La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 9225 depositata l’8 febbraio 2025, intervenendo in tema di impugnabilità del  provvedimento di diniego dell’annullamento dell’atto tributario divenuto definitivo, ha ribadito il principio secondo cui In tema di contenzioso tributario, il sindacato del giudice sul provvedimento di diniego dell’annullamento in sede di autotutela dell’atto tributario divenuto definitivo è limitato all’accertamento della ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto, originarie o sopravvenute, dovendo invece escludersi che possa essere accolta l’impugnazione del provvedimento di diniego proposta dal contribuente che contesti vizi dell’atto impositivo per tutelare un interesse proprio ed esclusivo” (Cass., sez. V, ordinanza n. 7318 del 2022)

La vicenda ha riguardato un contribuente che aveva chiesto all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo. L’Amministrazione finanziaria emetteva un provvedimento di diniego alla richiesta del contribuente. Il contribuente impugnava il provvedimento I giudici tributari di primo grado accoglievano il ricorso della società contribuente. L’Agenzia delle entrate proponeva appello. I giudici tributari di secondo grado accolsero il ricorso erariale. La società, avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione fondato su due motivi.

I giudici di legittimità rigettavano il ricorso.

Per gli Ermellini la consolidata giurisprudenza della Corte aveva chiarito che facendo leva sul «carattere generale» della giurisdizione tributaria, assunto dopo la novella del 2001 n. 448, hanno affermato che, nonostante la mancata inclusione del provvedimento — tacito o espresso — di diniego di autotutela nell’elenco di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, esso è suscettibile di impugnativa giurisdizionale dinanzi al giudice tributario.” (Cass., sez. V.  n. 24652 del 14/09/2021; Cass. n. 161/2024 e da Cass. 26505/2024, Sezioni Unite  con la sentenza n. 16778 del 2005).

I giudici di piazza Cavour, hanno anche ricordato che la “sentenza delle Sezioni Unite 7388 del 2007 ha precisato che l’attribuzione al giudice tributario, da parte dell’art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001, di tutte le controversie in materia di tributi di qualunque genere e specie, comporta che anche quelle relative agli atti di esercizio dell’autotutela tributaria, in quanto comunque incidenti sul rapporto obbligatorio tributario, devono ritenersi devoluti al giudice la cui giurisdizione è radicata in base alla materia, indipendentemente dalla specie di atto impugnato. Pertanto, sebbene il provvedimento di autotutela sia discrezionale e comporti l’affievolimento della posizione soggettiva del contribuente ad interesse  legittimo, ciò non comporta la sottrazione delle controversie sui relativi atti al giudice naturale, ossia al giudice tributario.

In ordine ai limiti, il Supremo consesso ha evidenziato che in tema di limiti del sindacato giurisdizionale sugli atti di autotutela, le Sezioni Unite di questa Corte — facendo riferimento ai principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sentenza n. 6758 e 7287 del 2004), in quanto, in base alla disciplina contenuta nell’art. 2-quater del d.l. 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, nella legge 30 novembre 1994, n. 656, e nel regolamento di esecuzione, approvato con d.m. 11 febbraio 1997, n. 37, poteri di annullamento o di revoca dell’Amministrazione finanziaria possono essere esercitati soltanto nel perseguimento di interessi pubblici — hanno circoscritto l’oggetto del giudizio alla valutazione della legittimità del rifiuto dell’annullamento d’ufficio, escludendo che esso possa estendersi alla fondatezza della pretesa tributaria, verificandosi altrimenti una indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa e, quindi, l’invasione in una sfera estranea a quella della giurisdizione tributaria. Pertanto, secondo i principi enunciati dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, l’esercizio del potere di autotutela non costituisce un mezzo di tutela per il contribuente, sostitutivo dei rimedi giurisdizionali che non sono stati esperiti, anche se comunque finisce con l’incidere sul rapporto tributario e, quindi, sulla posizione giuridica del contribuente. 

I giudici della Suprema Corte, nella sentenza in commento, precisato che “(Cass., sez. 6-5, 2/02/2014, 25524; Cass., sez. 6-5, 11/12/2014, n. 26087;  Cass.,  sez.  5,  20/02/2015,  n.  3442;  Cass.,  sez.  5, 28/03/2018, n.7616; Cass., sez. 5, 24/08/2018, n. 21146; Cass. sez. 5, 22/02/2019, n. 5332; Cass., sez. 2019, n. 8558; Cass., sez. 5, 25/09/2020, n.20200), pur ammettendo il sindacato sul diniego di autotutela, ha affermato che esso può riguardare solo profili di illegittimità del rifiuto di annullamento opposto dall’Amministrazione, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale, per cui il vaglio del giudice non può riguardare la fondatezza della pretesa tributaria, ormai definitivamente preclusa, determinandosi altrimenti una indebita sostituzione dell’autorità giudiziaria alle scelte discrezionali dell’amministrazione, peraltro con riferimento ad un atto ormai divenuto inoppugnabile. Pertanto, si è ritenuto che contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela possa essere sì proposta impugnazione, ma soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa impositiva.

