IRDCEC – Documento 01 maggio 2013, n. 19
Antiriciclaggio: check list per la verifica dell’adozione delle misure di legge negli studi professionali
SOMMARIO:
1. Premessa
2. Le attività preliminari di verifica connesse agli obblighi del professionista, dei dipendenti e dei collaboratori
3. L’adeguata verifica della clientela
3.1. Gli adempimenti dei professionisti collaboratori di studio
3.2. Profili sanzionatori
4. La conservazione e la registrazione dei dati
4.1. Profili sanzionatori
5. La formazione dei dipendenti e dei collaboratori
6. La segnalazione di operazioni sospette
6.1. La codificazione di procedure ai fini della segnalazione di operazioni sospette
6.2. Profili sanzionatori
7. Le limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore
7.1. Profili sanzionatori.
1. PREMESSA
La normativa antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 impone ai professionisti l’adozione di una serie di stringenti misure preventive al fine di contrastare i fenomeni del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.
Attraverso il recepimento delle direttive comunitarie, il legislatore nazionale ha realizzato una vera e propria cooptazione dei professionisti per finalità connesse alla tutela del pubblico interesse. Vi è, tuttavia, una assoluta sproporzione tra gli obblighi imposti ai professionisti e l’utilità del sistema di prevenzione che ne prevede il coinvolgimento. In tal senso l’estensione degli obblighi antiriciclaggio ai professionisti avrebbe dovuto riguardare i soli casi in cui questi ultimi compiono per conto dei propri clienti operazioni tali da consentire l’intercettazione di flussi finanziari di provenienza illecita e non la generalità delle prestazioni professionali poste in essere.
Al contrario, allo stato attuale la legge impone l’adozione di vere e proprie procedure che, ancorché assai onerose (sia in termini di impegno richiesto al professionista sia in termini di spese da sostenere all’interno degli studi), non producono in concreto alcun effetto positivo; procedure la cui adeguatezza è sottoposta al vaglio degli enti preposti ai controlli che, paradossalmente, non hanno ad oggetto l’individuazione del potenziale reato di riciclaggio commesso dal cliente, bensì le omissioni o il non corretto adempimento da parte del professionista. Sotto quest’ultimo aspetto, non può tacersi altresì del pesante sistema sanzionatorio, che punisce i professionisti sia per le omissioni “sostanziali” (quale, ad esempio, la mancata segnalazione di operazioni sospette), sia per quelle meramente procedurali (si pensi alla mancata istituzione del registro antiriciclaggio).
Ed è proprio per evitare l’applicazione di tali sanzioni, conseguente al riscontro di violazioni in merito al corretto adempimento della normativa antiriciclaggio, che i professionisti devono verificare l’adeguatezza delle procedure, adottate ai sensi del d.lgs. 231/2007, necessarie per superare le verifiche poste in essere dalla Guardia di Finanza.
A tal fine una corretta compliance alla normativa antiriciclaggio diviene fondamentale per gli studi professionali, fermo restando che i profili di criticità connessi a questa normativa dovranno continuare ad essere oggetto di costante sottolineatura in tutte le sedi opportune, nella convinzione che la fase di recepimento delle indicazioni provenienti dal legislatore comunitario debba essere attuata in modo maggiormente coerente rispetto al contesto professionale nel quale le stesse trovano poi concreta applicazione.
2. LE ATTIVITÀ PRELIMINARI DI VERIFICA CONNESSE AGLI OBBLIGHI DEL PROFESSIONISTA, DEI DIPENDENTI E DEI COLLABORATORI
Allo stato attuale, il d.lgs. 231/2007 impone ai professionisti destinatari della normativa antiriciclaggio il rispetto degli obblighi di seguito elencati:
– adeguata verifica della clientela (artt. 16 e ss.);
– registrazione e conservazione dei dati e delle informazioni (artt. 36 e ss.);
– segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio/finanziamento del terrorismo (artt. 41 e ss.);
– comunicazione al Ministero dell’economia e delle finanze delle violazioni alle disposizioni in materia di limitazioni all’uso del denaro contante e dei titoli al portatore (artt. 49 e ss.);
– formazione del personale (art. 54) (NOTA 1).
Il corretto adempimento di ciascuno di essi è subordinato al rispetto di quanto previsto dalla norma primaria di riferimento, nonché dalla regolamentazione secondaria (se esistente) e dalle indicazioni derivanti dalla prassi (in primis circolari interpretative e risposte ufficiali del MEF, pareri ufficiali del soppresso UIC), alle quali devono senz’altro aggiungersi le preziose istruzioni fornite dalla GdF nella menzionata circolare del marzo 2012.
Al riguardo, con riferimento alla natura delle verifiche antiriciclaggio all’interno degli studi professionali, varrà rilevare come la GdF identifichi due diversi momenti, quello dei controlli preliminari e quello degli accertamenti di merito.
Il primo di tali momenti è volto al riscontro dei seguenti aspetti:
– legittimazione all’esercizio dell’attività da parte del professionista (iscrizione in albi/registri);
– struttura organizzativa dello studio professionale, avendo riguardo alla eventuale esistenza di altre sedi in cui vengano svolte le attività istituzionali;
– delega interna di compiti e responsabilità ai fini della normativa antiriciclaggio.
In merito a quest’ultimo punto, i controlli preliminari mirano ad appurare che sia stato identificato il personale formalmente delegato all’assolvimento degli obblighi antiriciclaggio (adeguata verifica della clientela, registrazione e conservazione dei dati, segnalazione delle operazioni sospette) e, in tal caso, a verificare l’esistenza di particolari incarichi conferiti dal professionista ai dipendenti/collaboratori.
Non vengono tralasciati aspetti come quello relativo all’adozione, da parte del professionista, di misure di formazione dei dipendenti/collaboratori delegati, ovvero alla istituzione di eventuali sistemi di controllo interni per la verifica del corretto adempimento degli obblighi antiriciclaggio.
Sotto l’aspetto eminentemente operativo, sembra corretto chiedersi quale sia l’utilità pratica della verifica finalizzata al riscontro della effettiva iscrizione in albi/registri del soggetto sottoposto all’accertamento, posto che tra i “professionisti” destinatari della normativa, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 231/2007, figura alla lettera b) “ogni altro soggetto che rende i servizi forniti da periti, consulenti e altri soggetti che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi”.
Prima di soffermare l’attenzione su ciascuno degli obblighi imposti dalla normativa di riferimento, deve premettersi che la complessità delle misure previste per l’adeguamento è crescente all’aumentare della complessità e della dimensione degli studi professionali, di modo che, nel caso del professionista individuale, difficilmente il corretto adempimento impone l’adozione di una vera e propria “procedura”, al contrario di quanto accade nel caso di uno studio associato di grandi dimensioni, dove invece quest’ultima può rendersi necessaria al fine di standardizzare – evidentemente nei limiti del possibile – l’esecuzione degli obblighi antiriciclaggio. Ciò in ossequio a quanto disposto dall’art. 3 del d.lgs. 231/2007 che, nel definire i principi generali, dispone al quarto comma: “L’applicazione delle misure previste dal presente decreto deve essere proporzionata alla peculiarità delle varie professioni e alle dimensioni dei destinatari della presente normativa”. Ne discende l’impossibilità di agganciare a criteri oggettivi univoci la valutazione degli enti preposti ai controlli in merito all’adozione delle misure antiriciclaggio da parte dei professionisti a ciò tenuti; al contrario, detta valutazione dovrà di volta in volta tenere conto delle differenti caratteristiche di ciascuna professione, nonché dei parametri dimensionali dei soggetti tenuti all’adempimento.
Da quanto brevemente esposto emerge come la disciplina sull’antiriciclaggio imponga una serie di adempimenti formali riguardanti l’organizzazione dello studio. Il professionista, infatti, dovrà innanzi tutto stabilire se la prestazione richiesta dal cliente rientra o meno fra quelle soggette al monitoraggio e, in caso affermativo, ottemperare agli obblighi di legge definendo idonee procedure interne.
3. L’ADEGUATA VERIFICA DELLA CLIENTELA
Con la previsione degli obblighi di adeguata verifica della clientela (artt. 16 e ss. d.lgs. 231/2007), il tipo di approfondimento richiesto ai professionisti va ben oltre il mero accertamento dell’identità del soggetto che richiede la prestazione, essendo piuttosto finalizzato ad una approfondita conoscenza e al continuo monitoraggio del relativo rapporto. L’obbligo di collaborazione attiva gravante sul professionista si amplia fino al punto di richiedere a quest’ultimo lo svolgimento di una costante attività di valutazione del rischio associato a ciascun tipo di cliente (c.d. approccio basato sul rischio). La nuova disciplina, infatti, richiede al professionista di effettuare una valutazione del rischio fin dal momento in cui riceve l’incarico e impone addirittura un obbligo di astensione dal compimento della prestazione nel caso in cui i risultati di detta valutazione sconsiglino in assoluto l’instaurarsi del rapporto professionale.
