La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 20777 depositata il 11 settembre 2013 intervenendo in materia detrazione IVA e frode fiscale ha statuito che il contribuente acquirente in buona fede ha diritto alla detrazione dell’Iva, poichè non può essere ritenuto responsabile del comportamento illegittimo dei suoi fornitori che evadono o commettono frodi. Per cui è illegittimo il comportamento dell’ufficio che nega la detrazione IVA, considerando le operazioni soggettivamente inesistenti, ma senza fornire alcun «riscontro documentale di quegli indizi (gravi, precisi e concordanti) richiesti dalla giurisprudenza comunitaria».
La vicenda ha riguardato una società nei cui confronti l’Amministrazione Finanziaria aveva emesso e notificato un avviso di rettifica per l’anno 1997, recuperando le detrazioni dell’Iva su presunte operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. Il contribuente avverso tale atto impositivo ricorre dinazi alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglievano le doglianze del ricorrente annullando l’atto impugnato. L’Agenzia delle Entrate ricorreva alla Commissione Tributaria Regionale che confermava, però, la sentenza di primo grado. Nelle motivazione del giudice di appello «rileva che l’ufficio fonda il suo convincimento sul fatto che le fatture emesse nei confronti dell’impresa del contribuente da imprese edili che hanno mantenuto comportamenti contrari alla legge debbano essere considerate come emesse per operazioni inesistenti, e non considerando che nessun imprenditore può essere responsabile del comportamento illegittimo dei suoi fornitori». Per il giudice d’appello «era onere dell’ufficio produrre concreti elementi di prova della legittimità della pretesa erariale», prove mai depositate.
Avverso la decisione dei giudici di appello viene proposta dall’ufficio, affidandolo a due motivi, il ricorso per la cassazione della sentenza di secondo grado.
Gli Ermellini respingono il ricorso evidenziando come sulla base dei più recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale e comunitaria (Corte di Giustizia 21 giugno 2012) spetta all’amministrazione finanziaria, che contesta il diritto del contribuente a detrarre l’Iva pagata su fatture emesse da soggetto diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio – cosiddette operazioni soggettivamente inesistenti – «provare che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente abbia, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (sezione 5, sentenza n. 23560 del 20 dicembre 2012)».
La prova inerente alle operazioni inesistenti può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici, attraverso la dimostrazione che il contribuente all’atto del pagamento dell’IVA, che avrebbe portato in detrazione, avesse elementi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto. Nel ricorso depositato dall’Amministrazione non è presente l’enunciazione e il riscontro documentale di quegli indizi, gravi, precisi e concordanti, circa l’inesistenza soggettiva, richiesti dalla giurisprudenza Ue e nazionale; manca altresì quell’indispensabile esposizione logica ed esauriente (Cassazione, sentenza 7825/2006) che consente la chiara e completa cognizione dei fatti (Cassazione, Sezioni unite, 11663/2006 e 2602/2003).
Per i giudici di legittimità hanno affermato l’assenza, nel ricorso dell’Agenzia, degli elementi minimi per un’adeguata conoscenza (Cassazione, sentenza 3905/1987 e 13550/2004) delle operazioni contestate, della loro natura fittizia e del fatto che il contribuente sapesse o potesse sapere che il soggetto formalmente cedente avesse evaso l’Iva o compiuto una frode, senza necessità di altre fonti.
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