La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 28190 depositata il 17 dicembre 2013 intervenendo in tema di elusione fiscale ha statuito che in tema di accertamento induttivo dei redditi d’impresa, consentito dall’art. 39, comma primo, lett. d) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla eventuale antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo.
La vicenda ha riguardato un contribuente a cui, in seguito ad una verifica fiscale, l’Agenzia delle Entrate notificava un avviso di accertamento per Irpef ed Iva inerente il reddito da partecipazione nella società di fatto. Durante la verifica fiscale il contribuente dichiarava di essere di essere solo procacciatore di affari, senza tuttavia avere mai emesso fatture.
Avverso la pretesa fiscale il contribuente ricorreva alla Commissione Tributaria Provinciale i cui giudici accolgono le doglianze del ricorrente. Il Fisco impugna la pronuncia del giudice di prime cure con ricorso, depositato, dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che rigetta l’appello dell’Amministrazione finanziaria confermando la sentenza di primo grado. I giudici di Appello rilevavano che che l’appellante non aveva prodotto alcuna prova a conferma del proprio assunto, così come risultava mancante il processo verbale della verifica svolta dalla Guardia di finanza. Nelle motivazioni della sentenza si legge che nessuna dimostrazione v’era stata circa l’iscrizione della società nel registro delle imprese, come pure in ordine alla partita Iva.
L’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza del giudice di merito proponeva ricorso, basato su due motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini accolgono il ricorso dell’Agenzia cassando la sentenza impugnata e rinviando ad altra sezione della CTR. I giudici di legittimità hanno ritenuto la ricostruzione fatta dal Fisco assolutamente corretta, soprattutto tenendo presente che “l’atto impositivo si fondava sulla articolata verifica svolta dalla Guardia di Finanza, la quale aveva accertato l’esistenza della società di fatto” di cui il contribuente “aveva dichiarato di essere solo procacciatore di affari, senza tuttavia avere mai emesso fatture”. E, comunque, il “verbale” era stato “allegato all’avviso di accertamento”.
In particolare i giudici del Palazzaccio evidenziano come “null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte”.
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