La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 46165 depositata il 18 novembre 2013 intervenendo in materia di reati fiscali ha statuito che la verifica del giudice penale può sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata davanti al giudice tributario, perché nella sede penale deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria. Per cui l’evasione fiscale, in sede penale, può essere dimostrata anche grazie ai dati provenienti dall’Osservatorio del mercato immobiliare (OMI).
La vicenda ha visto protagonista un imprenditore settore immobiliare che era stato accusato del reato di di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000. Al contribuente veniva notificato un avviso di rettifica di maggiore imponibile, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, indicava nelle dichiarazioni annuali per l’anno 2004 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
Il Tribunale condannava, per il reato di cui all’articolo 4 del D.Lgs. 74/2000, riconoscendo la sua responsabilità penale . L’imputato proponeva, avverso la sentenza del giudice di prime cure, ricorso alla Corte di Appello che confermava la sentenza con la quale un imputato era stato condannato.
Avverso la sentenza della Corte Territoriale l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso, basandolo su due motivi di censura, alla Corte Suprema chiedendone l’annullamento. In particolare per la difesa dell’imputato, il giudice di appello ha erroneamente applicato la disposizione incriminatrice, in relazione agli articoli 39 comma secondo lett. d) D.P.R. 600/73 e 55 terzo comma D.P.R. 633/72 perché, fra le altre cose, ha ritenuto provato il fatto evasivo sulla scorta dei dati OMI dai quali ha desunto lo scostamento dal reale valore di mercato dei prezzi di compravendita degli immobili.
Gli Ermellini hanno ritenuto infondate le doglianza della difesa, poiché basata sull’assunto che l’accertamento tributario sarebbe stato eseguito in via induttiva. Tale assunto era stato espressamente smentito dalla Corte distrettuale, con motivazione completa e coerente.
Nella sentenza in commento si legge che “Proprio dando prevalenza al dato fattuale, la Corte distrettuale evidenzia, in particolare, che vi era stata una sottofatturazione del corrispettivo di immobili che risultavano essere stati venduti dall’impresa dell’imputato a privati, con prezzi dichiarati inferiori rispetto al valore degli immobili stessi. Gli accertamenti erano stati svolti in base all’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, in forza del quale il reddito viene rettificato nel caso in cui l’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulti dall’ispezione delle scritture contabili, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolte dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32. Laddove sussistano tali presupposti – prosegue la norma – l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precisi e concordanti. Sul piano tributario si erano riscontrati, dunque, molteplici e convergenti indizi dell’evasione fiscale e non ci si era limitati a utilizzare – come asserito dalla difesa – una mera singola presunzione”.
Pertanto gli stessi elementi, ritenuti decisivi, univoci e concordanti, sono stati messi a sostegno, dalla Corte di Appello, della responsabilità penale dell’imprenditore condannato anche a pagare le spese processuali.
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