La Corte di Cassazione sez. tributaria con la sentenza n. 17680 del 19 luglio 2013 interviene in materia di fatture soggettivamente false affermando che la vendita a catena può essere un grave indizio che legittima l’amministrazione finanziaria a contestare fatture soggettivamente false.
Infatti la società contribuente non ha diritto alla detrazione neppure a fronte del pagamento del prezzo di merce effettivamente ricevuta. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, ha respinto il ricorso di una srl che aveva acquistato della merce da un fornitore che, a sua volta, aveva acquistato merce da altro fornitore nel giro di pochissimo tempo. Ciò perché, spiegano i giudici con l’Ermellino, in tema di IVA, la nozione di fattura inesistente va riferita non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata sul piano fattuale, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di inesistenza soggettiva, che ricorre quando, pur risultando i beni o il servizio reso entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa cui le fatture sono rilasciate, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi.
La vicenda nasce a seguito di verifica della Guardia di Finanza di Lodi, sfociata in un processo verbale di constatazione, veniva rilevata, a carico della società , una indebita detrazione, per l’anno 2000, dell’IVA assolta su fatture relative ad operazioni ritenute dall’Ufficio soggettivamente inesistenti.
“In particolare, la contribuente risultava avere acquistato dalla P. s.a.s. merce da quest’ultima acquistata presso altre ditte ed immediatamente rifatturata alla video E., con addebito dell’IVA in rivalsa. L’assenza di una qualsiasi struttura commerciale in capo alla P. s.a.s. induceva, peraltro, l’Ufficio a ritenere che la medesima svolgesse, in sostanza, il ruolo di una cd. “cartiera”, ovverosia di società che si limitava ad emettere fatture nei confronti di altro operatore commerciale del settore, al fine di consentirgli l’imputazione di un’IVA a credito da portare, poi, in detrazione nella dichiarazione annuale.”
A seguito della verifica della GdF l’Agenzia notificava avviso di accertamento per il recupero di IVA nei confronti di un contribuente. Il quale proponeva ricorso inanzi alla Commissione Tributaria Provinciale avverso l’atto impositivo. I giudici di prime cure accoglievano le doglianze del ricorrente annullando l’avviso di accertamento.
L’Amministrazione finanziaria contro la sentenza di primo grado ricorreva alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di Appello riformavano la decisione di prime cure – ritenendo che l’atto impositivo fossero congruamente e sufficientemente motivato, in relazione alle operazioni soggettivamente inesistenti che l’Amministrazione aveva contestato alla contribuente, la cui buona fede, al contrario di quanto ritenuto dal giudice di prime cure, andava certamente esclusa.
Il contribuente avverso la sentenza di appello ricorreva alla Corte di Cassazione per cassare la decisione della Commissione Tributaria Regionale.
Gli Ermellini hanno ritenuto il ricorso infondato. Infatti per i giudici di legittimità in tema di IVA statuiscono che la nozione di “fattura inesistente” va riferita non soltanto all’ ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata sul piano fattuale, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di “inesistenza soggettiva”, che ricorre quando, pur risultando i beni o il servizio reso entrati nella disponibilità patrimoniale dell’ impresa cui le fatture sono rilasciate, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi (Cass. 23074/12, 8132/11).
I giudici alla luce di quanto indicano come definizione di false fatture evidenziano che ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, 21, co. 7, e 26, co. 3, del d.P.R. n. 633/72, è – in linea di principio – precluso al cessionario dei beni, così come al committente del servizio, il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo. Ed infatti, pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata tra altri soggetti (Cass. 6378/06, 18907/11, 23074/12).
Pertanto il committente-cessionario, al quale sia contestata, sulla base di elementi presuntivi forniti dall’amministrazione (gravata del relativo onere della prova), la detrazione dell’IVA versata in rivalsa al soggetto diverso dal cedente-prestatore che ha emesso la fattura, ha il diritto di detrarre l’imposta nella sola ipotesi in cui possa provare, ai sensi dell’art. 2697, co. 2, c.c., che non sapeva o non poteva sapere di partecipare ad un’operazione fraudolenta. Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione (Cass. 8132/11, 23074/12).
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