ‘accusa penale’ ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione” (si veda il paragrafo 143 della sentenza). Per provare ciò, la maggioranza rinvia alle cause Guzzardi (sopra citata, § 108) e Raimondo c. Italia (n. 12954/87, 22 febbraio 1994, § 43, Serie A n. 281 A). Non è un riferimento molto felice. Il paragrafo della sentenza relativa alla causa Guzzardi (un ricorso deciso nel lontano 1980) citato al paragrafo 143 della sentenza contiene pochi (se non nessuno) principi dottrinali definitivi di carattere generale. È esplicitamente impreciso in ordine alla natura del diritto alla libertà. Il paragrafo relativo alla causa Raimondo citato nello stesso paragrafo 143 della sentenza non fa a sua volta luce sulla questione, dato che rinvia soltanto al paragrafo relativo alla causa Guzzardi di cui sopra, benché senza le condizioni contenute nel paragrafo originale della causa Guzzardi.
9. A proposito, il Governo non ha formulato osservazioni sulla affermazione del ricorrente secondo la quale l’aspetto penale dell’articolo 6 § 1 era applicabile “ai procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione personali in quanto riguardavano la libertà personale del cittadino ed erano disciplinati dalle disposizioni del codice di procedura penale” (si vedano i paragrafi 141 e 142 della sentenza).
Tale astensione deve avere un significato.
10. Nel contesto dell’applicabilità (trasformata dalla maggioranza in inapplicabilità) dell’aspetto penale dell’articolo 6 § 1, deve essere menzionato un ulteriore aspetto. Di fatto esso è menzionato nel paragrafo 14 della sentenza, ma è poi stato completamente ignorato nel ragionamento. Nel paragrafo 14 della sentenza è dichiarato che “Il Tribunale ritenne che il ricorrente fosse “attivamente” proclive al reato e che le prove agli atti dimostrassero che egli traeva gran parte dei mezzi di sostentamento dall’attività criminosa” (corsivo aggiunto).
Pertanto le misure contestate sono stata una risposta ufficiale e una risposta giudiziaria alla asserita “proclività al reato” e “all’attività criminosa” attribuite al ricorrente e in tal senso non erano soltanto “preventive” ma anche “punitive”.
11. Ciò, conseguentemente, contrasta con la conclusione della maggioranza che non vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 1 “in ordine al diritto a un equo processo” (si veda il punto 7 del dispositivo).
Perciò si ritiene che il diritto a un equo processo non sia stato violato in una situazione in cui: i) le autorità prendono la persona “sbagliata” e, in un procedimento giudiziario non pubblico, le applicano misure di “prevenzione” severe e lunghe, anche se la stessa afferma di non essere la persona a carico della quale sono state acquisite “prove fattuali”; ii) la persona non è in grado di far riconoscere l’ovvio fatto dell’errore di identità, né a farlo riconoscere da un tribunale di grado superiore, per oltre sette mesi, in flagrante inosservanza del termine di legge di trenta giorni; e iii) quando, alla fine, è scoperto l’errore, a tale persona non è concesso un risarcimento per la sua qualità di vittima. Neanche delle scuse.
Non vi è stato alcun danno?
In altre parole, se in tale situazione non è stato violato il diritto a un equo processo, il processo è stato equo.
Equo?!
12. Il Governo ha sostenuto che “il ricorrente aveva avuto accesso a un ricorso e se ne era avvalso con successo” (si veda il paragrafo 162 della sentenza – corsivo aggiunto; si veda altresì il paragrafo 103).
La maggioranza sembra concordare con tale approccio.
Alla fine il ricorrente ha avuto “successo” nel senso che le misure di “prevenzione” sono state annullate. Ma può la Corte chiudere gli occhi sul fatto che il ricorrente non abbia avuto successo in tante altre occasioni? Non è riuscito a impedire l’applicazione nei suoi confronti delle misure contestate nel corso del primo procedimento in Tribunale. Non è riuscito a portare il suo caso all’attenzione del Tribunale di grado superiore per un periodo che era maggiore più di sette volte del termine di legge. Non ha avuto successo nel ricorso in appello, nel senso che non gli è stato riconosciuto un risarcimento o almeno le scuse da parte delle autorità. Di fatto quello che ha ricevuto era l’esatto contrario delle scuse : il Governo ha dichiarato che la Corte di appello di Bari ”non aveva riconosciuto che vi era stato un errore di identità”, ma aveva “semplicemente rivalutato tutte le prove su cui si era basata la decisione del Tribunale [concludendo] che il ricorrente non costituiva un pericolo per la società” (si veda il paragrafo 103; corsivo aggiunto).
