FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 06 settembre 2022
Il contratto di lavoro intermittente e il nuovo periodo di prova dopo il Decreto trasparenza
PREMESSA
Il decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104 (c.d. Decreto Trasparenza) introduce novità importanti sia per quanto riguarda il contratto di lavoro intermittente sia per quanto concerne il periodo di prova. Entrambe le fattispecie meritano alcune riflessioni sotto il profilo sostanziale e procedurale, con un’analisi, inoltre, degli aspetti sanzionatori.
Di seguito, si approfondiscono le predette tematiche.
CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE
Tra le novità introdotte dal D.Lgs. n. 104/2022, in vigore dal 13 agosto 2022, alcune di esse riguardano la disciplina del contratto di lavoro intermittente.
L’articolo 5, comma 2, lettera a), del decreto apporta infatti modifiche all’articolo 15 del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che regola forma e comunicazioni del contratto, oltre a ribadire l’applicabilità, anche a questa tipologia contrattuale, delle regole generali introdotte dal legislatore in materia di informazioni sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro e sulle condizioni di lavoro e la relativa tutela previste per la generalità dei contratti, come espressamente dispone l’articolo 1, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 104/2022.
Il decreto appena citato ha sostituito il comma 1 del suddetto art. 15, nel quale sono indicati gli elementi che deve contenere il contratto di lavoro intermittente.
ELEMENTI DEL CONTRATTO
Il nuovo testo della norma, nel confermare la stipulazione in forma scritta ai fini della prova, prevede che, oltre alle informazioni di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, il contratto di lavoro intermittente debba contenere i seguenti elementi:
a) la natura variabile della programmazione del lavoro, durata e ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto a norma dell’articolo 13;
b) il luogo e le modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore;
c) il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita, con l’indicazione dell’ammontare delle eventuali ore retribuite garantite e della retribuzione dovuta per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite nonché la relativa indennità di disponibilità, ove prevista;
d) le forme e le modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, nonché le modalità di rilevazione della prestazione;
e) i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e dell’indennità di disponibilità;
f) le misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto;
g) le eventuali fasce orarie e i giorni predeterminati in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative.
Facendo una comparazione tra il testo della norma vigente dal 13 agosto 2022 con quello precedente, la prima novità riguarda l’inserimento, all’interno del comma 1, dell’inciso che richiama l’informativa prevista dall’art. 1, del D.Lgs. n. 152/1997, collocato prima dell’elencazione degli elementi, necessari o eventuali, che deve contenere il contratto di lavoro tipizzato dal legislatore.
La questione che potrebbe porsi, ad una prima rapida lettura, è se il rimando all’informativa prevista dall’art.1 del D.Lgs. n. 152/1997, a sua volta come interamente sostituito dall’art. 4 del D.Lgs. n. 104/2022, vada o meno ad incorporarsi nel regolamento contrattuale tra le parti.
Appare evidente che, in caso affermativo, le informazioni costituirebbero ad ogni effetto patti contrattuali ed eventuali successive modificazioni non potrebbero unilateralmente essere disposte dal datore di lavoro, col solo onere di informare il lavoratore, salve le eccezioni previste dalla legge (es. ius variandi art. 2103 c.c.).
D’altra parte, ad una più attenta analisi della norma, che tenga conto delle finalità del D.Lgs. n. 104/2022, nonché delle altre modifiche apportate agli elementi del contratto di lavoro intermittente, si ritiene che tale previsione all’interno dell’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2015 non faccia mutare la finalità esclusivamente informativa del riferimento al D.Lgs. n. 152/1997, atteso che il provvedimento entrato in vigore il 13 agosto scorso è stato adottato in attuazione della legge 22 aprile 2021, n. 53, recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea e più precisamente, nel caso di specie, della direttiva comunitaria (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.
L’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2022, che si occupa di indicare il campo di applicazione, come già anticipato, indica altresì la finalità del decreto, ovvero di disciplinare «il diritto all’informazione sugli elementi essenziali del rapporto di lavoro e sulle condizioni di lavoro e la relativa tutela e trova applicazione […], in relazione ai seguenti rapporti e contratti di lavoro:
[…]
c) contratto di lavoro intermittente;».