(…)

Anche la Corte costituzionale, intervenuta sul tema con la sentenza n. 181 del 19 luglio 2017, ha ribadito che l’annullamento d’ufficio non ha la funzione di tutela del contribuente, ma è espressione di amministrazione attiva e, pertanto, necessita di preliminari valutazioni comparative e discrezionali. Ed ha espressamente affermato che, pure «in un contesto così caratterizzato, tuttavia, nel quale l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a convergere con quello del contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall’annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti — e con altri eventualmente emergenti nella vicenda concreta sulla quale l’amministrazione tributaria è chiamata a provvedere — secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa. Sicché si conferma in ogni caso, anche in ambito tributario, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio».

Il giudice delle leggi ha infatti rilevato che altrimenti «affermare il dovere dell’amministrazione di rispondere all’istanza di autotutela significherebbe, in altri termini, creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, per giunta azionabile sine die dall’interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo e della correlata stabilità della regolazione del rapporto che ne costituisce oggetto». Ed ha poi sottolineato come residui una ipotesi in cui è esperibile l’autotutela tributaria, ed è il caso in cui sia riscontrabile un interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, il quale, a sua volta, costituisce una sintesi tra l’interesse fiscale dello Stato ed il principio di effettività della capacità contributiva ex art. 53 Cost.

(…) In tale contesto si inserisce anche la sentenza n. 24032 del 26 settembre 2019, con cui questa Corte ha affermato che il sindacato del giudice tributario sul provvedimento di diniego dell’annullamento dell’atto tributario divenuto definitivo è consentito, purché si accerti la ricorrenza di ragioni di rilevante interesse generale dell’Amministrazione finanziaria alla rimozione dell’atto, originarie o sopravvenute. Invece deve escludersi che possa essere accolta l’impugnazione dell’atto di diniego proposta dal contribuente il quale contesti vizi dell’atto impositivo che avrebbe potuto far valere, per tutelare un interesse proprio, in sede di impugnazione prima che divenisse definitivo (in senso conforme, Cass., sez. 5, 23/01/2019, n.1803; Cass., sez. 5, 20/02/2019, n. 4937; Cass., sez. 5, 30/12/2020, n. 29874). 

(…)

Successivamente, Cass. 04/09/2023, n. 25659 ha ribadito il principio di diritto secondo cui «Il contribuente che richiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo o un provvedimento irrogativo di sanzioni, divenuto definitivo, non può limitarsi a dedurre eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione deve ritenersi definitivamente preclusa, ma deve prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Ne consegue che contro il diniego dell’Amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria».

(…) Sulla scorta dell’orientamento giurisprudenziale intervenuto in materia, del tutto condivisibile, deve, quindi, ritenersi che, sebbene sia ammissibile l’impugnazione dei provvedimenti di diniego emessi in sede di autotutela, ancorché l’originario provvedimento sia divenuto definitivo, è tuttavia in tali casi necessario un bilanciamento dei contrapposti interessi, secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa, dovendosi confermare, sotto tale aspetto, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio (Corte Cost., sentenza 13 luglio 2017, n.181), per cui il contribuente il quale richiede all’Amministrazione finanziaria di ritirare, in via di autotutela, un avviso di accertamento divenuto definitivo, non può limitarsi ad eccepire eventuali vizi dell’atto medesimo, la cui deduzione è definitivamente preclusa, ma deve piuttosto prospettare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale dell’Amministrazione alla rimozione dell’atto. Infatti, come già riconosciuto da questa Corte (Cass., sez. 5, 30/10/2015,n. 22253), non può escludersi che, trattandosi di attività procedimentalizzata, anche il provvedimento di diniego di autotutela possa essere affetto da vizi di legittimità propri degli atti amministrativi, per cui non vi sono ragioni per precludere al contribuente la possibilità di esperire i mezzi di tutela per far valere tali vizi, ma questi non possono sovrapporsi ai vizi di validità o di merito afferenti all’atto impositivo, poiché altrimenti si consentirebbe l’aggiramento del termine di decadenza, previsto a garanzia del principio di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici, per l’impugnazione degli atti impositivi, che rimarrebbero esposti al riesame a tempo indeterminato tutte le volte in cui il contribuente dovesse presentare una istanza di revisione in autotutela.

(…) Ugualmente, come chiarito da questa Corte, la sussistenza dell’interesse pubblico all’annullamento dell’atto tributario non può affatto desumersi dal disposto di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.m. n. 37 del 1997, che attribuisce all’amministrazione finanziaria una mera facoltà di esercitare l’autotutela nell’ipotesi di «d) doppia imposizione», prevedendo, peraltro, l’art. 3 del citato d.m. che «Nell’attività di cui all’articolo 2 è data priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso»