La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025, intervenendo in tema di discriminazione per disabilità e principio di accomodamenti ragionevoli, ha ribadito il principio secondo cui “il ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico (v. Cass n. 6497/2021 cit., n. 9870/2022).”
La vicenda ha riguardato un lavoratore disabile, affetto da gravi deficit visivi, addetto all’assistenza tecnica di primo livello alla clientela business. Il dipendente citava in giudizio la società datrice di lavoro al fine di vedersi riconosciuto l’assegnazione allo svolgimento delle proprie mansioni da remoto o in regime di lavoro agile ( smartworking). La società datrice di lavoro eccepiva che lo svolgimento di lavoro agile era regolato in azienda da accordo, da cui, però, erano esclusi i caring agents quali il ricorrente. Il Tribunale adito, nella veste di giudice del lavoro, rigettava la domanda del dipendente. Il lavoratore appellava la decisione dei giudici di prime cure. La Corte territoriale riformava la sentenza impugnata, riscontrando la violazione dell’art. 3, comma 3-bis, lgs. n. 216/2003, in relazione alla mancata adozione da parte della società di ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità. La società, avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione fondato su due motivi.
I giudici di legittimità rigettavano il ricorso.
Gli Ermellini evidenziano preliminarmente che ” la tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, vuoi sulla della direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, vuoi sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).
5. È inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità) …“
I giudici di piazza Cavour chiariscono che ” La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittime finalità di politica occupazionale, postula l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE (Cass. n. 9095/2023, n. 14316/2024, n. 24052/2024).
(…) Posto che, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta e nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (Cass. n. 20204/2019), il termine di paragone è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità; la questione degli accomodamenti ragionevoli possibili e praticabili in concreto si sposta, pertanto, sul piano della prova; “
La Suprema Corte, in ordine al riparto della prova, ha ribadito che “Nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, che non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente (Cass. 1/2020, n. 6497/2021); per effetto dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta a seguito del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circost mze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (cfr. Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso).”
Infine per il Supremo consesso “L’onere di interlocuzione, la cui base giuridica risiede nella Convenzione di New York e nella giurisprudenza della CGUE, è ora direttamente stabilito nell’art. 17 d. lgs. 3.5.2024 n. 62 (Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato); pur non applicabile ratione temporis al caso di specie, la procedimentalizzazione della facoltà della persona con disabilità di richiedere l’adozione di un accomodamento ragionevole, con conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, riflette il carattere vincolante dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto costituisce la discriminazione vietata; la violazione dell’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli, sancito, in attuazione di obblighi derivanti dalla normativa dell’Unione europea, dall’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003, si traduce nella violazione di doveri imposti per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, realizzando così una discriminazione diretta (cfr. Cass. n. 14307/ 2024) ”