Ai fini del riscontro inerente al corretto adempimento dell’obbligo di adeguata verifica della clientela (ordinaria, semplificata o rafforzata), le istruzioni contenute nel citato allegato alla circolare della GdF n. 83607/2012 prevedono che l’unità operativa preposta al controllo debba selezionare un campione di operazioni e/o prestazioni professionali potenzialmente soggette all’assolvimento dello stesso. A tal fine si rende necessaria l’acquisizione di un elenco anagrafico dei clienti, delle operazioni e delle prestazioni professionali distinte per rilevanza di importi e, per gli studi di piccole dimensioni, dei fascicoli della clientela. Il campione è individuato con riferimento a quegli indicatori che l’art. 20 del d.lgs. 231/2007 individua ai fini di una corretta valutazione del rischio legato a ciascuna operazione e a ciascun cliente. In quest’ottica rientreranno nel campione oggetto di analisi le prestazioni professionali riconducibili a nominativi di clienti:
– maggiormente ricorrenti nell’attività propria del professionista ispezionato;
– non residenti o non operanti nella zona di competenza del professionista;
– che hanno richiesto l’esecuzione di operazioni o di prestazioni professionali di importo significativo;
– che ricorrono frequentemente all’uso del contante, a libretti di deposito al portatore, a valuta estera e all’oro;
– che eseguono conferimenti o apporti di capitale in società per importi palesemente sproporzionati rispetto a quelli di mercato;
– nei confronti dei quali siano state rese prestazioni professionali aventi ad oggetto finanza strutturata a rilevanza transnazionale, avendo particolare riguardo alle operazioni con Paesi a fiscalità privilegiata o non rientranti tra i Paesi terzi equivalenti ai fini antiriciclaggio;
– che presentano precedenti penali, fiscali o di polizia, in particolare per reati a scopo di profitto;
– che presentano profili di incongruenza tra le operazioni poste in essere e la propria capacità reddituale e patrimoniale;
– catalogati quali P.E.P. (persone politicamente esposte) ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. o), del d.lgs. 231/2007;
– nei confronti dei quali sono state rese prestazioni professionali attinenti alla consulenza, organizzazione o gestione di società fiduciarie, trust o strutture analoghe.
Con riferimento ai riscontri documentali, più di una perplessità desta la previsione della possibile acquisizione, oltre che della documentazione conservata dal professionista ispezionato ai fini antiriciclaggio, anche di “quella detenuta ad altro titolo dal medesimo ma comunque ritenuta rilevante ai fini di una compiuta ricostruzione dell’effettiva operatività della clientela e del relativo profilo di rischio”.
Non solo. Al fine di operare ulteriori incroci e riscontri, la GdF potrà esaminare gli strumenti informatici in uso presso lo studio e in particolare le e-mail e gli altri documenti acquisiti in sede di accesso. Questa parte del documento desta non poca preoccupazione, soprattutto se si ricollega alla previsione di cui all’art. 36, comma 6, del d.lgs. 231/2007, che consente l’utilizzabilità a fini fiscali, secondo le disposizioni vigenti, dei dati registrati in ossequio alle norme antiriciclaggio.
Sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite la GdF verificherà se – rispetto al campione selezionato – si è provveduto ad effettuare l’adeguata verifica della clientela e, in caso affermativo, se sono state correttamente applicate le modalità ordinarie, semplificate o rafforzate previste dalla legge.
Pertanto, in caso di adeguata verifica ordinaria, il professionista dovrà accertarsi di aver predisposto le relative misure secondo le modalità imposte dall’art. 19 del d.lgs. 231/2007. Con riferimento alla tempistica, la GdF non manca di sottolineare come il cliente ed il titolare effettivo debbano essere identificati prima del conferimento dell’incarico professionale o dell’esecuzione dell’operazione, mentre per la clientela già acquisita l’adeguata verifica si applica al primo contatto utile, fatta salva la valutazione del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo che va operata in ogni momento, comportando in caso di rischio elevato la “immediata attualizzazione della verifica ordinaria del cliente” (NOTA 2). Sul punto, di evidente rilievo ai fini del corretto adempimento pare quanto specificato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (NOTA 3) in merito alla necessità, per i soggetti obbligati, di stabilire tempi e modalità di acquisizione di dati aggiornati della clientela sulla base di un’autonoma valutazione del rischio, che dovrà comunque aver luogo nei casi di revisione del rapporto continuativo/prestazione professionale (ad es. scadenza della documentazione identificativa precedentemente esibita dal cliente, rinnovo del fido, rinegoziazione delle condizioni contrattuali, modifica del profilo del rischio del cliente per la prestazione di servizi di investimento, rilascio/rinnovo di strumenti di pagamento) in occasione del primo contatto utile con i clienti. Il MEF ha precisato altresì che l’acquisizione di dati aggiornati rilevanti ai fini degli obblighi di adeguata verifica deve comunque avvenire in tutti i casi in cui vi è sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, ovvero se vi sono dubbi sulla veridicità dei dati precedentemente acquisiti (NOTA 4).
Con specifico riferimento al titolare effettivo, la sua identificazione deve avvenire contestualmente a quella del cliente e, in caso di persone giuridiche, trust e soggetti giuridici analoghi (fiduciarie), il professionista deve adottare misure adeguate e commisurate alla situazione di rischio per comprendere la struttura di proprietà e di controllo del cliente. Ai fini dell’individuazione del titolare effettivo il professionista dovrà ricorrere ai pubblici registri, agli elenchi o ai documenti conoscibili da chiunque, nonché alle informazioni fornite dal cliente ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. 231/2007; correttamente la GdF non fa cenno all’ultima parte dell’art. 19, comma 1, lett. b), ove si fa riferimento ad una generica necessità di “ottenere in altro modo” le informazioni relative al titolare effettivo, senza però delimitare il perimetro delle attività che il professionista in concreto dovrebbe svolgere. In altre parole, non essendo enumerate dalla legge le altre attività che quest’ultimo potrebbe porre in essere per reperire informazioni sul titolare effettivo, da un lato non è possibile trarre alcuna conclusione in merito al limite posto a questa particolare “attività investigativa”; dall’altro, restano incerti i confini di una eventuale responsabilità di tipo omissivo (NOTA 5).
L’identificazione del titolare effettivo deve avvenire mediante un documento d’identità non scaduto al momento in cui l’obbligo è stato assolto; se il cliente é una società o un ente, ai fini del controllo rileva altresì la circostanza che il professionista abbia verificato anche l’effettiva esistenza del potere di rappresentanza, nonché l’identità dei rappresentanti delegati alla firma per l’operazione da svolgere.
Costituisce parte integrante della adeguata verifica assolta in modalità ordinaria anche l’acquisizione delle informazioni sullo scopo e la natura dell’operazione o della prestazione professionale: normalmente dette informazioni dovrebbero essere raccolte sotto forma di dichiarazione rilasciata dal cliente ex art. 21 del d.lgs. 231/2007 e conservate all’interno del fascicolo del cliente. Analogamente, quest’ultimo deve contenere anche la documentazione comprovante lo svolgimento del controllo costante nel corso della prestazione professionale, mediante l’aggiornamento dei documenti e delle informazioni detenute, nonché delle eventuali considerazioni formulate dal professionista.
Oggetto di verifica potrebbe essere altresì il rispetto dell’obbligo di astensione dalla prestazione richiesta dal cliente, in ottemperanza a quanto disposto dall’art. 23 del decreto, ove in sede di controllo emerga che il professionista ispezionato non fosse in grado di adempiere correttamente ai descritti obblighi di adeguata verifica. Al riguardo, varrà ricordare che, qualora non sia in grado di rispettare gli obblighi di adeguata verifica, il professionista ha l’obbligo di astenersi dall’instaurare un rapporto continuativo o dall’eseguire operazioni o prestazioni professionali, ovvero di porre fine al medesimo rapporto o alla prestazione già in essere, valutando nel contempo di inviare una segnalazione di operazione sospetta all’Unità di Informazione Finanziaria. Tale principio è derogabile solo in due casi:
– quando l’astensione è da ostacolo alle indagini, ovvero sussiste un obbligo di legge di ricevere l’atto, oppure l’esecuzione dell’operazione per sua natura non può essere rinviata (in tal caso il professionista deve comunque informare l’UIF, immediatamente dopo aver eseguito l’operazione);
– quando il professionista/revisore legale è impegnato nell’esame della posizione giuridica del cliente o nell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza dello stesso cliente in un procedimento giudiziario o in relazione a tale procedimento.
Una particolare ipotesi di astensione è quella disciplinata dai commi 7-bis, ter e quater dell’art. 28 del d.lgs. 231/2007 (NOTA 6). In specie, viene imposto ai destinatari della normativa antiriciclaggio (ad esclusione degli uffici della pubblica amministrazione e di tutte le tipologie di soggetti che esercitano attività da gioco) di astenersi dall’instaurare un rapporto continuativo, di eseguire operazioni o prestazioni professionali ovvero di porre fine alle stesse, quando – sia direttamente o indirettamente – intervengono società fiduciarie, trust, società anonime o controllate attraverso azioni al portatore aventi sede nei Paesi elencati in una black list, da emanarsi a cura del Ministro dell’Economia e delle Finanze in ragione del rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo ovvero della mancanza di un adeguato scambio di informazioni anche in materia fiscale.
