La Corte di Cassazione, sezione penale, con la sentenza n. 4326 depositata il 19 febbraio 2025, intervenendo in tema di causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., ha ribadito il principio secondo cui “La motivazione, infine, appare manifestamente illogica, laddove esclude la valutazione del danno in termini di particolare tenuità, pur dando atto del modesto superamento della soglia di punibilità, elemento certamente già valorizzabile ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (cfr. Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, Latorre, Rv. 278946; Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, dep. 2019, Canella, Rv. 276546) ed ora espressamente previsto dall’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. n. 74 del 2000 – come aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. f), n. 3), d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 – che, appunto, ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis cod. pen., relativamente ai delitti previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, impone al giudice di valutare, tra l’altro, “l’entità dello scostamento dell’imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità“.“
La vicenda ha riguardato il legale rappresentante di una s.a.s. ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 10-bis lgs. n. 74 del 2000, per non aver versato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annua di sostituto d’imposta, ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituto, per un ammontare pari a 151.018,58 euro. L’imputata veniva riconosciuto colpevole del reato ascritogli sia in primo grado che in appello. Avverso la sentenza, l’imputato, tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. In particolare, per avere la Corte di appello negato i presupposti integranti la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante il minimo superamento della soglia di punibilità e la minima intensità del dolo.
I giudici di legittimità annullavano la sentenza impugnata limitatamente all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. e rinvia sul punto ad altra Sezione della Corte di appello e dichiaravano inammissibile il primo motivo.
In merito al primo motivo, riguardante l’esclusione del reato per cause di forza maggiore, in quanto la crisi di liquidità della società è stata imprevedibile, essendo riconducibile a fatture insolute mai incassate. Per i giudici di piazza Cavour “il reato in disamina è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla preservazione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento dei tributi all’Erario, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (v. Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017, Agazzino, Rv. 271189 e, di recente, Sez. 3, n. 20090 del 12/06/2020, Biagini e Sez. 3, n. 20089 del 12/06/2020, Pistilli), situazione accertata nel caso in esame.
Invero, i giudici di merito hanno accertato che l’imputato ha continuato a corrispondere lo stipendio ai dipendenti e a pagare i fornitori: segno che, evidentemente, la crisi di liquidità non era affatto assoluta e che, pertanto, l’impresa non si trovava in quella situazione di impossibilità di compiere scelte alternative, ovvero nella condizione di una condotta (omissiva) irresistibilmente coartata verso un determinato risultato o effetto (il mancato versamento delle ritenute previdenziali).
Invero, i giudici di merito hanno accertato che l’imputato ha continuato a corrispondere lo stipendio ai dipendenti e a pagare i fornitori: segno che, evidentemente, la crisi di liquidità non era affatto assoluta e che, pertanto, l’impresa non si trovava in quella situazione di impossibilità di compiere scelte alternative, ovvero nella condizione di una condotta (omissiva) irresistibilmente coartata verso un determinato risultato o effetto (il mancato versamento delle ritenute previdenziali).”
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato il secondo motivo, inerente alla tenuità del fatto, poichè ha errato la Corte di appello nell’escluderla ” facendo leva sia sulla presenza di una condotta abituale, avendo [l’imputato] riportato un precedente specifici ed essendo sottoposto ad altri procedimenti penali per violazioni tributarie, sia sulla intensità del dolo e sul fatto che egli non ha provveduto a versare quella modesta somma che avrebbe potuto abbassare la evasione sotto soglia.”
Per il Supremo consesso, infatti, “La motivazione è giuridicamente errata laddove pare individuare, quale elemento ostativo, l'”abitualità del comportamento”, che, tuttavia, non sussiste, posto che il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti della stessa indole, oltre quello preso in esame (per tutti, Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591), mentre, nel caso in esame si è alla presenza di una sola condanna irrevocabile per un reato della stessa indole, essendo invece irrilevanti i carichi pendenti.
Parimenti errata è la motivazione nella parte in cui dà risalto al fatto che l’imputato non ha provveduto a versare quella modesta somma che avrebbe potuto abbassare la evasione sotto soglia, posto che tale postumo pagamento non vale ad escludere la sussistenza di un reato già consumato. “