FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 22 dicembre 2020
Solo il vaccino obbligatorio impedirà il contagio in azienda
Per creare le migliori condizioni di contrasto preventivo alla diffusione del virus nei luoghi di lavoro, è necessaria una norma che renda obbligatorio il vaccino per i lavoratori, alla stregua dell’utilizzo di mascherine, detergenti e distanziamento.
L’articolo 42 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27, ha stabilito, con una tecnica legislativa non proprio cristallina, che l’infezione da COVID-19 può essere considerata alla stregua di un infortunio sul lavoro di cui all’articolo 2 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124. Per il Legislatore la causa virulenta alla base del COVID-19 è equiparabile a quella violenta tipica dell’incidente occorso in occasione di lavoro; peraltro, non si tratta della prima “malattia infettiva” ad essere assimilata a infortunio sul lavoro, visto che lo stesso articolo 2 del D.P.R. 1124/65, al comma 2, già ricomprende in questa categoria l’infezione carbonchiosa (antrace) e che l’infezione malarica è stata equiparata ad infortunio sul lavoro per effetto della sentenza della Corte costituzionale 4 giugno 1987, n. 226.
Se, dunque, l’infezione dal COVID-19 può dare luogo ad un infortunio sul lavoro, ci si deve domandare quali azioni devono essere assunte dal datore di lavoro per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro e quali obblighi incombono sul lavoratore. Con riguardo al primo aspetto, il datore di lavoro dovrà ottemperare a quanto stabilito dall’articolo 2087 c.c., adottando “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica” dei propri lavoratori.
Dal campo scientifico nei mesi scorsi sono giunte prima alcune indicazioni in tema di prevenzione del contagio, confluite nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 24 aprile 2020, e ora finalmente i primi vaccini.
L’adozione delle misure del Protocollo ha comportato considerevoli spese per i datori di lavoro e, in alcuni casi, anche lo stravolgimento dell’organizzazione del lavoro, ma non fornisce alcuna garanzia circa l’effettiva eliminazione dei contagi sul luogo di lavoro. Inoltre, al momento non esistono farmaci specifici per i quali sia accertata l’efficacia per curare gli effetti dell’infezione da COVID-19, sicché il vaccino risulta essere l’unico vero presidio per l’infezione. Dunque, per garantire la sicurezza delle sedi di lavoro, il datore dovrebbe poter pretendere che ciascun dipendente si sottoponga a vaccinazione (aderendo al piano nazionale) garantendo così l’incolumità del singolo e dei suoi colleghi.
Ma il vaccino contro il COVID-19 può essere considerato una di quelle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro che il datore è tenuto ad applicare in forza del precetto contenuto nell’articolo 2087 del Codice civile? Cosa succede se il lavoratore non vuole sottoporvisi? Può il datore di lavoro pretenderlo? E quali provvedimenti può adottare qualora questi non intenda vaccinarsi e diventi un potenziale pericolo per i propri colleghi?
Il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sul Lavoro, sembra non approfondire più di tanto la tematica delle vaccinazioni, limitandosi a prescrivere al medico competente di fornire “adeguata informazione […] sui vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione” (art. 279, comma 5). Ed anche all’articolo 286 sexies, laddove si prevedono le misure da adottare in presenza di specifico rischio di ferite da taglio o da punta e di infezione, in tema di vaccinazioni si ribadisce l’obbligo di informare i lavoratori su “importanza dell’immunizzazione, vantaggi e inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione, sia essa preventiva o in caso di esposizione ad agenti biologici per i quali esistono vaccini efficaci”.
Soltanto con riferimento all’esposizione ad agenti biologici, l’art. 286 sexies del Testo Unico sembra indichi l’obbligo di vaccinazione a carico del datore di lavoro, quantomeno nel settore dell’assistenza sanitaria. Infatti, qualora le lavorazioni adottate comportino il rischio di infezione, la norma in parola prescrive l’obbligo di informare i lavoratori sull’importanza dell’immunizzazione e sui vantaggi e sugli inconvenienti della vaccinazione o della mancata vaccinazione specificando che “tali vaccini devono essere dispensati gratuitamente a tutti i lavoratori ed agli studenti che prestano assistenza sanitaria ed attività ad essa correlate nel luogo di lavoro”.
Si tratta però di una previsione che contempla condizioni di rischio specifiche, immediatamente riconducibili agli agenti nocivi presenti in quei determinati ambienti di lavoro. Come tale, è una previsione che non può essere ritenuta suscettibile di interpretazione, e quindi applicazione, generale.
Allo stato attuale, pertanto, non si rinvengono precetti normativi per effetto dei quali si possa immediatamente ritenere la possibilità per il datore di lavoro di richiedere la vaccinazione quale misura obbligatoria di prevenzione e quindi condizione di accesso sui luoghi di lavoro. Cionondimeno, considerate le esigenze premesse e la già manifestata intenzione da parte del Governo di prevedere a determinate condizioni l’obbligatorietà della vaccinazione, questa potrebbe essere oggetto di una specifica previsione per i luoghi di lavoro, innanzitutto per quelli in cui, per il tipo di lavorazione e/o organizzazione o ancora dei locali, risulti altrimenti più difficoltoso il rispetto delle altre misure anti-contagio.
Senza una norma che renda obbligatorio il vaccino per tutti i lavoratori, quale misura preventiva del contagio in azienda, come sarà possibile tutelare la salubrità dei luoghi di lavoro e la conseguente responsabilità penale del datore di lavoro?
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