Con riferimento all’adozione, da parte del professionista, delle modalità semplificate di adeguata verifica della clientela, oggetto di attenzione è la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi che legittimano il ricorso alle stesse ex art. 25 del d.lgs. 231/2007 (NOTA 7). In particolare, sulla scorta di riscontri documentali e di escussioni in atti, l’accertatore verificherà se il professionista ha raccolto informazioni sufficienti per stabilire che il cliente potesse beneficiare della semplificazione, come disposto dal quarto comma dell’art. 25. A tal fine, è necessario che il professionista provveda in ogni caso ad espletare gli adempimenti inerenti alla identificazione del soggetto che conferisce l’incarico e alla verifica dell’esistenza, in capo a quest’ultimo, dei poteri di rappresentanza dell’ente per conto del quale opera. A conferma di ciò, nell’art. 25, comma 5, si afferma che non è possibile applicare gli obblighi semplificati quando si abbia motivo di ritenere che l’identificazione effettuata non sia attendibile o non consenta di acquisire le informazioni necessarie. La semplificazione, dunque, opera solo con riferimento alle altre attività in cui consta l’adeguata verifica, che non dovranno, quindi, essere espletate:
– identificazione dell’eventuale titolare effettivo e verifica della sua identità;
– richiesta di informazioni sullo scopo e sulla natura prevista della prestazione professionale;
– controllo costante nel corso della prestazione professionale.
In caso di adeguata verifica rafforzata, il professionista dovrà aver cura di porre in essere gli ulteriori adempimenti richiesti dall’art. 28 del d.lgs. 231/2007. Pertanto, in caso di identificazione effettuata senza la presenza fisica del cliente, il professionista dovrà accertare l’identità di quest’ultimo tramite altri documenti, dati o informazioni e, comunque, adottare misure supplementari per la verifica o la certificazione dei documenti forniti. Ove il cliente appartenga alla categoria delle “persone politicamente esposte”, la cui definizione è contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. o) del decreto, il professionista dovrà adottare misure adeguate per stabilire l’origine del patrimonio e dei fondi impiegati nell’operazione, svolgendo un controllo continuo nel corso dell’intera durata della relazione professionale con il cliente (NOTA 8). Ancora, in caso di rischio più elevato di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, non essendo previsti specifici ulteriori adempimenti, il professionista dovrà comunque avere cura di predisporre misure aggiuntive rispetto a quelle in cui si sostanzia l’ordinaria adeguata verifica della clientela, documentandole opportunamente.
Infine, nell’ipotesi in cui abbia assolto gli obblighi di adeguata verifica avvalendosi di terzi, come espressamente previsto dagli artt. 29 e ss. del decreto, il professionista dovrà aver cura di conservare l’idonea attestazione fornita da uno dei soggetti previsti dall’art. 30, comma 1, dalla quale emerga la conferma dell’identità tra il soggetto che deve essere identificato e il soggetto titolare del rapporto instaurato presso l’intermediario o il professionista attestante, nonché l’esattezza delle informazioni comunicate a distanza (NOTA 9). Il rispetto delle procedure imposte per l’adeguata verifica della clientela sarà altresì oggetto di verifica, da parte dell’ente accertatore, mediante riscontri incrociati presso i c.d. “terzi” al fine di appurare, anche sotto il profilo documentale, l’osservanza degli adempimenti antiriciclaggio imposti all’intera filiera dei soggetti obbligati.
3.1. Gli adempimenti dei professionisti collaboratori dello studio.
Di non scarso rilievo è la problematica inerente agli adempimenti antiriciclaggio dei professionisti che prestano la propria attività presso uno studio su incarico dello stesso, senza essere associati. La questione è già stata affrontata in vigenza del d.lgs. n. 56/2004 dal soppresso Ufficio Italiano Cambi (UIC), che aveva evidenziato la necessità – per il professionista che non faccia parte di uno studio ed esegua, come esterno, gli incarichi professionali da questo affidati – di tenere un proprio archivio unico nel quale registrare sia i dati identificativi dello studio associato, sia quelli del cliente nei cui confronti è resa la prestazione professionale (NOTA 10). A titolo esemplificativo l’UIC specificava che, nel caso di incarico conferito da un professionista A ad altro professionista B, avente ad oggetto la clientela propria di A, il professionista B deve considerare – ai fini dell’adempimento degli obblighi di identificazione e di registrazione – quale cliente sia il professionista A che la sua clientela, pur non avendo ricevuto alcun incarico professionale da quest’ultima (NOTA 11). Aggiungeva infine l’UIC che solo nell’ipotesi in cui la prestazione professionale resa dal professionista B abbia natura esclusivamente intellettuale e non comporti un esame della posizione giuridica della clientela di A, il professionista B è tenuto ad espletare gli obblighi di identificazione e registrazione esclusivamente nei confronti del professionista A. Di segno parzialmente diverso appare la risposta fornita nell’anno successivo ancora dall’UIC (NOTA 12), questa volta a fronte della fattispecie avente ad oggetto gli obblighi antiriciclaggio del “collaboratore interno” di uno studio individuale, intendendo per tale un professionista (nel caso di specie un avvocato) neo abilitato con propria partita iva – magari ex tirocinante dello studio – a cui vengono delegate alcune pratiche di clienti, i quali tuttavia restano clienti esclusivamente del dominus.
In questo caso, osservava l’UIC, il professionista abilitato svolge la propria attività direttamente all’interno di uno studio altrui non associato e alle dirette dipendenze del titolare, eseguendo solo gli incarichi che gli vengono affidati, nei confronti di clienti che conferiscono mandato al titolare dello studio. Orbene, in tal caso l’UIC assimilava in via interpretativa la figura del professionista abilitato a quella del “collaboratore del quale il professionista si avvale per lo svolgimento della propria attività”, escludendolo conseguentemente da qualsiasi adempimento, ad eccezione dell’obbligo di rilevare e segnalare all’UIC eventuali operazioni sospette di riciclaggio.
Sulla scorta di quanto riportato, dovrebbe giungersi alla conclusione non condivisibile che gli adempimenti antiriciclaggio devono essere duplicati in tutti quei casi in cui la posizione del professionista che presta la propria attività nello studio associato sia giuridicamente autonoma, in quanto da tale autonomia il soppresso UIC ha fatto discendere la necessità di porre in essere gli obblighi antiriciclaggio a prescindere dalla circostanza che gli stessi sono già stati assolti dallo studio.
Diversamente, nell’ipotesi di studio individuale, il professionista con partita iva sarebbe assimilabile al collaboratore e quindi esonerato dall’adempimento degli obblighi antiriciclaggio, a prescindere dal fatto che abbia incontrato il cliente ed esaminato la sua posizione giuridica, ovvero abbia reso una collaborazione di natura puramente intellettuale.
Appare chiaro che la corretta soluzione del problema non può prescindere da una analisi, caso per caso, delle prestazioni realmente svolte dal professionista-collaboratore all’interno dello studio professionale, fermo restando che – quanto meno in via di principio – una inutile duplicazione degli adempimenti connessi alla adeguata verifica, nonché alla conservazione e alla registrazione dei dati, non sembra in alcun modo rafforzare l’efficacia preventiva delle procedure prescritte dalla legge.
Ad ogni modo, attesa la delicatezza della materia e la confusione delle interpretazioni fornite sul punto, peraltro in vigenza della precedente normativa antiriciclaggio, è evidente la necessità di un ulteriore chiarimento ufficiale da parte degli organi preposti alla corretta attuazione della normativa.
3.2. Profili sanzionatori
A fronte della approfondita attività di accertamento appena descritta, deve infine precisarsi che il d.lgs. 231/2007 non contempla, nel novero delle fattispecie sanzionabili, l’omissione ovvero l’incompleta o non corretta esecuzione degli obblighi di adeguata verifica della clientela di cui al Titolo II, Capo I, mentre prevede una specifica sanzione di natura penale per la violazione degli obblighi di identificazione, consistente in una multa di importo variabile da 2.600 a 13.000 euro per ciascun singolo inadempimento (art. 55, comma 1).
Dalle indicazioni fornite dalla GdF emerge poi la necessità di prestare attenzione anche ad eventuali ipotesi di responsabilità penale ex art. 55, comma 3, a carico del cliente che abbia omesso intenzionalmente di fornire informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale, ovvero che abbia fornito false informazioni, eventualmente in concorso ex art. 110 c.p. con collaboratori e/o dipendenti. In tal caso la violazione è sanzionata con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da 5.000 a 50.000 euro. Ai fini dell’accertamento delle succitate violazioni varranno, da un lato, l’acquisizione di dichiarazioni del cliente e del dipendente del professionista soggetto al controllo e, dall’altro, l’esame della eventuale documentazione contabile ed extracontabile acquisita agli atti.
