La Corte di Cassazione con la sentenza n. 18443 del 01 agosto 2013 interviene in tema di dati sensibili affermando che i dati contenuti nel computer utilizzato dal dipendente non possono essere utilizzati dal datore di lavoro per contestare una violazione disciplinare. Il computer contiene, infatti, dati sensibili il cui tracciamento viola la riservatezza del lavoratore e l’attività di scandagliamento a strascico, inoltre, travalica la «proporzionalità» che deve comunque essere rispettata tra l’infrazione commessa e la tutela della privacy della persona.
Gli Ermellini hanno respinto il ricorso di una casa di cura siciliana contro l’addetto alle accettazione della struttura. Il lavoratore, durante l’orario di lavoro e dalla sua postazione, si collegava abitualmente alla rete internet (attività peraltro non prevista per la mansioni cui era applicato) visitando siti sindacali, religiosi e anche pornografici.
I predetti ambiti sono attinenti i diritti fondamentali della persona, e sui quali il Garante della riservatezza – interpellato dall’impiegato appena ricevuta la contestazione disciplinare – aveva statuito la massima e doverosa tutela, almeno fino al fondato sospetto di violazione di diritti costituzionali di pari grado.
L’Authority era stata categorica circa il metodo risoluto seguito della clinica, sia sul versante tecnico (accesso diretto al pc del dipendente e copia della cartella di tutte le operazioni registrate, invece di accedere dal back up) sia sulla procedura. In particolare, secondo il Garante, il lavoratore «non era stato previamente informato dell’eventualità di tali controlli e del tipo di trattamento che sarebbe stato effettuato», in violazione del Codice della privacy, ma soprattutto il trattamento che era stato fatto dell’enorme mole di file era andato ben oltre i limiti di pertinenza e di «non eccedenza rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati», come previsto dall’articolo 11 del decreto legislativo 196/2003. Contro le scelte dell’azienda deponeva anche l’autorizzazione 1/2004 del Garante, citata agli atti dalla ricorrente, secondo cui «il trattamento dei dati sensibili deve essere effettuato unicamente con operazioni, nonché con logiche e mediante forme di organizzazione dei dati strettamente indispensabili in rapporto ai sopra indicati obblighi, compiti o finalità».
Pertanto secondo i giudici di legittimità, l’azienda nel caso specifico avrebbe potuto procedere alle contestazioni disciplinari limitandosi alla circostanza che il dipendente si collegava a internet senza che ciò fosse previsto, e nemmeno indispensabile, per le sue mansioni. Per cui i giudici della Corte Suprema ha ritenuto legittimo il provvedimento del Garante della privacy che abbia vietato ad una azienda il trattamento di dati personali, concernenti l’accesso a internet, tratti dal computer di un proprio dipendente, nell’ambito di una procedura disciplinare volta al licenziamento. Dalla ‘navigazione’, infatti, si evincevano “dati sensibili” e cioè relativi a convinzioni religiose e politiche nonché alle tendenze sessuali del dipendente. Dati, fra l’altro, del tutto estranei rispetto alla finalità perseguita dall’azienda, alla quale sarebbe bastato dimostrare la connessione ad internet nei tempi di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18443/2013, respingendo il ricorso della società contro il provvedimento inibitorio del Garante.
La Suprema corte ha ritenuto che il giudice di merito abbia correttamente considerato che “il trattamento dei dati sensibili era avvenuto in modo eccedente rispetto alla finalità del medesimo. In particolare, sempre con accertamento in fatto incensurabile in questa sede, il tribunale ha condiviso le argomentazioni del Garante secondo cui la ricorrente avrebbe potuto dimostrare l’illiceità del comportamento del dipendente, in rapporto al corretto uso degli strumenti affidati sul luogo dì lavoro, limitandosi a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento”.
Nelle motivazioni si riscontra anche uno spaccato importante sulla definizione di «dato sensibile». L’azienda contestava la circostanza che la registrazione relativa a siti sindacali, poi religiosi, infine pornografici, non era in grado di connotarsi come «dato sensibile», idoneo a svelare gli orientamenti del dipendente, In realtà, spiega la Corte, il legislatore italiano è stato più restrittivo di quello europeo parlando non solo di «dati sensibili», ma anche«dati idonei a rilevare». Come una navigazione su internet.
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