È questo che sarà chiamato “successo” d’ora in avanti ?
Forse nella giurisprudenza, ma non nella vita. E ciò sarebbe a scapito della giurisprudenza.
13. In ordine alla dedotta violazione dell’articolo 13, alcuni rilievi a favore della constatazione della violazione sono già stati esposti sopra. Il fatto che il termine previsto per il riesame giudiziario cui il ricorrente aveva diritto fosse stato superato fino a tal punto parla da solo. Ma il fatto che al ricorrente non sia stato concesso alcun risarcimento per le misure di “prevenzione” che gli erano state applicate ed erano state successivamente annullate ex tunc dalla Corte di appello di Bari (si veda il paragrafo 20 della sentenza) fa propendere ancora più fortemente per la violazione dell’articolo 13. Se tali misure avessero avuto una base nella legislazione all’epoca in cui sono state applicate, probabilmente non sarebbero state annullate ex tunc.
14. Adesso passo alla fondamentale divergenza tra gli approcci della maggioranza e il mio. Tale divergenza concerne il ragionamento che conduce alla constatazione della violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4. E ha anche molto a che fare con l’uso, nella presente opinione, della parola “prevenzione” tra virgolette.
15. Nel paragrafo 110 della sentenza è dichiarato che “la Legge n. 1423/1956, come interpretata alla luce delle sentenze della Corte costituzionale, ha costituito la base giuridica delle singole misure di prevenzione applicate al ricorrente” e che “pertanto (…) le misure di prevenzione in questione avevano una base giuridica nel diritto interno” (corsivo aggiunto).
No, no, no, e ancora una volta no.
La Legge in questione, qualunque fossero le sue carenze (molte di esse sono opportunamente osservate nella sentenza, e, in linea di principio, concordo con tale valutazione) parla delle misure di “prevenzione” che possono essere applicate a tre tipi di individui: i) “coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi;” e ii) “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”; e iii) “coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni; la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica.” (Corsivo aggiunto). La definizione cumulativa di questi tre tipi di individui è “persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità” (si vedano i paragrafi 33 e 34 della sentenza).
Né la suddetta categoria cumulativa, né nessuna delle altre tre sotto-categorie che la costituivano comprendevano, anche indirettamente, una persona che era stata scambiata dalle autorità, per un’altra, considerata dalle autorità giustamente o erroneamente “pericolosa per la sicurezza e la pubblica moralità”. Ai fini della Legge, le “prove fattuali” acquisite a carico del Sig. Roe non possono essere meccanicamente considerate acquisite a carico del Sig. Doe, che è stato scambiato per il Sig. Roe. E ciò a prescindere dal fatto che il Sig. Doe abbia o meno precedenti penali o condanne per altri reati. Naturalmente può succedere che acquisendo prove fattuali a carico del Sig. Roe le autorità possano imbattersi in elementi che incriminerebbero anche il Sig. Doe, ma anche in tal caso quest’ultimo deve essere non solo identificato direttamente e correttamente, ma anche gli elementi acquisiti a carico del Sig. Roe non possono essere considerati automaticamente e indiscriminatamente a carico del Sig. Doe.
La Corte costituzionale, inoltre, non ha mai interpretato la Legge (almeno direttamente, ma sembra anche implicitamente) in modo tale da consentire che la persona “sbagliata” sia trattata come qualcuno “pericoloso per la sicurezza e per la pubblica moralità” ai sensi dell’articolo 1 della Legge.
16. Pertanto, la Legge non era minimamente applicabile al ricorrente.
Le misure di “prevenzione” applicategli erano la conseguenza di un errore. Ciò è stato riconosciuto dalla Corte di appello di Bari, che ha annullato le misure contestate ex tunc (si vedano i paragrafi 20 e 26 della sentenza).