Inoltre, anche le modifiche agli elementi che deve contenere il contratto di lavoro intermittente (v. infra) paiono confermare la finalità informativa e le ragioni del richiamo inserito dal legislatore nella norma in parola.
Pertanto, si ritiene che il riferimento dell’articolo 15 alle “informazioni” costituisca una specificazione che, oltre ad esse, comunque da fornire allo scopo di assolvere al dovere di trasparenza del datore di lavoro, il contratto debba contenere gli elementi indicati dal primo comma della stessa disposizione.
Tra gli elementi di fattispecie e di disciplina del contratto indicati al comma 1 dell’art. 15 del D.Lgs. n. 81/2015, oggetto di modificazione, viene ora richiesta anche l’indicazione della natura variabile della programmazione del lavoro, oltre alla durata e le ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipulazione del contratto.
La programmazione di lavoro è quella definita all’art. 2, comma 1, del D.Lgs. n. 104/2022, ovvero quella che determina in quali giorni e ore inizia e termina la prestazione di lavoro.
Sebbene nel lavoro intermittente la programmazione non possa che essere ontologicamente variabile, il legislatore richiede che comunque tale caratteristica naturale del tipo contrattuale venga esplicitata in sede di stipulazione del contratto.
Dunque, la (mancata) programmazione del lavoro, che per la generalità dei rapporti di lavoro costituisce una informativa da fornire ai sensi del nuovo art. 1, comma 1, lettere o) e p) del D.Lgs. n. 152/1997, nel contratto di lavoro intermittente costituisce uno degli elementi contrattuali specifici e non un mero dovere informativo.
Coerentemente con l’altra modifica introdotta dal legislatore, nel contratto è richiesta l’indicazione dell’ammontare delle eventuali ore retribuite garantite al lavoratore e della retribuzione dovuta per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite, oltre alla già richiesta indicazione del trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita, nonché la relativa indennità di disponibilità, ove prevista.
Anche l’indicazione delle eventuali ore retribuite garantite, si ricorda, per gli altri rapporti di lavoro fa parte dell’informativa da fornire ai lavoratori (ved. art. 1, comma 1, lett. p) n. 1, D.Lgs. n. 152/1997).
La previsione che impone alle parti di concordare tra loro le ore retribuite garantite al lavoratore si ritiene riguardi la singola chiamata ed abbia lo scopo di consentire al lavoratore di conoscere in anticipo quale sarà la retribuzione alla quale avrà comunque diritto nel momento in cui sarà chiamato a prestare l’attività lavorativa.
In buona sostanza, in tal caso, il diritto alla retribuzione per le ore garantite sorge al momento della chiamata e della relativa adesione del lavoratore, a prescindere dal raggiungimento delle corrispondenti ore di lavoro prestate.
Ove venga superato il limite di ore garantite, al lavoratore spetterà la retribuzione in aggiunta, la cui misura deve essere indicata nel contratto.
Dal raffronto fra il testo originario dell’art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015 e quello sostituito dal D.Lgs. n. 104/2022, emerge un’ulteriore novità degna di sottolineatura, in quanto il legislatore, nello spostare l’obbligo legale di indicare espressamente nel contratto il preavviso di chiamata del lavoratore dalla lettera b) alla lettera d), ha eliminato la previsione che obbligava il datore di lavoro ad un preavviso di chiamata non inferiore a un giorno lavorativo. Tale circostanza lascia ora libere le parti di concordare anche un preavviso di chiamata minimo (anche di una sola ora) come pure di considerare valido e legittimo il preavviso dato in giornata festiva o comunque non lavorativa. Tuttavia, si ritiene che occorra considerare quanto stabilito dall’art. 9, comma 4, del D.Lgs. n. 104/2022 nel quale è previsto che, nell’ambito dei rapporti di cui al comma 1 (tra i quali rientra anche il lavoro intermittente), qualora il datore di lavoro revochi un incarico o una prestazione di lavoro precedentemente programmati, senza un ragionevole preavviso, è tenuto a riconoscere al lavoratore la retribuzione prevista per la prestazione pattuita dal contratto collettivo, ove applicabile o, compensarlo con una somma non inferiore al 50 per cento del compenso inizialmente pattuito per la prestazione annullata. Si ricorda che, per programmazione di lavoro si intende quella che determina in quali giorni e ore inizia e termina la prestazione di lavoro (art. 2, comma 1, lett. a) e che, nel caso del lavoro intermittente, seppure variabile, viene comunque stabilita (rectius: chiamata) dal datore di lavoro.