Analogamente, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa da 500 a 5.000 euro l’esecutore dell’operazione che omette di indicare le generalità del soggetto per conto del quale esegue l’operazione o le indica false (art. 55, comma 2, d.lgs. 231/2007).
4. LA CONSERVAZIONE E LA REGISTRAZIONE DEI DATI
In materia di conservazione e registrazione dei dati, le indicazioni della GdF richiamano gli obblighi sanciti dagli artt. 36 e 38 del d.lgs. 231/2007, che impongono ai professionisti rispettivamente di conservare i documenti e registrare le informazioni che hanno acquisito per assolvere gli obblighi di adeguata verifica della clientela affinché possano essere utilizzati per qualsiasi indagine su eventuali operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo (NOTA 13). Ai sensi del d.lgs. 231/2007, gli obblighi di conservazione e registrazione non vanno osservati:
– in caso di applicazione degli obblighi semplificati di adeguata verifica della clientela, ai sensi dell’art. 25;
– per lo svolgimento della mera attività di redazione e/o di trasmissione delle dichiarazione derivanti da obblighi fiscali e degli adempimenti in materia di amministrazione del personale, ai sensi dell’art. 12, comma 3.
In tema di conservazione dei dati e delle informazioni, la verifica della GdF ha ad oggetto il rispetto di quanto disposto dal primo comma dell’art. 36, ragion per cui, ai fini del corretto assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica del cliente e del titolare effettivo, il professionista dovrà conservare la copia o i riferimenti dei documenti richiesti per un periodo di dieci anni dalla fine della prestazione professionale. Non solo. Per le operazioni e le prestazioni professionali, la norma citata impone la conservazione delle scritture e delle registrazioni “consistenti nei documenti originali o nelle copie aventi analoga efficacia probatoria nei procedimenti giudiziari” per un periodo di dieci anni dall’esecuzione dell’operazione o dalla data di instaurazione del rapporto professionale. Quest’ultima disposizione desta, in effetti, più di una perplessità, non delineando in modo chiaro il perimetro di operatività dell’obbligo di conservazione. Attese le pericolose conseguenze di una lettura oltremodo estensiva del disposto di legge, pare corretto ritenere che le scritture e le registrazioni alle quali fa riferimento l’art. 36 siano esclusivamente quelle inerenti al corretto espletamento della procedura di adeguata verifica.
Quanto al termine di dieci anni previsto dalla norma per la conservazione dei documenti, la ratio dello stesso risiede nella volontà del legislatore di rendere i dati utilizzabili, oltre che per indagini e/o analisi della UIF o di altre Autorità competenti, anche per lo svolgimento di indagini penali per i reati di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Se identico è il termine, diverso però è il momento a partire dal quale lo stesso decorre: per la conservazione degli elementi acquisiti ai fini dell’adeguata verifica della clientela, il relativo obbligo permane per dieci anni dalla fine della prestazione professionale; mentre, per la conservazione della documentazione riferibile alle operazioni e alle prestazioni professionali, l’obbligo persiste per dieci anni dall’esecuzione dell’operazione o dalla cessazione della prestazione professionale. Sotto il profilo strettamente operativo la norma non è immune da critiche. Così, volendo trasporre il disposto normativo sul piano dell’adempimento in concreto richiesto al professionista, ci si può chiedere ad esempio quale sia il dies a quo nell’ipotesi di prestazione professionale a carattere continuativo, che non si esaurisca nell’assistenza al compimento di una operazione isolata. Nel caso descritto, infatti, è evidente che l’individuazione del momento conclusivo a partire dal quale decorre il termine decennale previsto per la conservazione della documentazione è tutt’altro che agevole. In più, non è ben chiara la ratio stessa della distinzione effettuata dal legislatore, finendo la stessa per tradursi, in sede applicativa, in una inutile differenziazione foriera, da un lato, di notevoli aggravi gestionali per il professionista e, dall’altro, di inevitabili disguidi con le autorità di vigilanza. Non è da escludere, infatti, che queste ultime possano non condividere i parametri di valutazione utilizzati dal professionista nell’effettuare la scelta della documentazione da conservare e di quella da “cestinare”. Né sembra che il problema descritto avrebbe potuto essere affrontato in sede di regolamentazione secondaria (ove mai tale regolamento fosse stato emesso): al Ministero della Giustizia, infatti, il legislatore chiedeva di emanare disposizioni applicative dell’art. 38, che tuttavia disciplina esclusivamente le modalità di registrazione e non anche quelle di conservazione della documentazione.
La concreta attuazione del regime di conservazione presuppone l’istituzione, per ogni cliente, di appositi fascicoli nei quali conservare la documentazione (NOTA 14). L’affermazione trova riscontro nella previsione di cui al secondo comma dell’art. 38 che, con riferimento all’istituzione del registro della clientela a fini antiriciclaggio, dispone espressamente che “la documentazione nonché gli ulteriori dati sono conservati nel fascicolo relativo a ciascun cliente”. Invero, dalla collocazione della citata previsione nell’ambito della norma che introduce il registro della clientela quale alternativa all’archivio informatico potrebbe desumersi che il fascicolo sia obbligatorio esclusivamente nel caso in cui il professionista abbia optato per la tenuta del registro cartaceo della clientela. In senso opposto, tuttavia, testimonia il fatto che l’art. 36 pone in capo ai soggetti destinatari del decreto un obbligo generale di conservazione della documentazione utilizzata ai fini dell’adeguata verifica: ne discende che il fascicolo della clientela deve essere istituito anche dai professionisti che hanno optato per l’archivio informatico (NOTA 15). Del resto, l’adozione del c.d. “fascicolo cliente” è prassi già ampiamente diffusa negli studi professionali anche se in concreto, ai fini del corretto adempimento degli obblighi imposti dall’art. 36 del d.lgs. 231/2007, si ritiene preferibile la creazione di fascicoli della clientela ad hoc piuttosto che l’integrazione dei fascicoli già esistenti con la documentazione prevista dalla normativa antiriciclaggio. Il fascicolo del cliente va tenuto nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, deve essere costantemente aggiornato e presentato in caso di richiesta degli organi di controllo.
Con riferimento alla verifica avente ad oggetto l’osservanza degli obblighi di conservazione e registrazione, per lo svolgimento delle proprie attività ispettive l’unità operativa della GdF potrà utilizzare lo stesso campione selezionato per il controllo sul corretto adempimento dell’obbligo di adeguata verifica della clientela, ovvero individuare un nuovo campione di operazioni e/o incarichi professionali.
L’esame delle registrazioni sarà eseguito attraverso il registro della clientela o l’archivio informatico, ovvero effettuando dei riscontri rispetto alla documentazione acquisita preliminarmente all’intervento o nel corso dell’accesso.
Con riferimento all’avvenuta istituzione, da parte del professionista, dell’archivio informatico, l’unità operativa, mediante un controllo a campione, dovrà accertare che l’applicativo garantisca la corretta conservazione e la reperibilità dei dati registrati. Tale riscontro avverrà unitamente a quello avente ad oggetto la “corretta alimentazione” dell’archivio: a tal fine verrà effettuata una stampa analitica delle registrazioni effettuate dal professionista ispezionato nel periodo oggetto di controllo.
Nell’ipotesi di registro cartaceo, invece, la GdF dovrà accertare il rispetto dei requisiti richiesti ex lege, quali la numerazione progressiva, la sigla in ogni pagina del professionista o di un collaboratore autorizzato per iscritto e l’indicazione complessiva del numero delle pagine unitamente alla firma dei suddetti soggetti nell’ultimo foglio del registro, che dovrà essere tenuto in maniera ordinata e leggibile e senza spazi bianchi o abrasioni. La GdF evidenzia altresì che il registro non deve essere “a fogli mobili e/o ad anelli” (NOTA 16).
Nelle istruzioni della GdF è richiamato anche il quinto comma dell’art. 38 del d.lgs. 231/2007, ai sensi del quale i professionisti che svolgono la propria attività in più sedi possono istituire per ciascuna di esse un registro della clientela. In assenza di ulteriori indicazioni, deve ritenersi che la citata prescrizione sia rivolta esclusivamente ai professionisti che abbiano istituito il registro della clientela e non anche a quelli che hanno optato per l’archivio informatico: in tal senso sembra deporre, oltre al tenore letterale della disposizione, la collocazione della stessa nell’ambito di un corpus normativo avente ad oggetto esclusivamente il registro della clientela.