È così semplice. Hanno preso l’uomo sbagliato.
Un errore di identità è un errore di identità. Punto e basta.
17. Ancora una volta devo ripetermi (si veda il paragrafo 1 supra). Le misure di “prevenzione” corrette possono essere applicate legittimamente soltanto a un soggetto cui si deve “impedire” di fare qualcosa. Se non sussiste una base fattuale che giustifichi la necessità di “prevenzione” in ordine a una particolare persona, le misure restrittive applicate a tale persona non possono essere considerate di “prevenzione” nel senso proprio del termine.
18. Non solo lo stato di diritto, ma la comune decenza esigono che se è scoperto un errore in base al quale sono applicate gravi restrizioni a una persona scambiata per un’altra, a carico della quale erano state acquisite “prove fattuali”, le autorità dicono “ohibò!”, si scusano, archiviano il caso il più presto possibile e risarciscono la persona “sbagliata” per l’eventuale danno subito. Le cose dovrebbero andare così, a meno che non viviamo in un’altra realtà, in cui la legge applicata non ha niente a che fare con i fatti ai quali è applicata.
Inutile dire che tale mondo parallelo non è disciplinato dallo stato di diritto.
19. Tuttavia (come è già stato menzionato nel paragrafo 12 supra), il Governo ha affermato che la Corte di appello di Bari “non aveva riconosciuto che vi era stato un errore di identità” ma aveva “semplicemente rivalutato tutte le prove su cui si era basata la decisione del Tribunale, concludendo che il ricorrente non costituiva un pericolo per la società” (si veda il, paragrafo 103 della sentenza), come se tali prove potessero avere un rapporto con il ricorrente. Da tale affermazione trapela che il Governo convenuto deve ancora compiere un percorso per rendersi conto da solo delle semplici verità che disciplinano la condotta delle autorità in caso di errore di identità.
20. In considerazione del grave errore che ha avuto tante ripercussioni sulla situazione del ricorrente, le considerazioni giurisprudenziali sulla questione di sapere se la Legge fosse “accessibile” o sufficientemente “prevedibile” per il ricorrente, se fosse o non fosse “vaga”, “precisa” o “chiara”, e se le indicazioni sulla condotta che egli doveva adottare fossero “sufficienti” sono del tutto irrilevanti. Non sono necessarie per affermare che le misure di “prevenzione” contestate sono state applicate al ricorrente in assenza di qualsiasi base giuridica.
21. Perciò, benché concordi con la maggioranza che vi sia stata violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4, sono in profondo disaccordo con il ragionamento che ha condotto a tale conclusione. Tale ragionamento sostituisce la questione dell’applicazione della Legge alla situazione concreta del ricorrente con quella della “qualità della legge”. Quest’ultimo problema è stato “risolto” come questa Corte fosse una corte costituzionale che ha il compito di esaminare la conformità delle leggi a un diritto superiore, indipendentemente dalla questione di sapere a chi e come si applicano tali leggi e anche se esse sono o non sono applicate. In altre parole, questo ragionamento sostituisce il problema reale affrontato effettivamente da questo ricorrente e che è stato presentato alla Corte con il problema generale dei vantaggi e degli svantaggi delle norme giuridiche stesse. Benché (ancora una volta) non possa concordare con la maggioranza nella sua valutazione critica della insufficiente prevedibilità delle disposizioni applicate (constatazione che può essere utile per decidere eventuali azioni di altre persone cui potrebbe essere applicata tale Legge), tutto ciò ha ben poco a che fare con la causa del presente ricorrente. La libertà di circolazione del presente ricorrente è stata violata non perché è stata applicata alla sua situazione una legge “insufficientemente prevedibile” o “insufficientemente chiara”, “formulata in termini vaghi ed eccessivamente ampi”, ma a causa del fatto che tale legge, che permetteva restrizioni della libertà di circolazione (per non parlare della privazione della libertà stessa), è stata applicata a tale persona mentre – per il suo stesso contenuto – non avrebbe dovuto esserle applicata.
