La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 19081 depositata il 09 agosto 2013 intervenendo in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro ha statuito che l’art. 2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l’imprenditore e il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, art. 7, che norma l’affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda, prevedono l’obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l’ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall’impresa appaltatrice, consistenti nell’informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo dell’appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l’appaltatrice per l’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall’uso di macchinari pericolosi. Pertanto, l’omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all’adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro.
La vicenda ha riguardato la richiesta, presentata dal coniuge tutore del lavoratore, inoltrata al Tribunale di accertamento di responsabilità in solido della società datrice e del Comune in qualità di committente con condanna al risarcimento del danno biologico e morale derivato dall’infortunio sul lavoro di cui era rimasto vittima.
Il Tribunale, con sentenza non definitiva, accoglieva la domanda nei confronti dei soli due soci della L.M., che nel processo penale avevano patteggiato la pena, e nei confronti della La Fondiaria spa che li assicurava e la rigettava nei confronti del Comune. Con sentenza definitiva liquidava, poi, i danni subiti da S.M. in Euro 678.724, 37 e non provvedeva sui danni morali ed esistenziali richiesti.
La società datrice di lavoro proponeva appello avverso la decisione del Tribunale. La Corte d’Appello pronunziando sull’appello principale della società e sull’appello incidentale della tutrice del lavoratore, rinnovata l’istruttoria, in riforma delle due sentenze di primo grado rigettava tutte le domande di parte attrice. I giudici della Corte Territoriale escludevano qualsiasi rilevanza nel giudizio civile della sentenza di patteggiamento e nella ricostruzione del fatto ravvisava un ipotesi di rischio elettivo, non rientrando l’accesso al tetto poi crollato tra le mansioni affidate al lavoratore.
La parte soccombente ricorreva alla Corte Suprema per la cassazione della sentenza dei giudici di merito. Gli Ermellini rinviarono alla Corte di Appello per procedere “ad accertare nuovamente l’estensione delle mansioni assegnate al lavoratore rimasto infortunato e quindi il nesso causale fra queste e l’infortunio, congruamente motivando ed applicando altresì l’art. 2087 c.c., secondo i principi di diritto sopra enunciati, e in particolare verificando se il calpestamento di un tetto di eternit da parte di un “muratore esperto e prudente” (così definito a pag. 33 del ricorso) possa integrare un concorso nel fatto colposo”.
Le compagnie di assicurazioni versarono i massimali e chiedevano di essere l’estromissione dal giudizio. Il Comune con delibera assumeva su di sè il pagamento del fitto, vita natural durante, dell’abitazione del lavoratore.
In esito a tali sviluppi della vicenda processuale, la Corte dichiarava cessata la materia del contendere tra gli appellanti A.M., anche quale tutore del coniuge e S.S., e la società LM. s.n.c. oltre che tra la società LM. e La Fondiaria Sai che aveva messo a disposizione l’intero massimale. Mentre accertava la responsabilità del Comune nella verificazione dell’infortunio e determinava il grado di colpa nella misura del 50% in quanto il tetto era formato da eternit logoro non avendo il Comune comunicato tale circostanza.
Il Comune avverso la sentenza della Corte Territoriale propone ricorso alla Corte Suprema basandolo su quattro motivi.
I giudici di legittimità ritengono destituiti di fondamento i primi tre ed ugualmente infondato è poi l’ultimo motivo di ricorso con il quale viene denunciata l’esistenza di un rischio elettivo.
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