Ai fini del corretto adempimento degli obblighi di registrazione è opportuno poi ricordare le seguenti prescrizioni, contenute nel Provvedimento UIC del 24 febbraio 2006 e puntualmente richiamate dalla GdF:
– i professionisti e i revisori che svolgono l’attività professionale in forma associativa o societaria possono tenere l’archivio in forma accentrata nel proprio studio, anche se è fatta salva la facoltà per ogni componente l’associazione o la società di formare un proprio archivio;
– per le prestazioni professionali consistenti nella tenuta della contabilità, di paghe e contributi, nella revisione contabile e nell’esecuzione di adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza è oggetto di registrazione solo il conferimento dell’incarico e non anche i singoli movimenti contabili o le singole operazioni in cui essi si esplicano;
– ove l’incarico sia conferito congiuntamente da più clienti, gli obblighi di registrazione e conservazione dei dati devono essere assolti nei confronti di ciascuno di essi;
– qualora della prestazione professionale siano stati incaricati congiuntamente più professionisti, anche del medesimo studio, ciascuno deve procedere alla registrazione.
Quanto alle registrazioni, l’unità operativa dovrà accertare che le stesse:
– siano state effettuate tempestivamente e comunque non oltre il trentesimo giorno dall’accettazione dell’incarico, dal compimento dell’operazione, dall’eventuale conoscenza successiva di ulteriori informazioni, ovvero dal termine della prestazione professionale;
– contengano tutte le informazioni richieste dalla legge (sono richiamati l’art. 36, co. 2, del d.lgs. 231/2007 e l’art. 1 del Provvedimento UIC 24 febbraio 2006);
– siano state regolarmente effettuate, anche con riferimento alle operazioni frazionate.
Riguardo all’accertamento della tempestività delle registrazioni va evidenziato che l’art. 38, co. 1-bis, del d.lgs. 231/2007 prevede un termine che decorre dall’accettazione dell’incarico professionale, dall’eventuale conoscenza successiva di ulteriori informazioni o dal termine della prestazione professionale. Sul punto, la GdF ritiene che la disposizione conferisca al professionista – sul piano applicativo dell’adempimento – un’autonoma decisione basata su “parametri ampiamente discrezionali”.
Ecco perché, attesa l’incerta interpretazione della norma, la stessa GdF prevede l’ausilio del professionista, le cui dichiarazioni si renderanno indispensabili ai fini della acquisizione di ulteriori dati sui criteri di registrazione utilizzati. Così, continuano le Fiamme Gialle, si può ipotizzare che il professionista utilizzerà il criterio dell’accettazione allorquando ritenga di essere in possesso di tutte le informazioni, mentre sposterà in avanti l’adempimento della registrazione qualora preveda di venire a conoscenza di ulteriori dettagli in un secondo momento. Di contro, ove la prestazione non abbia una durata definibile a priori, ovvero si tratti di un’esecuzione continuativa nel tempo il cui termine è “incerto ed aperto”, la GdF ritiene ammissibile che il professionista attenda la conclusione della stessa per eseguire la registrazione.
L’interpretazione sopra esposta appare assolutamente non condivisibile. Come correttamente osservato dal CNDCEC (NOTA 17), il professionista deve provvedere entro trenta giorni dal verificarsi di una delle situazioni indicate: la registrazione deve essere tempestiva e, nella formulazione attuale, la previsione normativa precisa con chiarezza il termine e la circostanza a decorrere dalla quale hanno inizio i trenta giorni. Volendo esemplificare, nel caso di assunzione, da parte di un professionista, di un incarico professionale consistente nella tenuta della contabilità, i trenta giorni decorrono dall’accettazione dell’incarico.
L’accento è posto, successivamente, sulla necessità di accertare l’acquisizione dei dati relativi al titolare effettivo delle transazioni e degli eventuali soggetti delegati ad operare. E, proprio con riferimento al titolare effettivo, varrà rilevare come nello schema delle prestazioni da registrare la GdF inserisce i dati identificativi del cliente “e del titolare effettivo”, in tal modo discostandosi da quanto in precedenza affermato dal Ministero dell’economia e delle finanze. Sullo specifico punto il MEF aveva chiarito che, mancando le disposizioni applicative in materia di registrazione dei dati – da emanarsi ai sensi dell’art. 38, comma 7, del d.lgs. 231/2007 – continuano a trovare applicazione le disposizioni contenute nel D.M. n. 141/2006, in quanto compatibili. Ne deriva che il professionista è comunque tenuto ad identificare l’eventuale titolare effettivo e a verificarne l’identità, ma tali informazioni non devono essere registrate nell’archivio informatico, bensì semplicemente conservate nel fascicolo del cliente. Tale ultima interpretazione, che francamente sembra essere quella più coerente con lo stato dell’arte della normativa, era stata condivisa anche dal CNDCEC nelle Linee Guida per la adeguata verifica della clientela.
Di contro, deve essere accolto con favore l’esplicito riferimento delle istruzioni della GdF al secondo comma dell’art. 39, ove è previsto che i dati e le informazioni registrati in modalità cartacea debbano essere resi disponibili entro tre giorni dalla relativa richiesta. In assenza del regolamento attuativo degli obblighi di registrazione previsti dal d.lgs. 231/2007, l’operatività di tale ultima disposizione appariva, in precedenza, quanto meno revocabile in dubbio.
Da notare, infine, come la nota operativa della GdF richiami integralmente il noto elenco delle prestazioni professionali soggette a registrazione contenuto nel provvedimento dell’UIC 24 febbraio 2006 (Allegato A). Anche in tal caso deve ritenersi che il rimando dipenda dalla mancata emanazione del regolamento attuativo degli obblighi di registrazione; non può sottacersi, tuttavia, che in relazione ad alcune delle numerosissime prestazioni ivi elencate la ratio dell’obbligo permane quanto meno oscura, stante l’assenza assoluta di qualsiasi nesso causale con possibili operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.
4.1. Profili sanzionatori
All’ipotesi di inadempimento, ovvero di non corretto adempimento, degli obblighi di registrazione sono connesse pesanti sanzioni penali ex art. 55, comma 4 e amministrative ex art. 57, comma 3 del d.lgs. 231/2007. In dettaglio, nell’ipotesi di omessa, tardiva o incompleta registrazione delle informazioni relative al cliente e delle operazioni effettuate è prevista una multa di importo variabile da 2.600 a 13.000 euro per ciascuna violazione (art. 55, comma 4); mentre, nel caso di omessa istituzione dell’archivio informatico o del registro della clientela, al professionista è applicabile una sanzione pecuniaria di importo variabile da 5.000 a 50.000 euro (art. 57, comma 3). Il quadro sanzionatorio è completato dalla previsione del sesto comma dell’art. 55, ai sensi del quale, qualora gli obblighi di identificazione e registrazione siano assolti avvalendosi di mezzi fraudolenti, idonei ad ostacolare l’individuazione del soggetto che ha effettuato l’operazione, la sanzione di cui al citato comma 4 é raddoppiata.
Vale la pena di evidenziare, infine, che allo stato attuale nessuna sanzione specifica è prevista in caso di inottemperanza degli obblighi di conservazione.
5. LA FORMAZIONE DEI DIPENDENTI E DEI COLLABORATORI
Un ulteriore riscontro è quello relativo al rispetto degli obblighi di formazione del personale previsti dall’art. 54 del d.lgs. 231/2007. A tal fine l’unità operativa dovrà verificare se il professionista adotta misure di formazione del personale e dei collaboratori e, in particolare, se tali misure hanno carattere di continuità e sistematicità, ovvero se sono stati previsti programmi o moduli formativi attraverso brochure e altri documenti in linea con l’evoluzione normativa.
Sul punto, varrà ricordare che l’art. 54 impone ai destinatari degli obblighi posti dal decreto e agli ordini professionali di adottare misure di “adeguata formazione” del personale e dei collaboratori al fine di garantire la corretta applicazione della normativa, secondo modalità attuative che – ai sensi di legge – avrebbero dovuto essere individuate dagli ordini professionali. Dette misure devono comprendere programmi di formazione finalizzati alla riconoscibilità delle attività potenzialmente connesse al riciclaggio o al finanziamento del terrorismo. La norma impone inoltre alle autorità competenti (in particolare UIF, Guardia di finanza e DIA) l’obbligo di fornire indicazioni aggiornate in merito alle prassi seguite dai riciclatori e dai finanziatori del terrorismo.
La disposizione descritta trova il proprio fondamento nell’art. 35 della direttiva 2005/60/Ce, ove è espressamente prevista a carico degli Stati membri l’imposizione, nei confronti dei soggetti destinatari della normativa, dell’obbligo di adozione di specifici programmi di formazione al fine di aiutare il personale addetto a riconoscere le attività connesse al riciclaggio o al finanziamento del terrorismo, nonché ad istruirlo sul modo di procedere in tali casi. Invero la norma di recepimento non fornisce indicazioni di particolare utilità sotto il profilo operativo; in assenza delle disposizioni attuative pur previste dal primo comma dell’art. 54, possono ancora risultare di ausilio le indicazioni previste, in vigenza della precedente normativa antiriciclaggio, nel Provvedimento UIC del 24 febbraio 2006.