22. Al paragrafo 125 della sentenza la maggioranza dichiara che la legge in questione non era sufficientemente chiara e prevedibile per le “persone cui si applicavano le misure di prevenzione” (corsivo aggiunto).
Si potrebbe chiedere: dicendo “cui si applicavano” intendeva anche il ricorrente?!
Temo che, come suggerito dal ragionamento della maggioranza, la risposta a questa domanda non sia affatto ottimistica.
NOTE
1Armenia, Azerbaigian, Belgio, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Estonia, “ex Repubblica jugoslava di Macedonia”, Finlandia, Georgia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Montenegro, Polonia, Portogallo, Repubblica ceca, Repubblica di Moldavia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia, Ucraina e Ungheria.
1Nel 2011 è entrato in vigore il nuovo “codice anti-mafia”, che ha unificato la unifica la legislazione in materia di azioni di contrasto alla mafia e misure di prevenzione personali e reali e ha abrogate la Legge n. 1423/1956.
2Il silenzio dei padre fondatori della Repubblica italiana è stato intenzionale. Avevano in mente il precedente uso di tali misure da parte del regime fascista quale strumento di repressione politica (si vedano Fiandaca, “Misure di prevenzione (fondamenti costituzionali)”, in Dig. Pub., IX, 1994, e la voce “Misure di prevenzione”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, Torino, 1994; Barile, Diritto dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984; nonché Amato, “Commento all’ art.13”, in Branca (ed.), Commentario della Costituzione, Bologna, 1977).
3Si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 1964 che ha rigettato la questione della legittimità costituzionale dell’articolo 1 della Legge del 1956 con riferimento agli articoli 13, 25 e 27 della Costituzione italiana.
4L’intero passo pertinente della sentenza del 1964 recita: “nella descrizione delle fattispecie (di prevenzione) il legislatore debba normalmente procedere con diversi criteri da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, però, sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione rispetto alla previsione dei reati e dalla irrogazione delle pene.”
5Con riferimento ai punti 2, 3 e 4 dell’articolo 1 della Legge del 1956, la sentenza della Corte costituzionale n. 23 del 1964 ha escluso la possibilità che “le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti”, esigendo che “una oggettiva valutazione di fatti da cui risulti la condotta abituale e il tenore di vita della persona o che siano manifestazioni concrete della sua proclività al delitto, e siano state accertate in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione.”
6Si vedano i 53-56 della sentenza.
7Si vedano Labita c. Italia [GC], n. 26772/95, § 195, CEDU 2000 IV; Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, § 39, Serie A n. 281 A; e Ciancimino c. Italia, n. 12541/86, decisione della Commissione del 27 maggio 1991, Decisions and Reports 70. Nella giurisprudenza interna si vedano, per esempio, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 3 luglio 1996, Simonelli, e Corte di Cassazione, Sezione I, 17 gennaio 2008, n. 6613. Tra il 2005 e il 2013 tali misure di prevenzione sono state applicate a 30.511 persone, secondo i dati statistici contenuti nel fascicolo. Nonostante gli sia stato chiesto di fornire informazioni sul numero delle persone prosciolte nel corso di procedimenti penali, il Governo non ha fornito le informazioni richieste.
8Corte di Cassazione, Sezione I, 28 aprile 1995, Lupo.
9Si vedano Labita, sopra citata, § 196, e Ciancimino, sopra citata. Nella giurisprudenza interna, si vedano, per esempio, Corte di Cassazione, Sezione II, 20 aprile 2013, n. 26774.
10Corso, “Profili costituzionale delle misure di prevenzione: aspetti teorici e prospettivi di riforma”, in AA.VV., La legge antimafia tre anni dopo, Milano, 1986.
11Si veda, tra numerosi altri precedenti, Corte di Cassazione, Sezione VI, 19 gennaio 1999, Consolato, che specifica che i requisiti probatori di cui all’articolo 192 comma 2 del codice di procedura penale non si applicano ai procedimenti relativi all’applicazione di misure di prevenzione.
12Bricola, “Forme di tutela ‘ante delictum’ e profili costituzionali della prevenzione”, in AA.VV., Le misure di prevenzione, Atti del Convegno C.N.P.D.S., 26-28.4.1974, Milano, 1975.
