La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 24914 depositata il 6 novembre 2013 intervenendo in tema di abuso di diritto ha affermato che l’Amministrazione finanziaria non può contestare l’elusione fiscale sulla sola base del fatto che il contratto è simulato: è infatti tenuto a provare che l’unico scopo è l‘indebito risparmio di imposta in assenza di qualunque vantaggio economico per l’impresa dall’operazione commerciale. In altri termini, alla base dell’elusione dev’esserci sempre un accordo commerciale valido e non fraudolento o simulato.
La vicenda ha avuto inizio con una verifica fiscale, seguito da un avviso di rettifica volto al recupero della imposta evasa ed al provvedimento irrogativo di sanzioni pecuniarie, nei confronti di una società cooperativa a r.l. al cui termine veniva redatto PVC nel quale si contestava alla società la omessa fatturazione di operazioni imponibili attive relative a cessione di bestiame, la omessa regolarizzazione mediante autofatturazione, in violazione dell’art. 41 co 6 Dpr n. 633/72, di operazioni imponibili passive relative a prestazioni di servizio ricevute in esecuzione di contratti di soccida dissimulanti in realtà contratti di appalto, la presentazione della dichiarazione IVA contenente dati inesatti in violazione dell’art. 28 Dpr n. 633/72, la indebita detrazione di IVA relativa a varie fatture emesse con riferimento alla cessione di prodotti ai quali era stato attribuito un valore superiore a quello di mercato (soprafatturazione).
La società contribuente avverso l’atto impositivo proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva le doglianze del ricorrente. Il Fisco impugnava la decisione del giudice di prime cure inanzi alla Commissione Tributaria Regionale che respingeva l’appello dell’ Ufficio è confermava la sentenza di primo grado.
Avverso tale sentenza la Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso, basato su sette motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini respingono il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. I giudici di legittimità puntualizzano che «vanno escluse dalla nozione di abuso del diritto in materia tributaria le ipotesi di condotte illecite fraudolente o anche soltanto simulatorie, iscrivendosi invece il fenomeno nell’ambito delle sole condotte lecite (cioè: non violative di prescrizioni normative) e non occulte (essendo realmente diretta la volontà dei contraenti abusivi alla produzione degli effetti giuridici previsti dalla legge), che consentono di perseguire legalmente il risultato finale previsto, attraverso per esempio l’uso indiretto del negozio o il collegamento negoziale o anche eventuali deroghe negoziali allo schema tipico dei contratti o commistioni tra discipline negoziali differenti (che collocano il rapporto nella sfera dei negozi atipici o misti rimessi all’esercizio della autonomia privata) o ancora il frazionamento in autonomi contratti di prestazioni unitariamente riconducibili a un medesimo schema negoziale tipico».
In altri termini il connotato della abusività della condotta dev’essere ravvisato nel risultato finale, da valutarsi secondo un criterio oggettivo, elusivo della imposizione fiscale, ottenuto all’esito dell’operazione negoziale, risultato che viene raggiunto dalle parti evitando che l’operazione economica venga a integrare il fatto giuridicamente rilevante che la norma impositiva assume a presupposto d’imposta.
Per cui gli indici sintomatici ai quali occorre attingere per la dimostrazione della abusività della condotta non vanno ricercati nella causa (funzione economico-sociale) o negli effetti giuridici del negozio o della complessa operazione negoziale (diretti a disciplinare il regolamento di interessi voluto dalle parti), ma debbono essere ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica dell’operazione commerciale.
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