La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 17689 depositata il 19 luglio 2013 intervenendo in tema di elusione fiscale ha statuito che la valutazione dell’intento elusivo prescinde dalla correttezza formale del rapporto fra le parti; laddove, infatti, manchino valide ragioni economiche a giustificare l’operazione, si potrebbero facilmente intravedere profili di “abuso del diritto”, ovvero tentativi di ottenere vantaggi fiscali attraverso un uso distorto degli strumenti giuridici.
La vicenda ha avuto origine in seguito ad un controllo fiscale operato dalla Guardia di Finanza nei confronti di un notaio il quale aveva stipulato un contratto di “outsourcing” con una società nella quale rivestiva anche la qualifica di socio e nella quale, fra i dipendenti, si annoveravano anche parenti dello stesso professionista.
I militari contestarono al notaio l’indebita detrazione di costi, correlati a prestazioni rese dalla società E. sulla base di un contratto che integrava una mera liberalità del Notaio nei confronti della società, difettando il requisito dell’inerenza.
I prezzi praticati dalla società erano decisamente più elevati rispetto al valore di mercato, venendo applicato un ricarico pari al 50% rispetto al costo del personale. Tenuto conto che il professionista aveva sostanzialmente esternalizzato i propri oneri del personale dipendente, tale operazione appariva, agli occhi della Guardia di Finanza, chiaramente elusiva, al punto che le autorità procedevano ad una rideterminazione del costo delle prestazioni sulla base del “valore normale”, conseguentemente contestando la detraibilità dell’IVA relativa alle prestazioni.
Il contribuente alla ricezione dei due avvisi di accertamento basati sulle risultanze del pvc della GdF provvedeva ad impugnarli inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici della Commissione Tributaria, previa riunione dei ricorsi e sulla base delle risultanze acquisite attraverso la Guardia di Finanza di Augusta, rideterminava “al valore normale” i costi indicati negli anni oggetto degli avvisi. Il contribuente avverso la decisione dei giudici di primo grado propose appello alla Commissione Tributaria Regionale. La CTR aveva considerato corrette le ragioni del contribuente soprattutto in relazione al fatto che il contratto era stato ritenuto “pienamente esistente e valido”.
L’Amministrazione finanziaria propose ricorso, avverso la decisione dei giudici di merito, alla Corte Suprema basandolo su sei motivazioni.
I Giudici di legittimità contestano le conclusioni della Commissione Tributaria per una serie di motivazioni. Per i giudici sono da ritenersi pienamente condivisibili le censure dell’Agenzia delle Entrate circa il fatto che non era stato motivato il rifiuto di considerare il rilievo in ordine al “carattere ingiustificato ed antieconomico del contratto”.
Quand’anche non contrastando con alcuna norma specifica e pur esistendo un negozio fra le parti, non sussistevano reali ragioni economiche per giustificare il fatto che il professionista corrispondesse un prezzo così elevato per servizi che avrebbe potuto ottenere a valori decisamente meno alti. Ciò nascondeva, evidentemente, il desiderio, da parte del professionista accertato, di ottenere indebiti vantaggi fiscali, trasferendo componenti positivi di reddito ad un soggetto che beneficiava di una fiscalità di maggior favore.
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