Un’altra novità riguarda l’obbligo di indicare nel contratto le eventuali fasce orarie e i giorni predeterminati in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative.
Tale previsione ha lo scopo evidentemente di contemperare la possibilità per il lavoratore di cumulare altri impieghi, in caso di variabilità della programmazione di lavoro, con le esigenze organizzative del datore di lavoro quale creditore della prestazione di lavoro pattuite.
Si ritiene utile ricordare, a tal fine, che la finalità dell’informativa relativa all’indicazione della programmazione dell’attività lavorativa prevista per la generalità dei contratti di lavoro, nel contratto di lavoro intermittente richiesta quale elemento del contratto, ha propriamente lo scopo di consentire al lavoratore di cumulare eventuali altri impieghi.
L’art. 8 del D.Lgs. n. 104/2022 prevede infatti che, fatto salvo l’obbligo di fedeltà del lavoratore previsto dall’articolo 2105 c.c., il datore di lavoro non può di regola vietargli lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata, né per tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole.
Solo in caso della presenza di una delle seguenti condizioni il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore tale possibilità:
1. un pregiudizio per la salute e la sicurezza, ivi compreso il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi;
2. la necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico;
3. il caso in cui la diversa e ulteriore attività lavorativa sia in conflitto d’interessi con la principale, pur non violando il dovere di fedeltà di cui all’articolo 2105 c.c.
D’altra parte, il legislatore prevede, come si può notare, che non è necessaria l’indicazione delle fasce orarie e dei giorni predeterminati in quanto, come si è già rilevato, nel contratto di lavoro intermittente la programmazione del lavoro è per sua natura variabile.
Tuttavia, ove le parti concordino tale eventualità, le fasce orarie e i giorni predeterminati vanno necessariamente indicati.
Quindi, più specificamente, andranno indicate le fasce orarie in cui inizia o termina la prestazione di lavoro (il giorno … dalle ore … alle ore …), così come dovranno essere specificati i giorni in cui il lavoratore può essere chiamato a rendere la prestazione lavorativa.
SUI PROFILI ISPETTIVI E SANZIONATORI
Sul piano sanzionatorio operano anzitutto le sanzioni amministrative correlate alle inosservanze circa le informazioni dovute al lavoratore ai sensi dell’art. 1 del D.Lgs. n. 152/1997, come sostituito dal D.Lgs. n. 104/2022, richiamate espressamente come si è detto dal nuovo art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, che riguardano non solo il mancato, ma anche il ritardato, incompleto e inesatto adempimento (art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 152/1997, come sostituito dal D.Lgs. n. 104/2022), nella misura prevista dall’art. 19, comma 2, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (anch’esso novellato dal D.Lgs. n. 104/2022), alle quali si applica la diffida obbligatoria di cui all’art. 13 del D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, secondo quanto illustrato dall’INL nella Circolare n. 4 del 10 agosto 2022.
Quanto invece agli elementi del contratto individuale di lavoro intermittente, elencati dall’art. 15, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, come sostituito dal D.Lgs. n. 104/2022, si ritiene che, in assenza di specifica sanzione penale o amministrativa, gli Ispettori del Lavoro possano procedere adottando apposito provvedimento di disposizione, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004, secondo le indicazioni offerte dall’INL nella Circolare n. 5 del 30 settembre 2020 e in ragione delle esemplificazioni contenute nella nota n. 4539 del 15 dicembre 2020, per consentire la piena adesione alla disciplina legale della fattispecie contrattuale oggetto di accertamenti.