Deve essere ricordato, infine, che alla violazione degli obblighi di formazione non è connessa alcuna sanzione amministrativa pecuniaria analoga a quella di cui all’art. 56, comma 1, del d.lgs. 231/2007, applicabile solo per alcuni operatori finanziari.
6. LA SEGNALAZIONE DI OPERAZIONI SOSPETTE
La GdF ribadisce che la segnalazione di operazioni sospette rappresenta la misura più incisiva nell’ambito della strategia di contrasto al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo, in quanto è diretta a far emergere operazioni per il cui compimento vengono utilizzati denaro o valori di dubbia provenienza da reinvestire nel circuito economico legale ovvero fondi, anche di origine lecita, destinati a sostenere organizzazioni terroristiche, o ad agevolare atti terroristici (NOTA 18.)
Le linee cogenti per procedere alla segnalazione di operazioni sospette sono contenute nell’art. 41 del d.lgs. 231/2007. In ragione delle funzioni esercitate, il professionista potrebbe venire a conoscenza di elementi di sospetto in merito a presunte operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, sulla scorta delle indicazioni fornite nel primo comma dell’art. 41. In dettaglio, da quest’ultimo emerge che “sospetta” è qualsiasi attività, compiuta o tentata dal cliente, che appare diretta sulla base della comune esperienza a riciclare denaro o altri beni frutto di attività criminose, oppure a finanziare fenomeni di terrorismo. È tenuto a segnalare ex art. 41 il professionista che abbia maturato il semplice sospetto, che abbia ragionevoli motivi per sospettare, ovvero che sia a conoscenza, anche se solo presunta poiché ancora non dimostrata sotto il profilo giuridico: in altre parole la segnalazione prescinde dall’individuazione di una fattispecie criminosa. La GdF evidenzia, infatti, che la segnalazione non è strettamente legata alla nozione penale di riciclaggio/reimpiego di denaro o di beni ai sensi degli artt. 648-bis e 648-ter c.p., bensì a tutti i casi previsti ai fini amministrativi dall’art. 2 del d.lgs. 231/2007, rimarcando altresì come quest’ultima norma abbia decretato la fine delle difficoltà applicative che in passato avevano generato incertezze ed eccessi di prudenza da parte dei soggetti obbligati, ogni qualvolta l’esame delle informazioni acquisite non consentiva chiaramente di associare al sospetto dell’origine delittuosa dei capitali trasferiti anche la complicità del cliente interessato dalla commissione o dalla partecipazione al reato presupposto. Ne discende la necessità di segnalare le operazioni sospette anche nell’ipotesi del c.d. “autoriciclaggio”, vale a dire nel caso in cui il cliente dovesse essere egli stesso sospettato di aver commesso il reato presupposto. Al riguardo, nell’ambito delle fattispecie da segnalare la GdF include anche il reato tributario “in grado di generare profitti”, così come previsto dal d.lgs. 74/2000, richiamando, al fine di consolidare tale interpretazione:
– la nota UIC del 21 giugno 2006, ove è chiarito, in sintesi, che sia l’art. 2 che gli artt. 3 e 4 del d.lgs. 74/2000 possono rientrare fra le casistiche oggetto di segnalazione di operazione sospetta;
– lo schema di comportamento anomalo UIF in tema di frodi all’IVA intracomunitaria del 15 febbraio 2010, che ha posto in risalto la pericolosità di condotte penalmente rilevanti a fini tributari finalizzate a sottrarre risorse finanziarie all’Erario “con l’arricchimento illecito di sodalizi criminali ed eventuali condotte di riciclaggio finalizzate a ripulire gli stessi proventi illeciti accumulati”.
Ai fini della segnalazione di operazioni sospette la GdF elenca le seguenti fattispecie delittuose previste dal d.lgs. 74/2000, ribadendo che le stesse rilevano “anche se l’attività di ripulitura è effettuata dalla stessa persona che ha commesso il reato a monte”:
– dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2);
– dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3);
– dichiarazione infedele (art. 4);
– omessa dichiarazione (art. 5);
– emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8);
– omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis);
– omesso versamento di IVA (art. 10-ter) (NOTA 19).
Al riguardo, corre l’obbligo di evidenziare come non abbia mai trovato accoglimento la tesi restrittiva, secondo la quale il concetto di “provenienza” del denaro dovrebbe essere inteso in senso riduttivo, vale a dire limitatamente al denaro che effettivamente ha fatto ingresso nelle casse dell’impresa e non, al contrario, esteso anche al mero risparmio d’imposta (NOTA 20).
Tornando alla nozione di “sospetto”, questo può essere desunto da indizi di natura sia oggettiva (caratteristiche, entità, natura dell’operazione), sia soggettiva (capacità economica e attività svolta dal cliente). Così, a titolo esemplificativo, costituiscono elementi di carattere oggettivo fattispecie quali l’utilizzo di rilevanti somme in contanti o mezzi di pagamento non appropriati rispetto all’operazione posta in essere, l’acquisto o la vendita di beni a condizioni o valori palesemente diversi da quelli di mercato, il ricorso ingiustificato a tecniche di frazionamento delle operazioni, l’ingiustificata interposizione di soggetti terzi, l’impiego di strumenti societari, associativi o fiduciari suscettibili di limitare la trasparenza della proprietà della gestione. Di contro, rilevano sotto il profilo soggettivo le caratteristiche del cliente, soprattutto quando si tratta di soggetti dei quali è noto il coinvolgimento in attività illecite ovvero insediati in regimi fiscali o antiriciclaggio privilegiati, come ad esempio quelli indicati dal Gafi come non cooperativi, o ancora i comportamenti tenuti dallo stesso (reticenza, false dichiarazioni o assenza di giustificazioni plausibili).
Il legislatore si preoccupa di evidenziare che le suddette circostanze devono essere conosciute “in ragione delle funzioni esercitate” e “in base agli elementi a disposizione”, con ciò delimitando chiaramente l’attività di tipo valutativo posta in essere dal segnalante, che dovrà fondarsi esclusivamente sulle informazioni acquisite in ragione dell’attività prestata e non implica lo svolgimento di alcuna funzione di tipo investigativo, riservata ex lege alle autorità di vigilanza e giurisdizionali.
Dunque deve ritenersi che il professionista non sia tenuto a svolgere alcuna indagine di approfondimento, giacché il sospetto può desumersi esclusivamente dagli incarichi affidati, dalle richieste effettuate e dalle intenzioni manifestate dal proprio cliente eventualmente in correlazione a informazioni già note o pubbliche.
Generalmente nella valutazione del sospetto assume particolare rilievo il profilo di rischio associato al tipo di cliente e di operazione in sede di adempimento dell’obbligo di adeguata verifica della clientela; nel caso di specie, il professionista è espressamente tenuto all’assolvimento di tale obbligo, il che presumibilmente dovrebbe agevolare la suddetta valutazione. Parimenti, il professionista deve effettuare una analisi dell’insieme dei rapporti intrattenuti col cliente verificandone l’ammontare complessivo, la frequenza, nonché la loro evoluzione e le eventuali incongruità, valutazioni queste tipicamente richieste al destinatario della normativa antiriciclaggio.
Non può omettersi di ricordare che, per effetto dell’ultimo periodo del primo comma dell’art. 41, ai fini della valutazione complessiva dell’operazione è un elemento di sospetto il ricorso frequente o ingiustificato a operazioni in contante, anche se non in violazione dei limiti di cui all’articolo 49, e, in particolare, il prelievo o il versamento in contante con intermediari finanziari di importo pari o superiore a 15.000 euro (NOTA 21).
Il secondo comma dell’art. 41 definisce, seppure indirettamente, gli indicatori di anomalia quali strumenti previsti dalla legge al dichiarato fine di agevolare l’individuazione delle operazioni sospette.
Per quanto riguarda i professionisti, gli indicatori di anomalia sono stati emanati con decreto del Ministero di Giustizia (su proposta della UIF e sentito il Comitato di sicurezza finanziaria, nonché gli ordini professionali) del 16 aprile 2010 (NOTA 22). Detti indicatori servono a ridurre i margini di incertezza connessi con valutazioni soggettive e hanno dichiaratamente lo scopo di contribuire al corretto e omogeneo adempimento degli obblighi di segnalazione di operazioni sospette. Nel sottolineare che gli indicatori ministeriali sono frutto di studi ed analisi delle tecniche di riciclaggio adottate a livello interno ed internazionale e sono volti a ridurre i margini di incertezza connessi con valutazioni soggettive o con comportamenti discrezionali degli operatori, la GdF precisa peraltro che gli stessi non rappresentano un riferimento esaustivo per effettuare le segnalazioni di operazioni sospette, anche in considerazione della continua evoluzione delle modalità di svolgimento delle operazioni finanziarie.