13Si veda Balbi, “Le Misure di Prevenzione Personali”, contributo all’Incontro annuale dell’Associazione italiana dei docenti di diritto penale, 18 novembre 2016, Milano, p. 5. Si veda altresì Gallo, “Misure di prevenzione”, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, vol. XX, e Guerrini et al., Le misure di prevenzione, Padova, 2004.
14Per esempio, l’articolo 644 del codice penale: “Le pene per i fatti di cui al primo e secondo comma sono aumentate da un terzo alla metà: … se il reato è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale durante il periodo previsto di applicazione e fino a tre anni dal momento in cui è cessata l’esecuzione.”
15Si veda Balbi, sopra citato, p. 12.
16Corte di Cassazione, Sezione I, 10 febbraio 2009, M.M.
17Corte di Cassazione, Sezione I, n. 6285/97, Capizzi.
18Corte di Cassazione, Sezione I, 16 aprile 1998, Castellano.
19Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 25 marzo 1993, n. 6, dep. 14 luglio 1993, imp. Tumminelli, Rv. 194062.
20La revoca delle misure cautelari per mancanza di gravi indizi di colpevolezza richiesti dall’articolo 273 del codice di procedura penale non è di ostacolo all’applicazione di misure di prevenzione personali (Corte di Cassazione, Sezione I, n. 5760/99, Iorio).
21Si veda Balbi, sopra citato, p. 17.
22Elia, Libertà personale e misure di prevenzione, Milano, 1962, e “Libertà personale tra l’articolo 13 e l’articolo 25 della Costituzione”, in Giur. Cost. 1964, Petrini, La prevenzione inutile. Illegittimità delle misure praeter delictum, Napoli, 1996, e Moccia, “La lotta alla criminalità organizzata”, in Vallefuoco e Gialanella (eds.), La difficile antimafia, Roma, 2002.
23Traduzione: “All’inizio vi è il sospetto”. L’espressione proviene dalla procedura penale medievale. Si veda Balbi, sopra citato, p. 17.
24Amodio, « Il processo di prevenzione: l’illusione della giurisdizionalità », Giust. pen., 1975, III.
25Traduzione: “All’inizio vi è l’atto”. Si veda Bettiol, “Il problema penale”, 1945, in Scritti giuridici, I, p. 678.
26Si vedano Raimondo, Labita, entrambe citate sopra, e Vito Sante Santoro c. Italia, n. 36681/97, CEDU 2004 VI.
27Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, Serie A n. 39.
28Monno c. Italia (dec.), n. 18675/09, 8 ottobre 2013.
29Ibid., § 26.
30Ibid., § 27.
31Si vedano Bocellari e Rizza, n. 399/02, §§ 34-41, 13 novembre 2007; Perre e altri c. Italia, n. 1905/05, §§ 23-26, 8 luglio 2008; Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07, §§ 27-30, 5 gennaio 2010; Leone c. Italia, n. 30506/07, §§ 26-29, 2 febbraio 2010; e Capitani e Campanella c. Italia, n. 24920/07, §§ 26-29, 17 maggio 2011.
32Guzzardi, sopra citata, § 95.
33Ibid., §§ 92-93; si vedano altresì Nada c. Svizzera [GC], n. 10593/08, § 225, CEDU 2012; Austin e altri c. Regno Unito [GC], n. 39692/09, 40713/09 and 41008/09, § 57, CEDU 2012; Stanev c. Bulgaria [GC], n. 36760/06, § 115, CEDU 2012; e Medvedyev e altri c. Francia [GC], n. 3394/03, § 73, CEDU 2010.
34Guzzardi, sopra citata, § 95.
35Ibid., § 92; si veda altresì Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 59, Serie A n. 22, e Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 43, Reports of Judgments and Decisions 1996 III.
3636. Si veda nota a piè di pagina 26.
37Si veda Ciancimino; Raimondo; Labita; Vito Sante Santoro a Monno, tutte sopra citate.
