FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 27 aprile 2020
La garanzia della liquidità non può essere subordinata all’approvazione dei sindacati
Il D.L. 8 aprile 2020 n. 23, recante “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali”, all’art. 1 prevede le “misure temporanee per il sostegno alla liquidità delle imprese”, attuate con la concessione delle garanzie previste, alle condizioni richieste dal secondo comma della norma premessa.
Tra i requisiti per tale concessione, il citato capoverso impone, alla lettera l), che “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. La norma sottintende un obiettivo diffusamente condivisibile: accompagnare al sostegno alle imprese, attraverso l’accesso alla liquidità, quello dell’occupazione, mirando al suo mantenimento, affinché le pur gravi ripercussioni del fenomeno epidemiologico, al cui contrasto sono destinate le misure in atto, possano essere il più possibile limitate quanto alle ricadute sulla forza lavoro.
Se il fine è indiscutibilmente nobile, è lo strumento adottato che presta il fianco a più di una critica, di merito e di metodo, evidenti innanzitutto a causa di una formulazione del dato normativo dalla non comune incertezza.
Il D.L. n. 23/2020, infatti, all’art. 1, prevede misure di garanzia attraverso la SACE Spa, partecipata di Cassa Depositi e Prestiti, da riconoscere alle imprese con sede in Italia, per l’accesso alla liquidità, il cui rilascio è sottoposto a determinate condizioni, previste dalla stessa norma, tra le quali come premesso l’impegno per le imprese beneficiarie “a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”. La formulazione della norma, generica e incerta sin oltre i limiti della vaghezza, pone dei problemi prima di tutto interpretativi nonché, circostanza affatto secondaria, di compatibilità di sistema.
L’imposizione dell’assunzione di un impegno alla gestione dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali implica una non meglio definita richiesta di co-gestione dell’attività imprenditoriale con le organizzazioni sindacali. Una previsione di questo genere, priva di specificazione riguardo all’oggetto, ai tempi, alle modalità operative, denuncia immediatamente una importante – e insostenibile – compressione della libertà di iniziativa imprenditoriale, che pure trova affermazione nella Costituzione, all’art. 41.
La condivisione delle scelte imprenditoriali può legittimamente risiedere in determinati ambiti e finalità condizionate, ma una sua previsione talmente ampia e indiscriminata, come quella in parola, appare ai limiti della compatibilità costituzionale (e anche oltre).
La previsione, poi, denota criticità intrinseche che, anche a poter prescindere dalla premessa disomogeneità di sistema, rendono comunque difficoltoso individuare e comprendere il campo operativo e la concreta applicazione effettiva della norma.
Si vorrebbe imporre la gestione dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali.
Ma quale significato deve assegnarsi al riferimento alla gestione? Quanto ampia può essere l’ingerenza delle organizzazioni sindacali ai fini del raggiungimento dell’accordo? Non lo individua la norma. Non emergono allo stato risposte univoche plausibili.
Del resto, il legislatore, laddove abbia voluto risolvere il delicato contemperamento tra il legittimo esercizio della libertà imprenditoriale ex art. 41 Cost. e le esigenze di tutela del livello occupazionale, è stato molto più preciso e puntuale, come accade ad esempio con i procedimenti per i licenziamenti collettivi, che già prevedono l’interlocuzione sindacale in momenti significativi delle determinazioni delle strategie aziendali, compatibili con gli interessi potenzialmente opposti delle parti. Ciò è possibile proprio perché si tratta di procedimenti circoscritti in ambiti applicativi, soggettivi ed oggettivi, puntualmente definiti, cosa che nel caso in esame non accade.
Il cosiddetto decreto “Liquidità” poi, perseverando nella propria vaghezza, impone la gestione dei “livelli occupazionali”, senza però specificare il contenuto di tale requisito, cui tuttavia fa corrispondere un obbligo significativo per le imprese, né porre alcun riferimento temporale.
