AGENZIA DELLE ENTRATE – Risposta 01 aprile 2019, n. 91
Interpello art. 11, comma 1, lett. a), legge 27 luglio 2000, n.212
Con l’interpello specificato in oggetto, è stato esposto il seguente
Quesito
La società istante Alfa fa parte di un gruppo tedesco operante nel settore della grande distribuzione. A seguito della riorganizzazione del gruppo, quest’ultima è subentrata in tutte le situazioni giuridiche attive e passive originariamente facenti capo alla stabile organizzazione in Italia “Beta”.
Il 10 gennaio 2008, Beta stipulava con una società un contratto di cessione di crediti commerciali, in cui era stabilito che tale società avrebbe rinunciato alla garanzia pro solvendo, assumendosi il rischio del mancato pagamento dei crediti, nei limiti di un certo importo massimo da definire, cioè di un “plafond” (artt. 4 e 5 del contratto).
Con comunicazioni del 19 marzo, 31 marzo e 22 aprile 2008, Beta, nell’ambito dell’accordo sopra descritto, comunicava alla controparte la cessione dei crediti nei confronti di Gamma, Delta, e Zeta. A sua volta, con raccomandata del 28 agosto 2008, la società cessionaria dei crediti informava Beta che, con riguardo a tali crediti, era revocato il plafond previsto dal contratto, con la conseguenza che la loro cessione si configurava, da quel momento, come una cessione interamente pro solvendo.
Successivamente, il Tribunale dichiarava il fallimento di Gamma; nel relativo passivo si insinuava la società cessionaria dei crediti.
Il medesimo dichiarava il fallimento anche di Delta e Zeta, nel cui passivo si insinuava la stessa società cessionaria dei crediti.
Tali procedure sono attualmente pendenti; al contrario, la procedura di fallimento di Gamma si concludeva con il deposito del decreto di cui agli artt. 118 e ss. L.F., e senza ripartizione di alcun attivo. Nelle procedure di fallimento sopra indicate, inoltre, si insinuava nel passivo anche Beta, ma per crediti pregressi propri, estranei alla cessione in esame.
Ciò premesso, la società istante chiede se, nel caso concreto, possa emettere note di variazione in diminuzione dell’Iva ex art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, al fine di recuperare l’Iva originariamente assolta da Beta rispetto alla quale, appunto, la stessa è subentrata in tutte le situazioni giuridiche attive e passive.
In subordine, l’istante chiede se tale imposta possa essere chiesta a rimborso ai sensi dell’art. 30-ter del d.P.R. n. 633 del 1972 o, in via ulteriormente subordinata, tramite istanza di rimborso cosiddetto “anomalo” ex art. 21 del D.lgs. n. 546 del 1992.
Soluzione interpretativa prospettata dal contribuente
La società istante ritiene di poter emettere note di variazione in diminuzione dell’Iva ai sensi dell’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.
Secondo l’istante, infatti, è irrilevante la circostanza che, nella fattispecie, il soggetto che ha assolto l’Iva al momento dell’effettuazione dell’operazione sia un soggetto differente rispetto a quello che si è insinuato nel passivo come cessionario del credito.
In caso contrario, ritiene l’interpellante, si avrebbe “una sostanziale violazione del principio comunitario di neutralità dell’imposta”.
L’istante, inoltre, è del parere che la fattispecie in esame sia sostanzialmente diversa da quella analizzata dalla risoluzione del 5 maggio 2009, n. 120.
Parere dell’Agenzia delle Entrate
L’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, prevede che, se dopo l’emissione e la registrazione di una fattura, l’ammontare imponibile di un’operazione e la relativa l’IVA si riducono, in tutto o in parte, il cedente o prestatore, in linea generale, può effettuare le opportune rettifiche, cioè le cosiddette “variazioni in diminuzione”, emettendo un’apposita “nota di credito”.
In altri termini, il cedente o prestatore, può “annullare”, attraverso l’emissione di un documento di segno opposto all’originaria fattura, come la “nota di credito”, un’operazione fatturata e registrata che sia successivamente venuta meno (in tutto o in parte) o di cui sia ridotto l’ammontare imponibile. In tal modo, il cedente o prestatore restituisce l’importo dell’Iva al cessionario, recuperandola dall’Erario mediante una corrispondente riduzione dell’Iva a debito; il cessionario o committente soggetto Iva, a sua volta, ha l’obbligo di computare il medesimo importo tra l’Iva a debito al fine di controbilanciare la detrazione a suo tempo effettuata per la fattura oggetto di rettifica, riversando così all’Erario tale ammontare.
Si evidenzia che ad emettere la nota di credito è lo stesso soggetto che si avvantaggia degli effetti economici della variazione in diminuzione (in estrema sintesi inversi a quelli dell’operazione rettificata), con il conseguente rischio di utilizzazioni fraudolente. E’, pertanto, per ragioni di cautela fiscale, che il legislatore prevede la possibilità per il cedente o prestatore di emettere una nota di credito solo al ricorrere di determinati presupposti e, nel caso di un sopravvenuto accordo tra le parti, solo entro lo stretto termine di un anno dall’effettuazione dell’operazione.
