La Corte di Cassazione, sezione civile, con la sentenza n. 26206 depositata il 22 novembre 2013 intervenendo in tema di procedure concorsuali ha affermato che in caso in cui il fallimento dell’impresa si estenda anche all’attività professionale, spetta al giudice stabilire quanto il professionista possa trattenere – entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia – dai propri guadagni professionali, tenendo conto che il fallito deve destinare parte degli introiti a soddisfare i creditori. Inoltre per la Corte è possibile dichiarare fallito per estensione il professionista che, anche senza assumere la veste di socio, abbia partecipato ad iniziative imprenditoriali diverse dalla propria professione.
Il predetto principio trova applicazione nei confronti di tutti i professionisti coinvolti in un attività imprenditoriale loro preclusa e che si si intromettono nella gestione di un’impresa.
La vicenda ha riguardato un architetto, dichiarato fallito in estensione del fallimento della società, e che ha impugnato il provvedimento del giudice delegato che gli aveva assegnato un importo di 900 euro sui redditi percepiti a titolo di pensione e di attività professionale, obbligandolo alla presentazione del rendiconto trimestrale in luogo di quello annuale stabilito in precedenza, rispetto al quale si era reso inadempiente.
Il professionista aveva presentato, avverso la decisione del giudice delegato reclamo al Tribunale che con pronuncia aumentava lievemente l’importo della somma mensile che il fallito poteva trattenere per sé, confermando nel resto il provvedimento del primo giudice.
Avverso la pronuncia dei giudici di merito il professionista, per il tramite del suo difensore, ricorre, affidandosi a cinque motivi di censura, alla Corte Suprema. In particolare lamentava la violazione o falsa applicazione dell’articolo 46 L.fall. in quanto tale norma, sebbene non permetta al fallito un arricchimento, gli dovrebbe comunque consentire una soddisfazione economica che realizzi i principi costituzionali previsti dagli articoli 2, 3 e 4. Il reddito di lavoro, insomma, dovrebbe servire non solo a soddisfare le esigenze alimentari, ma anche a gratificare la persona del fallito che lavora, costituendo un effettivo incentivo all’esercizio dell’attività professionale e consentendogli un tenore di vita adeguato.
Gli Ermellini rigettano il ricorso del professionista ed affermano che il diritto del lavoratore alla retribuzione attiene al rapporto tra datore e prestatore, mentre il diritto dei creditori di soddisfarsi sul patrimonio del debitore è stabilito dall’articolo 2740 c.c. L’articolo 46 “limitando il diritto del fallito al necessario per il mantenimento suo e della sua famiglia, con riguardo alle loro condizioni personali, ne salvaguarda le esigenze insopprimibili e non si espone a censure di legittimità costituzionale”. Il conflitto nascente dalle contrapposte aspettative è demandato al giudice del merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di giudizio di legittimità.
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