Un’impresa che richiede l’accesso alla liquidità, per le ambasce determinate dalla situazione emergenziale diffusa, dovrà garantire (e per quanto) i livelli occupazionali che registrava all’entrata in vigore della norma? Oppure il riferimento è da intendersi al momento della proposizione della domanda? O ancora dovrà tenersi conto del tempo della erogazione della misura di sostegno alla liquidità? Forse l’impresa dovrà – sine die – ritenersi obbligata a condividere con le organizzazioni sindacali qualsiasi decisione strategica futura che abbia un qualsiasi riverbero, quantitativo e/o qualitativo, sui suddetti e mal definiti livelli occupazionali? E ancora, gli “accordi sindacali” in che modo dovranno essere raggiunti e con quale tipo di rappresentanze? Ritenendo ragionevolmente presumibile che tale accordo debba svolgersi in sede aziendale (sebbene anche in questo caso la norma non rechi alcuna indicazione), il confronto dovrebbe avvenire verosimilmente con le rappresentanze sindacali aziendali? E in loro assenza con quali organizzazioni?
Sono, tutti questi, aspetti essenziali e necessari ai fini della operatività di una norma che, a prescindere dalla sua tenuta costituzionale per quanto premesso, si presenta talmente sciatta da renderne in ogni caso incerta la sua applicazione.
L’auspicio è di un intervento che in sede di conversione voglia, se non eliminare la lettera l) come apparirebbe opportuno, perlomeno circoscrivere doverosamente un quadro così indeterminato. Limitando, ad esempio, la durata dell’impegno, specificando l’oggetto degli accordi, individuando i soggetti abilitati ed il livello contrattuale.
Nell’attesa, allo stato attuale appaiono urgenti alcune riflessioni interpretative, per evitare lo stallo, altrimenti fatale per le imprese, che versano nelle gravissime condizioni di criticità e per le quali, per le note ragioni estranee alle determinazioni imprenditoriali, è di per sé critica la stessa sopravvivenza e conseguentemente il mantenimento dei livelli occupazionali che si vorrebbero tutelare in maniera così incerta.
Dall’ambito delle condizioni previste dalla lettera l), appaiono sicuramente potersi sottrarre i licenziamenti disciplinari, quelli per il mancato superamento del periodo di prova, quelli per superamento del comporto, perché estranei ad una volizione datoriale.
È verosimile ritenere che il riferimento possa essere inteso in relazione ai procedimenti di riduzione del personale con i licenziamenti collettivi, che impattano significativamente sui livelli occupazionali, ma per questi è già prevista l’obbligatorietà del passaggio di consultazione sindacale, dalla normativa vigente, a prescindere dal regime emergenziale. Ed è perciò difficile comprendere come collocare il nuovo e diverso (?) obbligo che pare emergere dalla norma in esame.
Qualora la gestione dei livelli occupazionali dovesse invece intendersi estesa anche ai licenziamenti giustificati da motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/66, l’incertezza premessa, unita all’assenza di previsioni procedimentali definite e rapide, contribuirebbe a irrigidimento e criticità delle modalità di irrogazione delle misure, non giustificato da un impatto tutto sommato modesto. Tutto ciò anche in considerazione del fatto che, al contrario, consentire la concessione rapida dei sostegni promessi garantirebbe una ripartenza altrettanto tempestiva delle aziende e concrete possibilità di mantenimento fisiologico dei livelli occupazionali.
Da questo punto di vista, ancora una volta per oggettive ragioni sistematiche, appare poco plausibile poter assegnare significato di particolare vincolatività agli accordi sindacali il cui impegno è richiesto. Non pare potersi opporre alcun ragionevole dubbio che, a prescindere dalla incerta espressione adoperata dal legislatore, la consultazione sindacale, more solito, se condotta in buona fede, non può assolutamente condurre al diniego della operazione aziendale né impedire il riconoscimento dell’applicazione della norma in esame, anche in caso del mancato raggiungimento di un accordo.
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