Pertanto, la mera ricorrenza di comportamenti descritti in uno o più indicatori di anomalia non è motivo di per sé sufficiente per la segnalazione di operazione sospetta, così come l’assenza di indicatori può non essere sufficiente ad escludere a priori l’invio della segnalazione alla UIF. Se ne desume che i professionisti sono chiamati a valutare con la massima attenzione ulteriori comportamenti del cliente che, sebbene non descritti nel citato decreto ministeriale, configurano in concreto profili di sospetto. È altrettanto evidente che una eventuale azione accertatrice potrà fondarsi proprio sulle procedure di valutazione relative al formarsi del sospetto.
6.1. La codificazione delle procedure ai fini della segnalazione di operazioni sospette
Per una più efficace rilevazione e valutazione delle operazioni, può essere opportuno che i professionisti – in particolare se operanti nell’ambito di strutture associate o societarie – si avvalgano di procedure interne che prevedano una regolamentazione dell’iter valutativo seguito. La codifica delle procedure valutative, pur se non prevista dal d.lgs. 231/2007, viene “consigliata” dal Ministro della Giustizia nell’allegato 2 al citato decreto del 16 aprile 2010. Tali procedure, infatti, possono garantire omogeneità di comportamenti, assicurare la pronta ricostruibilità a posteriori delle motivazioni delle decisioni assunte in caso di richieste da parte delle autorità competenti, consentire la ripartizione delle rispettive responsabilità. Le misure eventualmente adottate sono da modulare tenendo conto delle specificità della professione svolta e delle dimensioni organizzative e operative dello studio. Le procedure previste devono tendere a favorire la diffusione e la conoscenza dei presupposti e della procedura di segnalazione delle operazioni sospette tra i propri dipendenti e collaboratori.
In fase di verifica del corretto adempimento dell’obbligo di segnalazione, l’attenzione della GdF è posta proprio sulle procedure interne e sull’iter valutativo seguito dal professionista.
In dettaglio, dalle indicazioni operative emerge una serie di attività propedeutiche da svolgere nella fase di accesso negli studi, tra le quali rileva, oltre all’individuazione del responsabile della segnalazione e dell’eventuale attività di formazione posta in essere per diffondere la conoscenza della materia tra i dipendenti e i collaboratori, anche l’acquisizione di informazioni in merito alle eventuali “procedure interne di regolamentazione” aventi ad oggetto l’iter valutativo delle segnalazioni.
Una volta conosciuto il procedimento interno, la check list dei controlli prevede l’acquisizione della documentazione disponibile presso lo studio professionale. A tal fine, la GdF potrà avvalersi del campione già oggetto di selezione in materia di adeguata verifica o di registrazione dei dati, ovvero individuare un nuovo campione di operazioni o prestazioni professionali ritenute maggiormente significative in relazione, ad esempio, all’importo o alla localizzazione territoriale (si pensi ai Paesi con regime antiriciclaggio non equivalente o comunque noti come centri off shore, ovvero ai Paesi a fiscalità privilegiata); alla causale che le contraddistingue (gestione di strumenti finanziari, operazioni di finanza straordinaria, operazioni di vendita di beni mobili ed immobili); alle attività comunque collegate, anche indirettamente, a trust, società fiduciarie o ad enti no-profit; alla loro riferibilità ai nominativi con movimentazioni finanziarie di importo unitario più elevato, ovvero maggiormente ricorrenti.
Con riferimento alla verifica delle omissioni di segnalazione di operazioni sospette, la GdF distingue due ipotesi:
– omessa segnalazione al professionista-titolare da parte dei dipendenti o degli altri soggetti eventualmente incaricati della procedura;
– omessa segnalazione alla UIF, direttamente o tramite l’Ordine di appartenenza, da parte del professionista.
È evidente che in caso di assenza di procedure codificate rileverà solo quest’ultima ipotesi (invio della segnalazione direttamente da parte del professionista); ad ogni modo, in entrambi i casi l’inadempimento è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria, variabile dall’1 al 40% dell’importo dell’operazione non segnalata (infra par. 6.2.).
L’attività della GdF assume contorni differenti a seconda che la stessa abbia ad oggetto il riscontro di eventuali omissioni dei dipendenti/collaboratori incaricati della procedura, ovvero del professionista.
Nel primo caso, al fine di accertare eventuali responsabilità di “primo livello”, i controlli sono mirati a verificare se le anomalie riscontrate dal dipendente/collaboratore sono fondate, se i flussi informativi tra chi ha proposto la segnalazione di dette anomalie alla UIF e chi invece ha deciso di non effettuarla sono corretti e, infine, se l’istruttoria interna svolta dal professionista, quale responsabile di secondo livello, è adeguata e completa. In particolare, l’attività investigativa è finalizzata alla ricostruzione, con l’ausilio del professionista, dell’iter logico sottostante alla decisione di inoltrare una segnalazione o di archiviarla: a tal fine rileva l’esame, da un lato, del profilo oggettivo dell’operazione/prestazione professionale (caratteristiche, entità, natura) e, dall’altro, del profilo soggettivo del cliente (attività professionale, capacità economica, modus operandi). Oggetto di esame sono altresì le motivazioni sottostanti alla decisione di archiviazione di un’operazione, eventualmente formalizzate dal dipendente/ collaboratore, nonché la corretta applicazione degli indicatori di anomalia rispetto al caso esaminato.
L’accertamento di eventuali responsabilità di “secondo livello” mira invece ad appurare l’esistenza di profili di omissione colpevole in capo al professionista che non ha segnalato l’operazione sospetta, attraverso un giudizio avente ad oggetto anche in questo caso la fondatezza degli elementi di anomalia dell’operazione già individuati dal dipendente/collaboratore, la corretta circolazione delle informazioni tra chi ha proposto di segnalare l’operazione come sospetta e chi ha deciso di non trasmetterla alla UIF, nonché l’adeguatezza e la completezza dell’istruttoria interna svolta dal professionista. Nelle indicazioni fornite dalla GdF si sottolinea la necessità di verbalizzare l’esistenza delle eventuali motivazioni, opportunamente formalizzate e documentate, sottostanti alla decisione di non segnalare l’operazione anomala alla UIF.
In ogni caso, l’accertatore dovrà redigere verbale per motivare adeguatamente l’eventuale contestazione dell’omessa segnalazione, evidenziando la condotta in contrasto con il precetto violato, illustrando in modo analitico l’iter logico seguito dal professionista ispezionato, acquisendo in atti le dichiarazioni dei soggetti coinvolti e allegando tutta la documentazione ritenuta utile ai fini della successiva attività istruttoria da svolgersi a cura del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ove non sia possibile individuare con esattezza il soggetto responsabile dell’omissione, quest’ultima sarà imputata direttamente al legale rappresentante della struttura, per quanto disposto dall’art. 59 del d.lgs. 231/2007 (Responsabilità solidale degli enti).
In caso di segnalazioni tardive, cioè inviate dal professionista in un momento successivo a quello in cui il sospetto era maturato, le istruzioni della GdF suggeriscono di ponderare bene la relativa valutazione, peraltro limitata a casi specifici, come quello della segnalazione effettuata “a posteriori” dal professionista che solo attraverso la stampa sia venuto a conoscenza di un procedimento penale a carico del cliente. Compito dell’unità di controllo, in tal caso, è quello di verificare se il profilo soggettivo del cliente emergente dal relativo fascicolo non consentisse al professionista, già prima della diffusione della notizia, di acquisire elementi tali da indurlo ad effettuare la segnalazione alla UIF.
Quanto sopra sommariamente descritto non può che rafforzare la convinzione in merito all’opportunità dell’istituzione di procedure codificate per iscritto relative all’iter valutativo perseguito, pur se conformate alle dimensioni e al livello di struttura dello studio professionale.
6.2. Profili sanzionatori
L’omessa segnalazione di operazioni sospette è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria il cui ammontare oscilla fra un minimo dell’1 per cento e un massimo del 40 per cento dell’importo dell’operazione non segnalata (art. 57, comma 4, d.lgs. 231/2007). In altre parole, la sanzione pecuniaria comminata è pari ad una percentuale – fissata dalla legge mediante l’indicazione di un minimo e un massimo – del valore dell’operazione sospetta. Questo tipo di sanzione mira ad assicurare una maggiore proporzionalità rispetto alla concreta pericolosità della condotta del trasgressore. In relazione ai casi più gravi di violazione dell’obbligo di segnalazione dell’operazione sospetta, tenuto conto della gravità della violazione desunta dalle circostanze della stessa e dall’importo dell’operazione sospetta non segnalata, è prevista inoltre l’applicazione della sanzione “accessoria” della pubblicazione del decreto sanzionatorio. Più in dettaglio, la sanzione prevede la pubblicazione per estratto – a cura e spese del trasgressore – del decreto sanzionatorio su almeno due quotidiani a diffusione nazionale di cui uno economico (art. 57, comma 4). È evidente che l’efficacia punitiva di questa sanzione è correlata soprattutto a meccanismi di tipo reputazionale.
