La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 22732 depositata il 01 ottobre 2013 intervenendo in tema di successione ha affermato che l’impresa familiare coltivatrice è equiparabile alla forma più elementare di impresa collettiva, ossia la società semplice. Per cui da tale assunto discende come la quota del familiare consorziato, in caso di decesso, confluisce nel suo asse ereditario. Legittimati passivi rispetto al credito per gli utili sono quindi l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati, i quali rispondono di tale obbligazione con i beni comuni, non già gli eredi del capofamiglia defunto.
La vicenda ha riguardato un ricorrente che conveniva innanzi al Giudice del lavoro i propri familiari, nella qualità di eredi del suo defunto padre, richiedendo tra l’altro l’accertamento e dichiarato che, avendo prestato in modo continuativo, a far data dal 1952, la sua attività di lavoro nella famiglia e nell’impresa familiare di cui il defunto padre era titolare, aveva conseguito il diritto alla partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato
Il Tribunale adito dichiarava ammissibili la domanda riconvenzionale e disponeva la conversione del rito, ex art. 426 c.p.c., con riferimento a quelle attinenti l’impresa familiare ed al lavoro prestato in favore dell’azienda agricola da O. R. in quanto devolute alla cognizione del giudice del lavoro, quindi sospendeva il giudizio relativamente alle altre domande.
I giudice di merito condannava, in merito all’accertamento di cui sopra, G. e M. P. O., nei limiti della quota di eredità spettante, al pagamento in favore del germano R. della somma di lire 181.463,369 pari ad euro 93.810,97, oltre interessi legali sui ratei rivalutati dalla scadenza al saldo.
Il ricorso alla Corte di Appello, promosso dalle parti soccombenti, produceva la parziale riforma della sentenza del giudice di primo grado che accertava il credito di euro 93.810,97 ma nei confronti della massa ereditaria, confermando nel resto la decisione impugnata.
Avverso la decisione del giudice di appello, le parti soccombenti, proponevano ricorso alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza di secondo grado basandolo su sette motivi di censura. La Cassazione ritiene fondati solo il terzo e sesto motivo.
I giudici di legittimità, infatti, hanno precisato che “la decisione richiamata nella impugnata sentenza (Cass. n. 7223 del 15 aprile 2004) effettivamente è riferita alla impresa familiare e non alla impresa familiare coltivatrice rispetto alla quale questa Corte ha avuto modo di precisare in varie decisioni che essa, prevista dall’art. 48 L. 203-1982, è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare, disciplinata dall’art. 230 bis c.c., per cui alla prima sono applicabili i principi relativi alla seconda, in quanto compatibili e che nella previsione legislativa si configura come organismo collettivo, formato dai familiari dei consorziati e finalizzato all’esercizio in comune dell’impresa agricola (cfr. Cass. 13007/1991). Si è, altresì, chiarito che siffatta configurazione riconduce l’impresa familiare coltivatrice all’impresa collettiva e la rende equiparabile alla forma più elementare di essa, la società semplice la cui disciplina è, del resto, significativamente riprodotta, sia pure in parte, nel testo dell’art. 48 L. 203/1982 (cfr. Cass. n. 13007/1991; n. 1382/1993; n. 5766/1991; n. 8854/1990). E’, quindi, nella normativa in materia societaria ed nei relativi principi generali che va individuata la disciplina della impresa familiare coltivatrice (Cass. n. 3626/1996; Cass. n. 1099/2006; Cass. 874/2005 in motivazione).”
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