La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 27840 depositata il 12 dicembre 2013 intervenendo in tema di accertamento e false fatture ha statuito che l’onere della prova nel caso di fatture per operazioni inesistenti incombe sull’Amministrazione finanziaria. Pertanto incombe sul Fisco la dimostrazione del fatto che le operazioni contestate non siano mai state compiute. La giurisprudenza di legittimità ha affermato più volte il predetto principio in diverse pronunce.
La vicenda ha riguardato una società a cui veniva notificato un avviso di accertamento per maggiori imposte IRPEG ed ILOR per per utili derivanti da fatture per operazioni inesistenti rilasciate dalla contribuente ad una società controllata, interessi attivi di competenza non contabilizzati su crediti di imposta chiesti a rimborso, perdite su partecipazioni non documentate ed accantonamento TFR eccedente i limiti previsti dall’art. 70 TUIR
La società avverso l’atto impositivo proponeva ricorso inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale i cui giudici accoglievano le doglianze della ricorrente. Il Fisco impugnava la decisione dei giudici di prime cure con ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale che confermava la sentenza di primo grado. In particolare, per i giudici di appello, le fatture emesse dalla capogruppo erano state ritenute non valide senza un’esauriente motivazione da parte degli organi ispettivi.
Per la cassazione della sentenza dei giudici di seconde cure l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso, basato su un unico motivo di censura, alla Corte Suprema. In particolare, il Fisco, lamentava che la valorizzata esistenza, da parte della CTR, di un gruppo societario al cui interno operavano la contribuente quale capogruppo e la controllata era di scarso valore probatorio, potendosi anzi ritenere che proprio la presenza di rapporti di gruppo potesse favorire scambi interni a fini evasivi. Infine, per il Fisco, la CTR aveva omesso di prendere in considerazione gli elementi indicati a sostegno dell’inesistenza delle operazioni e la decisione impugnata era pertanto lacunosa ed illogica nella parte in cui aveva escluso la falsità delle operazioni, anche a volere ritenere che incombesse sull’Ufficio la prova di siffatta inesistenza.
Gli Ermellini accolgono il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria e cassa la sentenza impugnata rinviando ad altra sezione della CTR. I giudici di legittimità hanno ritenuto che la sentenza di appello risultava carente nella motivazione nella parte in cui effettivamente eccedeva nella svalutazione del compendio indiziario fornito dall’Ufficio senza una sua analitica considerazione, a fronte di una fin troppo ampia considerazione di elementi in favore della contribuente, alcuni dei quali privi di reale e giuridico peso. Pertanto i giudici del Palazzaccio hanno analizzato sinteticamente i principi ormai consolidati in tema dell’onere della prova nelle ipotesi di fatture per operazioni inesistenti.
Infatti i giudici supremi hanno ribadito che, in caso di fatture ritenute dal Fisco inerenti ad operazioni inesistenti, non grava sul contribuente l’onere della prova che l’operazione è effettiva.
Nelle lunghe motivazioni si legge che la tenuta delle scritture e dei documenti contabili i cui dati vengono utilizzati dal contribuente ed esposti nella dichiarazione fiscale, non onera, infatti, il predetto anche alla ulteriore indicazione degli elementi probatori attestanti la effettiva corrispondenza alla realtà dei dati indicati in fattura, trascritti nei registri obbligatori e riportati nella dichiarazione annuale. Incombe, invece, sull’amministrazione che adduce la falsità del documento e, quindi, l’inesistenza di un maggiore imponibile l’onere di dimostrare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere.
Per i giudici di legittimità la prova è raggiunta dall’Amministrazione allorché questa fornisca oggettivi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, ovvero che dimostrino in modo certo e diretto l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati ovvero l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, prova che può essere data anche attraverso “i verbali relativi ad ispezioni seguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti” in possesso dell’Ufficio (si veda sul punto la sentenza della Cassazione n. 9108/2012).
Pertanto alla luce di quanto sopra scritto il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla fondatezza dell’atto impositivo, è quindi tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli articoli 2727 e 2697 Cod. Civ.
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