La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 17586 depositata il 26 giugno 2024, intervenendo in tema demansionamento e condotte vessatorie, ha ribadito il principio secondo cui “… in tema di dequalificazione professionale, ove il lavoratore richieda l’accertamento della illegittimità della destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte, costituendo il suddetto accertamento la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, l’interesse ad ottenere la pronunzia permane anche dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, incidendo quest’ultimo evento soltanto sull’eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza, ma non sul diritto all’accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto (Cass. ord. n. 4410/2022; Cass. n. 19009/2010; Cass. n. 12844/2003). …”
La vicenda ha riguardato un dipendente, il quale alla conclusione del rapporto di lavoro cita in giudizio per ottenere l’accertamento dell’illegittimità del mutamento di mansioni, in violazione dell’art. 2103 c.c., e l’ordine alla società di reintegrarlo nelle mansioni di addetto alla portineria oppure ad altre a queste equivalenti. Secondo il dipendente era stato vittima di condotte vessatorie poste in essere dalla società datrice di lavoro ai suoi danni al suo rientro da un periodo di malattia dovuta a infortunio sul lavoro (per il quale pendeva altro giudizio). Il Tribunale adito rigettava l’istanza cautelare, rigettava altresì il reclamo cautelare e le domande. Il lavoratore impugnava la decisione di primo grado. La Corte di appello rigettava il gravame del lavoratore, sostenendo che il dedotto demansionamento andasse valutato esclusivamente con riguardo alle specifiche competenze del lavoratore, ai sensi dell’art. 2103 c.c., con esclusione di ogni rilevanza dell’ipotizzato pregiudizio alla salute. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
I giudici di legittimità accoglievano il primo ed il secondo motivo, assorbiti gli altri.
Gli Ermellini precisano che “… qualora l’attore abbia chiesto l’accertamento di un diritto e la conseguente condanna del convenuto ad un facere, la circostanza che nel corso del giudizio sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione di fare non determina la cessazione della materia del contendere, perché non si estingue l’interesse dell’attore all’accertamento del fatto controverso (Cass. ord. n. 28100/2017). …”
Il Supremo consesso afferma che “… la domanda di condanna all’adempimento in forma specifica contiene in sé la domanda di accertamento dell’inadempimento, il cui interesse permane anche nel caso in cui l’adempimento in forma specifica non sia più possibile al momento della decisione. Infatti, in omaggio al principio di economia processuale (e, in ultima analisi, del giusto processo ex art. 111 Cost.), in tal caso resta integro l’interesse ad una pronunzia di accertamento dell’inadempimento come fatto giuridicamente qualificato, idonea a passare in giudicato e, quindi, a potere essere utilizzata in un successivo giudizio risarcitorio, limitato solo ai profili dell’esistenza e dell’ammontare del danno.
Altrimenti resterebbe inesorabilmente vanificata tutta l’attività giurisdizionale sviluppatasi fino al momento in cui si è verificata la circostanza …”