38La base della presente giurisprudenza della Corte è un passo della sentenza Raimondo (§ 39), che ha semplicemente affermato, senza alcun tentativo di fornire una giustificazione, che queste misure dovevano essere considerate restrizioni della libertà di circolazione di cui all’articolo 2 del Protocollo n. 4 e “non costituivano una privazione della libertà ai sensi dell’articolo 5 paragrafo 1 della Convenzione”, citando “la sentenza Guzzardi c. Italia, sopra citata, p. 33, paragrafo 92”, ignorando tutto il successivo ragionamento della sentenza Guzzardi, che era pervenuto all’esatta opposta conclusione: “La Corte ritiene, tutto considerato, che il caso di specie debba essere ritenuto una causa concernente la privazione della libertà”.
39Ciulla c. Italia, 22 febbraio 1989, § 40, Serie A n. 148. Tale causa ha rinviato a una disposizione in materia di detenzione provvisoria, che è stata successivamente abrogata. Osservo inoltre che tale approccio è stato confermato anche mutatis mutandis in un recente ricorso tedesco (si veda Ostendorf c. Germania, n. 15598/08, 7 marzo 2013).
40Si veda Guzzardi, sopra citata § 92.
41Si raffronti con undici ore nella causa Quinn c. Francia, 22 marzo 1995, § 42, Serie A n. 311; dodici ore nella causa Labita, sopra citata, § 166; tre giorni nella causa Mancini c. Italia, n. 44955/98, § 25, CEDU 2001 IX; e sei mesi nella causa Brand c Paesi Bassi, n. 49902/99, § 60, 11 maggio 2004. Per altri brevi periodi di privazione della libertà, si vedano Murray c. Regno Unito, 28 ottobre 1994, §§ 49 et seq., Serie A n. 300-A, concernente la custodia in un centro militare per meno di tre ore ai fini dell’interrogatorio; Novotka c. Slovacchia (dec.), n. 47244/99, 4 novembre 2003, concernente un’ora trascorsa in stato di fermo di polizia; Shimovolos c. Russia, n. 30194/09, §§ 49-50, 21 giugno 2011, concernente l’interrogatorio in stato di fermo di polizia per quarantacinque minuti; si veda altresì Witold Litwa c. Polonia, n. 26629/95, § 46, CEDU 2000 III, concernente l’internamento per sei ore e mezza in un centro per alcolisti.
42Buzadji c. Repubblica di Moldavia [GC], n. 23755/07, § 104, CEDU 2016.
43Legge-delega n. 136 del 13 agosto 2010 esigeva che le categorie di persone cui erano applicate le misure dovessero essere stabilite sulla base di “presupposti chiaramente definiti e riferiti in particolare all’esistenza di circostanze di fatto” (“che venga definita in maniera organica la categoria dei destinatari delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, ancorandone la previsione a presupposti chiaramente definiti e riferiti in particolare all’esistenza di circostanze di fatto che giustificano l’applicazione delle suddette misure di prevenzione e, per le sole misure personali, anche alla sussistenza del requisito della pericolosità del soggetto”). Ciò non può che essere letto come un implicito riconoscimento da parte delle autorità interne della mancanza di chiarezza delle Legge del 1956.
44Si raffronti con Danov c. Bulgaria, n. 56796/00, 26 ottobre 2006; Mancini, sopra citata, § 20; Nikolova c. Bulgaria (n. 2), n. 40896/98, 30 settembre 2004; e Vachev c. Bulgaria, n. 42987/98, § 64, CEDU 2004 VIII.
45Si veda Guzzardi, sopra citata, § 100.
46Si raffronti Van Droogenbroeck c. Belgio, 24 giugno 1982, § 35, Serie A n. 50.
47Si veda Guzzardi, sopra citata, § 101.
48Si raffronti Steel e altri Regno Unito, 23 settembre 1998, § 66, Reports 1998 VII; Nowicka c. Polonia, n. 30218/96, § 60, 3 dicembre 2002; Harkmann c. Estonia, n. 2192/03, § 30, 11 luglio 2006; e Gatt c. Malta, n. 28221/08, § 36, CEDU 2010.
49Si raffrontino Vasileva c. Danimarca, n. 52792/99, § 36, 25 settembre 2003, e Epple c. Germania, n. 77909/01, § 36, 24 marzo 2005.