La tassatività di tali ipotesi è prevista anche dalla normativa comunitaria, laddove l’art. 90 della Direttiva 2006/112/CE (paragrafi 1 e 2) traccia una chiara distinzione tra i casi di annullamento, risoluzione, recesso e riduzione del corrispettivo – per i quali, gli Stati membri hanno l’obbligo di prevedere la riduzione della base imponibile – e il caso di mancato pagamento, totale o parziale, del corrispettivo, che, al contrario, consente agli Stati membri di derogare a tale obbligo, disciplinando eventualmente le condizioni per l’esercizio della riduzione della base imponibile. La rettifica obbligatoria è espressione del principio generale secondo cui la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non può riscuotere a titolo di Iva un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo (CGE, 26 gennaio 2012, causa C-588/10, punto 27; Id., 3 luglio 1997, causa C-330/1995, punto 15). La facoltà di deroga riconosciuta nel caso di pagamento, invece, “si fonda sull’assunto che, in presenza di talune circostanze ed in ragione della situazione giuridica esistente nello Stato membro interessato, il mancato pagamento del corrispettivo può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio”(CGE 3 luglio 1997, causa C-330/1997, punto 18).
A questo proposito, si evidenzia che il legislatore nazionale non si è avvalso della facoltà di deroga sopra indicata, ma ha disciplinato le variazioni in diminuzione anche nell’ipotesi di mancato pagamento del corrispettivo, prevedendo specifiche condizioni per il suo accertamento.
In particolare, l’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, consente la variazione in diminuzione, tra l’altro, in caso di mancato pagamento a causa di procedure concorsuali “rimaste infruttuose”.
Secondo le indicazioni fornite dalla prassi (circolare 17 aprile 2000, n. 77; risoluzione 12 ottobre 2001, n. 155; risoluzione 18 marzo 2002, n. 89; risoluzione 16 maggio 2008, n. 195), successivamente confermate dalla giurisprudenza (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27136, Cass. sez. trib. 27 gennaio 2014, n.1541), l’infruttuosità della procedura deve assumere carattere definitivo, deve, cioè, essere accertata alla conclusione della stessa.
Nel caso specifico del fallimento, la procedura può considerarsi conclusa con il decreto che dichiara esecutivo il riparto finale ai sensi dell’art. 117, comma 1, L.F. o, in alternativa, con il decreto di chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 119 L.F.
Riguardo la cessione del credito, si osserva che con tale contratto il creditore trasferisce il suo credito ad un terzo (art. 1260 c.c. ss.). Sul piano della struttura, quindi, la cessione del credito determina una successione a titolo particolare: un nuovo creditore si sostituisce al precedente titolare, mentre l’obbligazione resta inalterata in tutti gli altri suoi elementi.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1267 c.c., in caso di cessione del credito a titolo oneroso, il cedente, pur dovendo garantire l’esistenza del credito al momento della cessione, non risponde della solvenza del debitore. Ne consegue che in questa ipotesi il cedente è liberato nel momento in cui cede il credito al cessionario (cessione pro soluto).
Il cedente, tuttavia, può assumere la garanzia della solvibilità del credito, rispondendo così dell’inadempimento del debitore ceduto (cessione pro solvendo). Sotto questo profilo, il citato art. 1267 c.c. precisa che “Quando il cedente ha garantito la solvenza del debitore, la garanzia cessa, se la mancata realizzazione del credito per insolvenza del debitore è dipesa da negligenza del cessionario nell’iniziare o nel proseguire le istanze contro il debitore stesso“.
Ciò posto in via generale, si evidenzia che nel caso concreto, sul piano temporale, la cessione dei crediti in esame, realizzata nel 2008, è precedente ledichiarazioni di fallimento, tutte pronunciate nel 2010. Di conseguenza, come riconosciuto dagli organi della procedura, legittimato a insinuarsi nel passivo (anche per conservare la garanzia della solvenza del debitore ai sensi del sopra citato art. 1267 c.c.) era solo il cessionario, come titolare del credito ceduto.
Inoltre, trattandosi nella fattispecie di una cessione pro solvendo, se con la chiusura del fallimento l’infruttuosità della procedura è formalmente accertata in via definitiva in capo al soggetto che si è insinuato nel passivo, sotto il profilo sostanziale, i suoi effetti si riverberano in capo al cedente che, appunto, con la cessione pro solvendo è responsabile dell’inadempimento del debitore.
Si ritiene, quindi, che la circostanza che il soggetto insinuatosi nel passivo sia un soggetto diverso rispetto a quello che ha assolto l’Iva al momento dell’effettuazione dell’operazione, non sia di ostacolo all’applicazione della disciplina delle variazioni in diminuzione del’Iva ai sensi dell’art. 26 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Si è del parere, peraltro, che la fattispecie descritta nell’istanza in esame sia differente rispetto a quella rappresentata con risoluzione del 5 maggio 2009, n. 120, dove la cessione aveva ad oggetto crediti pro soluto e non pro solvendo.
In conclusione, in base alle considerazioni sopra espresse, si condivide l’interpretazione dell’istante secondo cui quest’ultimo può emettere note di variazione in diminuzione dell’Iva ai sensi dell’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972.
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