La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 5936 depositata il 6 marzo 2025, intervenendo in tema di licenziamento disciplinare per affermazioni offensive al superiore su WhatsApp, ha ribadito il principio secondo cui in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse. Si è quindi escluso il carattere illecito – da un punto di vista oggettivo e soggettivo – della condotta contestata al dipendente in quanto riconducibile alla libertà, costituzionalmente garantita, di comunicare riservatamente. (Corte n. 21965 del 2018)”

La vicenda ha riguardato un dipendente di una società a responsabilità limitata, il quale aveva registrato su una chat di WhatsApp denominata “Amici di lavoro” alla quale partecipavano con lui altri 13 colleghi, alcuni messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico team leader con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti. A seguito di tali frasi nei confronti del lavoratore veniva iniziata la procedura disciplinare. A conclusione della procedura veniva disposto il suo licenziamento per giusta causa. Il dipendente impugnava il provvedimento di espulsione. Il Tribunale adito, nella veste di giudice del lavoro, riteneva illegittimo il licenziamento, condannando la società a reintegrare il dipendente con il pagamento dell’indennità risarcitoria dal dì del licenziamento a quello della reintegrazione. La società datrice di lavoro impugnava la sentenza. La Corte di appello rigettava l’appello proposto dalla società, ritenendo che tale forma di comunicazione non assimilabile ad altra ipotesi, quale la pubblicazione su bacheca “Facebook”, essendo, quest’ultimo, un sistema invece accessibile a un numero indeterminato di persone. La datrice di lavoro, avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

I giudici di legittimità rigettavano il ricorso.

Gli Ermellini, preliminarmente, evidenziano sulla base delle decisioni della Corte Costituzionale “quello di «corrispondenza» è concetto «ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», ha ribadito che la tutela accordata dall’art. 15 Cost. «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (v. anche Corte Cost., sentenza n. 2 del 2023) e che la «garanzia si estende […] ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale». Su tali principi la sentenza n. 170 ha fondato la statuizione per cui «posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione».

La posta elettronica e i messaggi WhatsApp operano secondo modalità e procedure che soddisfano il requisito di segretezza, in funzione del quale è riconosciuta a tutti consociati la tutela di cui all’art. 15 Cost. Ciò in armonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, senza incertezze, ha ricondotto sotto il cono di protezione dell’art. 8 CEDU – ove pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court – i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezioni quinta, sentenza 17 dicembre 2020, Saber contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Corte EDU, Grande Camera, sentenza Barbulescu, paragrafo 74

Nella sentenza n. 170 del 2023 la Corte cost. ha richiamato il dibattito, anche giurisprudenziale, sui limiti temporali finali della tutela assicurata dall’art. 15 Cost. ed ha concluso che tale disposizione garantisce alla generalità dei cittadini, così come l’art. 68 Cost. ai membri del Parlamento, la libertà e la segretezza della corrispondenza «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”»; ciò sempre in accordo con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sopra citata) che ha ricondotto alla nozione di «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (in tal senso v. anche Cass. pen., n. 25549 del 2024). 

Per cui, secondo il Supremo consesso La manifestazione del pensiero attuata attraverso le moderne vie di comunicazione elettronica, assimilabili, secondo le parole della Corte Costituzionale, a una lettera inserita in una busta chiusa, è stata considerata dal datore di lavoro come condotta riprovevole.

Deve rammentarsi che la nozione di giusta causa di licenziamento è collegata a comportamenti che si concretano nella violazione degli obblighi facenti capo al lavoratore, individuati come obblighi di conformazione, diligenza e fedeltà, strettamente connessi all’osservanza delle prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione e agli interessi dell’impresa. Anche il rilievo disciplinare di condotte extralavorative dei dipendenti è, comunque, subordinato alla idoneità delle stesse a riflettersi, in senso negativo, sul rapporto fiduciario e sulla prospettiva di regolare esecuzione della prestazione (v. Cass. 8390 del 2019; n. 428 del 2019; n. 12994 del 2018). Invece, non rientra tra le prerogative datoriali un potere sanzionatorio di tipo meramente morale nei confronti dei dipendenti, tale da comprimere o limitare spazi di libertà costituzionalmente protetti, come quello concernente la corrispondenza privata.

Da ciò discende che la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a  giusta  causa  di  licenziamento  il  contenuto  in  sé  delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.

Pertanto, in sintesi, per i giudici di piazza Cavour il messaggio inviato dal lavoratore in una chat di gruppo con i colleghi non può essere utilizzato a fini disciplinari, essendo inviato a persone determinate e destinato a rimanere segreto e prescindendo dai modi in cui il datore di lavoro ne abbia avuto conoscenza; ciò per la tutela di cui all’art. 15 Cost.