TRANSIZIONE A FORME DI LAVORO PIÙ STABILI
Il contratto di lavoro intermittente costituisce certamente una forma di lavoro a cui si rende applicabile l’articolo 10 del D.Lgs. n. 104/2022 che disciplina la transizione a forme di lavoro più prevedibili, sicure e stabili.
La novella riguarda il lavoratore che abbia maturato un’anzianità di lavoro di almeno sei mesi presso lo stesso datore di lavoro e che abbia completato l’eventuale periodo di prova.
Viene assegnata al lavoratore la facoltà di chiedere al datore di lavoro il riconoscimento di una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibili, ma necessariamente previa manifestazione per iscritto di tale volontà da parte del lavoratore (art. 10, comma 3).
Lo scopo del legislatore è quello di consentire ai lavoratori con condizioni non adeguatamente prevedibili, sicure e stabili, di accedere a rapporti di lavoro che invece presentino condizioni migliori.
Assume quindi rilevanza individuare le caratteristiche delle condizioni di lavoro che determinano il diritto del lavoratore a formulare richiesta al datore di lavoro.
Il rapporto di lavoro imprevedibile è quello caratterizzato da modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili, cioè quello che non prevede un orario normale di lavoro programmato.
Come si è già visto, nel lavoro intermittente la programmazione del lavoro è per sua natura variabile.
Il datore di lavoro, in caso di richiesta del lavoratore, deve pertanto verificare la possibilità di riconoscere condizioni di lavoro prevedibili, sicure e stabili, che – come indica la direttiva (UE) 2019/1152 nel considerando 36 – sono i contratti di lavoro a tempo pieno o a tempo indeterminato.
Il legislatore italiano richiama all’articolo 10, oltre alla caratteristica della prevedibilità già richiamata, l’esigenza che la transizione riguardi anche un lavoro sicuro e stabile.
Verosimilmente il legislatore fa riferimento ad un concetto di sicurezza di stabilità del rapporto di lavoro.
In effetti, a condurre verso una simile interpretazione può essere l’articolo 12 della direttiva (UE) 2019/1152 che, infatti, quando parla di lavoro sicuro fa riferimento a «condizioni di lavoro più prevedibili e sicure» e quindi non fa riferimento alla stabilità che dunque si ritiene una esplicitazione ulteriore del legislatore italiano.
Ne consegue che la transizione deve ritenersi verso la forma comune di rapporto di lavoro prevista dal legislatore, cioè il contratto a tempo indeterminato (art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015).
Il datore di lavoro offre al lavoratore la transizione ad un rapporto di lavoro di tale natura soltanto qualora risulti disponibile; in caso contrario, comunica la risposta negativa entro un mese.
Il lavoratore può presentare una nuova richiesta solo dopo sei mesi dalla precedente. La norma consente alle persone fisiche in qualità di datori di lavoro e alle imprese che occupano fino a cinquanta dipendenti di rispondere in forma orale qualora la motivazione della risposta rimanga invariata rispetto alla precedente (art. 10, comma 4, D.Lgs. n. 104/2022), ma appare del tutto evidente l’importanza di conservare agli atti la risposta resa in forma scritta.
SUI PROFILI ISPETTIVI E SANZIONATORI
Quanto ai profili sanzionatori e ispettivi, l’assenza di una specifica sanzione consente di ritenere adottabile un apposito provvedimento di disposizione, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004, per la violazione degli obblighi di risposta che l’art. 10, comma 4, del D.Lgs. n. 104/2022 impone al datore di lavoro, permettendo così il recupero della conformità legale nel caso concreto.
PERIODO DI PROVA
Il D.Lgs. n. 104/2022, nel prevedere nuove tutele a favore dei lavoratori, disciplinate dalle norme di cui al capo III rubricato “Prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro”, ha introdotto l’art. 7 riguardante la durata massima, la proporzionalità, la sospensione e la non ripetibilità del periodo di prova.