50Si veda Guzzardi, sopra citata , § 102.
51Ibid.; si vedano altresì Lawless c. Irlanda (n. 3), 1 luglio 1961, Serie A n. 3, e Fox, Campbell e Hartley c. Regno Unito, 30 agosto 1990, Serie A n. 182.
52Si veda Guzzardi, sopra citata, § 103.
53Ibid., § 98.
54Ibid., § 103.
55Engel e altri, sopra citata, §§ 82-83.
56Si vedano Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30-31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, 31 luglio 2007.
57Deweer c. Belgio, 27 febbraio 1980, § 46, Serie A n. 35.
58Dagli articoli 10 e 12 comma 3 della Legge del 1956 si poteva desumere il principio che una misura di sicurezza prevaleva su una misura di prevenzione, quando erano applicate entrambe, ma, in alcune circostanze, esse potevano essere applicate congiuntamente (Corte di Cassazione, Sezione I, 7 febbraio 2011, Macri).
59Il passo pertinente è il seguente: “l’applicazione delle misure di sicurezza personali, finalizzate anche esse a prevenire la commissione di (ulteriori) reati (e che non sempre presuppongono la commissione di un precedente reato; art. 49, secondo e quarto comma e art. 115, secondo e quarto comma del codice penale), talché possono considerarsi una delle due species di un unico genus.”
60Si vedano le summenzionate sentenze nn. 23/1964 e 177/1980 della Corte costituzionale.
61Corte di Cassazione, Sezione I, 17 maggio 1984, n. 1193.
62Si veda, tra altri precedenti, Nuvolone, “La prevenzione nella teoria generale del diritto penale”, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1956; Piroddi, Le misure di prevenzione di pubblica sicurezza, 1971; Vassalli, “Misure di prevenzione e diritto penale”, in Studi in onore di B. Petrocelli, vol. III, 1972.
63Tra il 2005 e il 2014, 16.461 persone sono state condannate per violazione delle misure di prevenzione che erano state loro applicate, secondo informazioni statistiche contenute nel fascicolo. Pur essendogli stato chiesto, il Governo non ha fornito informazioni sul numero di persone condannate a pene detentive.
64Cairo e Forte, Codice delle misure di prevenzione annotato, Roma, 2014, p. 23.
65Si vedano Engel e altri, sopra citata, § 85; Campbell e Fell c. Regno Unito, 28 giugno 1984, § 73, Serie A n. 80; Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], nn. 39665/98 e 40086/98, § 130, CEDU 2003-X; e, mutatis mutandis, Dacosta Silva c. Spagna, n. 69966/01, §§ 46-50, CEDU 2006-XIII.
66Nella causa Guzzardi (sopra citata, § 108) la Corte ha ritenuto che l’aspetto penale dell’articolo 6 non fosse applicabile, ma non ha esaminato nessuno dei rilievi summenzionati.
67Engel e altri, sopra citata, §§ 82-83.
68Le misure penali applicate non avevano alcuna base giuridica e fattuale, come ha riconosciuto la Corte di appello con la sua dichiarazione di invalidità delle misure ex tunc. Le misure sono state annullate, non revocate, per inosservanza dei requisiti di legge dal giorno della pronuncia della sentenza da parte del Tribunale di primo grado.
69Si vedano, tra altri precedenti, Rehbock c. Slovenia, n. 29462/95, § 84, CEDU 2000 XII; Mamedova c. Russia, n. 7064/05, § 96, 1 giugno 2006; G.B. c. Svizzera, n. 27426/95, § 33, 30 novembre 2000; e Kadem c. Malta, n. 55263/00, § 44, 9 gennaio 2003.
70Si veda Rizzotto c. Italia, n. 15349/06, §§ 30-36, 24 aprile 2008.
71Si veda N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, § 49, CEDU 2002 X.
72Vito Sante Santoro, sopra citata, § 45.
73Si veda Seferovic c. Italia, n. 12921/04, § 49, 8 febbraio 2011; Pezone c. Italia, n. 42098/98, §§ 51-56, 18 dicembre 2003; e Fox, Campbell e Hartley, sopra citata, § 46.
75Si veda Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, § 31, Serie A n. 26.