SULLA DURATA MASSIMA
Il primo comma della disposizione in esame stabilisce che “nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a sei mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi”.
Il precetto normativo è chiaro ed inderogabile. Il termine di sei mesi non può essere superato nemmeno con un accordo “certificato” delle parti contraenti. La materia, quindi, non è disponibile.
Il legislatore concede alle parti la possibilità di prevedere un termine inferiore se ciò sia previsto dal contratto collettivo. Allo stesso tempo il legislatore nulla dice in merito alla natura del contratto collettivo nominato. Come noto l’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 prevede che “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Orbene, posto che tale norma rimane circoscritta nell’ambito applicativo del D.Lgs. 81/2015, sarebbe opportuno un chiarimento ministeriale in merito alla individuazione del contratto collettivo utile ai fini dell’art. 7 D.Lgs. n. 104/2022.
Si ritiene che tale norma trovi applicazione per i contratti con periodo di prova stipulati a decorrere dal 13 agosto 2022.
SULLA PROVA NEI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO
Il comma 2 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 104/2022 dispone che “nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova”.
Il legislatore regolamenta una materia sino ad oggi incerta, fissando il principio della proporzionalità del periodo di prova in rapporto alla durata del contratto e alle mansioni in relazione all’impiego (NOTA 1).
Tuttavia, risulta chiara la scarsa concretezza del precetto normativo, in quanto il concetto di “proporzionale” non conosce una sua definizione sostanziale, lasciando all’interprete la scelta di individuare i parametri di riferimento al fine di procedere alla diminuzione del periodo di prova rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva per il rapporto a tempo indeterminato.
In effetti, il dettato normativo porta alla inevitabile soluzione che il periodo di prova per i contratti a termine formi quanto prima oggetto di specifici accordi in sede di redazione dei contratti collettivi, diversamente la materia si presta a divenire terreno di contenzioso diffuso.
Tuttavia, si ritiene che nell’ambito della durata massima, predeterminata dal legislatore, e della durata inferiore prevista dalla contrattazione collettiva, le parti contrattuali possono individuare concordemente parametri validi di proporzionalità considerando le indicazioni della norma, vale a dire basandosi sulla durata complessiva del contratto (ad es. stilando una graduazione di durata della prova in ragione dei mesi o degli anni di durata del contratto a termine) e sul tipo di mansioni da svolgere (ad es. predisponendo una graduazione di durata della prova in base al mansionario disciplinato nel contratto collettivo applicato), tenendo conto della natura del lavoro (ad es. modulando i due parametri indicati in funzione del settore ove opera l’azienda e della rilevanza oggettiva dell’impiego), per poi procedere alla certificazione della loro volontà nel contesto procedurale regolamentato dal D.Lgs. n. 276/2003.
Il legislatore, poi, fissa il principio secondo cui “in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova”. Infatti, se la funzione della “prova” va individuata nella possibilità per entrambe le parti contrattuali di valutare il reciproco apprezzamento verso quel tipo di rapporto, tale funzione verrebbe meno in una logica di rinnovo, in cui sia le parti sia le mansioni contrattuali non cambiano rispetto al precedente contratto.
Del resto nel lavoro subordinato, come suggerisce la giurisprudenza, il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentarne la convenienza, sicché esso risulta illegittimamente stipulato ove la suddetta verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le stesse mansioni e per un congruo lasso di tempo. Ne consegue che la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti sia ammissibile solo se, in base all’apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (cfr. Cass. n. 15059/2015; Cass. ord. n. 18268/2018).
Da un punto di vista processuale giova ricordare che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso; incombe, pertanto, sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l’onere di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova (cfr. Cass. n. 1180/2017; Cass. ord. n. 18268/2018).
SULLA SOSPENSIONE DEL PERIODO DI PROVA
Il terzo comma dell’art. 7 in commento prevede che “in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza”.
Secondo la giurisprudenza (cfr. Cass. n. 4573/2012) il decorso di un periodo di prova, determinato nella misura di un complessivo arco temporale, non era sospeso dalla mancata prestazione lavorativa inerente al normale svolgimento del rapporto (quali i riposi settimanali e le festività), mentre doveva ritenersi escluso, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si fosse verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso (quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro). Secondo la giurisprudenza, tale principio trovava applicazione solo in quanto non prevedesse diversamente la contrattazione collettiva, la quale poteva attribuire o escludere rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi, che si fossero verificati durante il periodo medesimo (cfr. Cass. n. 4573/2012; Cass. n. 19043/2015).
Orbene, il legislatore fissa ora per legge un motivo di sospensione, che quindi si realizza automaticamente, in riferimento alle fattispecie indicate. Rimane aperta la possibilità per la contrattazione collettiva di individuare altre ipotesi di sospensione, dovendosi ritenere che gli eventi indicati dal legislatore abbiano carattere esemplificativo.
SUI PROFILI ISPETTIVI E SANZIONATORI
Relativamente ai profili ispettivi e sanzionatori che possono interessare l’attuazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 104/2022, nelle more dei chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (che nella Circolare n. 4/2022 sul punto fa esplicita “riserva di fornire specifiche indicazioni”), si può osservare che la norma, così come finora esaminata, pone un divieto e due obblighi al datore di lavoro: vieta di superare la durata massima, obbliga a stabilire una durata proporzionale per i contratti a termine e, infine, obbliga a prolungare la durata della prova nei casi di eventi sopravvenuti.
Né il divieto, né gli obblighi, tuttavia, sono presidiati da una reazione sanzionatoria diretta (né penale, né amministrativa), pertanto, si ritiene che l’assenza di una specifica sanzione consenta agli Ispettori del Lavoro di adottare un provvedimento di disposizione, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004, al fine di assicurare il ripristino della legalità della condotta datoriale.
Qualora, però, l’indagine ispettiva intervenga a periodo di prova già superato, la violazione del divieto e dei due obblighi potrà trovare tutela esclusivamente in sede giudiziaria con apposita azione risarcitoria proposta dal lavoratore.
In ogni caso, da un punto di vista giuslavoristico, la sottoscrizione di un patto recante un periodo di prova in violazione dei requisiti di cui all’art. 7 in esame può comportare la nullità della relativa clausola.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 22 novembre 2022, n. 34314 - Il contratto di lavoro intermittente è regolato dalla contrattazione collettiva la individuazione delle "esigenze" per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni…
- IO Lavoro e Decontribuzione Sud - Le FAQ della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro - FONDAZIONE STUDI CDL - Approfondimento 03 novembre 2020
- FONDAZIONE STUDI CDL - Approfondimento 31 marzo 2020 - 100 Risposte per 100 domande - Le faq della fondazione studi consulenti del lavoro
- L'esonero dal versamento dei contributi per aziende senza CIG - Le FAQ della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro con le risposte ai 10 quesiti più frequenti in materia - FONDAZIONE STUDI CDL - Approfondimento 03 dicembre 2020
- FONDAZIONE STUDI CDL - Comunicato 04 luglio 2020 - Covid-19: donne più esposte al rischio contagio - Sono 4 mln 345 mila le lavoratrici che svolgono attività ad alto rischio di contrarre malattie infettive respiratorie. Maggiormente esposti, inoltre,…
- Buste paga prima e dopo l'assegno unico e universale - FONDAZIONE STUDI CDL - Approfondimento 08 aprile 2022
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Imposta di registro: non va applicata sulle clauso
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 3466 depositata i…
- Le perdite su crediti derivanti da accordi transat
Le perdite su crediti derivanti da accordi transattivi sono deducibili anche se…
- L’art. 7 L. n. 604/1966 consente al datore d
L’art. 7 L. n. 604/1966 consente al datore di lavoro di comunicare il licenziame…
- Le circolari INPS sono atti interni e non possono
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 10728 depositata il 2…
- La nota di variazione IVA va emessa entro un anno
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 8984 deposi…