7. LE LIMITAZIONI ALL’USO DEL CONTANTE E DEI TITOLI AL PORTATORE
Di grande rilievo sotto il profilo operativo sono infine le disposizioni di cui agli artt. 49 e ss. del d.lgs. 231/2007, riferite alle limitazioni all’utilizzo del denaro contante e dei titoli al portatore, il cui fine è quello di tracciare presso gli intermediari creditizi la maggior parte dei flussi finanziari, consentendo una più agevole individuazione dell’origine, dei passaggi intermedi e della destinazione del denaro contante e dei titoli al portatore.
Il primo comma dell’art. 49 stabilisce il divieto di trasferimento, effettuato a qualsiasi titolo fra soggetti diversi, di denaro contante, di libretti al portatore o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o in valuta estera, quando il valore oggetto dell’operazione è complessivamente pari o superiore a 1.000 euro, anche quando il trasferimento sia effettuato con più pagamenti inferiori alla soglia che appaiono artificiosamente frazionati allo scopo di eludere la legge. I trasferimenti eccedenti la soglia di legge possono essere effettuati per il tramite di banche, Istituti di moneta elettronica (IMEL) e Poste italiane S.p.A., che provvedono al pagamento nei confronti del beneficiario a decorrere dal terzo giorno lavorativo successivo a quello di accettazione della disposizione.
La GdF evidenzia che la violazione si realizza quando il trasferimento intercorre fra soggetti diversi che costituiscono distinti centri di interesse, ragion per cui della stessa violazione rispondono sia il soggetto che ha effettuato il trasferimento sia quello che ha ricevuto i valori trasferiti, in quanto con il suo comportamento ha contribuito ad eludere le finalità della legge (NOTA 23): a titolo esemplificativo, è considerato come effettuato tra soggetti diversi il trasferimento di denaro tra socio e società (si pensi al conferimento di capitale), ovvero tra società controllata e società controllante.
La norma in commento vieta il trasferimento di denaro e titoli al portatore per importi superiori a 1.000 euro anche quando tale ammontare viene superato cumulando le diverse specie di mezzi di pagamento. In presenza di più trasferimenti, ciascuno di importo inferiore alla soglia di legge, ma di ammontare complessivamente superiore, la GdF richiama quanto già espresso in precedenza dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (NOTA 24), confermando che sfuggono al divieto, perché tra loro non cumulabili, i trasferimenti relativi a distinte ed autonome operazioni (es. singoli pagamenti effettuati presso casse distinte di diversi settori merceologici nei magazzini cash and carry), ovvero alla medesima operazione, quando il frazionamento è connaturato all’operazione stessa (es. contratto di somministrazione), oppure è la conseguenza di un preventivo accordo negoziale perfezionato tra le parti (es. pagamento rateale). Rientra, comunque, nel potere discrezionale dell’Amministrazione valutare, caso per caso, se il frazionamento sia stato invece realizzato con lo specifico scopo di eludere il divieto imposto dalla disposizione.
I professionisti destinatari della normativa antiriciclaggio sono tenuti a monitorare le transazioni finanziarie poste in essere dai propri clienti: l’art. 51, comma 1, del d.lgs. 231/2007 impone, infatti, l’obbligo di comunicare al Ministero dell’economia e delle finanze – e, più precisamente, alle competenti Ragionerie territoriali dello Stato (NOTA 25) – le infrazioni al divieto di trasferimento di contanti o di titoli al portatore di cui abbiano notizia in relazione ai loro compiti di servizio e nei limiti delle loro attribuzioni. Nello stesso comma è specificato che la medesima comunicazione della infrazione va trasmessa – a cura del Ministero – anche alla Guardia di Finanza che, ove ne ravvisi l’utilizzabilità di elementi ai fini dell’attività di accertamento, deve darne tempestiva comunicazione all’Agenzia delle Entrate (NOTA 26).
Il professionista che non voglia vedersi contestare la violazione dell’obbligo di cui all’art. 51, pertanto, deve effettuare la suddetta comunicazione ogni qualvolta venga a conoscenza di un trasferimento di denaro contante o di titoli al portatore per un importo pari o superiore a 1.000 euro, non effettuato per il tramite di una banca, un ufficio postale o un istituto di moneta elettronica.
È altresì tenuto ad effettuare la comunicazione di cui all’art. 51 il professionista che riscontri le seguenti ulteriori violazioni:
– omessa indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e omessa apposizione della clausola di non trasferibilità sugli assegni, i vaglia postali e cambiari emessi per importi pari o superiori a 1.000 euro (art. 49, commi 5 e 7);
– emissione di assegni all’ordine del traente non girati all’incasso (art. 49, comma 6);
– mancata riduzione del saldo dei libretti al portatore, che non deve essere pari o superiore alla soglia critica di 1.000 euro (art. 49, comma 12);
– omissione delle comunicazioni dovute alla banca o alle Poste dei dati identificativi del cessionario, nei casi di trasferimento di libretti di deposito bancari o postali al portatore (art. 49, comma 14);
– apertura o utilizzo di conti e libretti di risparmio anonimi o con intestazione fittizia (art. 50).
Circa la natura dell’obbligo di comunicazione, la GdF evidenzia che l’adempimento deve essere circoscritto alle sole infrazioni di cui il professionista abbia notizia per ragioni d’ufficio, ribadendo di contro l’irrilevanza delle notizie acquisite “nel corso di attività espletate a titolo personale o comunque non professionali” (NOTA 27).
Con riferimento all’accertamento avente ad oggetto la comunicazione delle infrazioni amministrative al Ministero dell’Economia e delle Finanze ex art. 51 del d.lgs. 231/2007, le indicazioni operative della GdF prevedono in primis l’analisi della eventuale procedura adottata dal professionista soggetto all’ispezione per la rilevazione delle suddette infrazioni. L’accertamento materiale avviene attraverso l’esame delle scritture contabili obbligatorie relative ad un campione selezionato di clienti; in dettaglio, sono verificate le modalità di pagamento riferibili ad un congruo numero di operazioni commerciali e finanziarie d’importo elevato. In relazione al regime contabile adottato (ordinario o semplificato), vengono individuate le operazioni che hanno comportato:
– la movimentazione di denaro contante, di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore (anche in valuta estera) per un valore, anche frazionato, complessivamente pari o superiore a 1.000 euro, senza il tramite di banche, Poste Italiane S.p.A. e istituti di moneta elettronica;
– l’emissione di assegni bancari, postali e circolari, vaglia postali e cambiari per importi pari o superiori a 1.000 euro, senza l’indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità;
– l’emissione di assegni all’ordine del traente, non girati unicamente per l’incasso a una banca o a Poste Italiane S.p.A.
Il riscontro dell’esistenza di tali operazioni imporrà la verifica, consequenziale, dell’avvenuto invio da parte del professionista – nei 30 giorni successivi alla data di acquisizione della notizia di infrazione – della comunicazione di legge al Ministero dell’Economia e delle Finanze e, segnatamente, alla Ragioneria territoriale dello Stato competente per territorio.
7.1. Profili sanzionatori
Per quanto concerne l’omessa comunicazione al MEF delle infrazioni all’art. 49, la relativa disciplina è connotata da particolare rigore. Per la violazione in esame è prevista, infatti, in capo ai professionisti, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria variabile dal 3% al 30% dell’importo dell’operazione (ex art. 58, co. 7, d.lgs. 231/2007) con un minimo di 3.000 euro (ex art. 58, co. 7-bis, primo periodo, d.lgs. 231/2007).
Sul punto, pare doveroso evidenziare che l’art. 60, comma 2, del d.lgs. 231/2007 non contempla tra le violazioni suscettibili di essere definite tramite oblazione (NOTA 28) la fattispecie dell’omessa comunicazione ex art. 51 del d.lgs. 231/2007 da parte dei professionisti.
—
(1) Per una approfondita disamina del contenuto degli obblighi antiriciclaggio a carico dei dottori commercialisti
e degli esperti contabili si rimanda a: circolare CNDCEC 15 marzo 2010, n. 16/IR, Gli obblighi antiriciclaggio
degli organi di controllo alla luce del D.Lgs. 25 settembre 2009, n. 151, in www.irdcec.it; CNDCEC,
Antiriciclaggio: d.lgs. 25 settembre 2009, n. 151, Nota esplicativa dell’11 novembre 2009, in
www.commercialisti.it; Antiriciclaggio. Obblighi dei professionisti. Adeguata verifica della clientela, a cura di
A. De Vivo e M. Gallucci, Il Sole 24 Ore, quaderno n. 1/2009; A. De Vivo, M. Gallucci, Antiriciclaggio. Nuova
disciplina e problematiche applicative per i dottori commercialisti e gli esperti contabili, Milano, 2009; circolare
CNDCEC 1° dicembre 2008, n. 8/IR, Gli obblighi di collaborazione attiva dei professionisti nella disciplina
antiriciclaggio. L’adeguata verifica della clientela, in www.irdcec.it; CNDCEC, Antiriciclaggio (D.Lgs.
231/2007): Linee guida per l’adeguata verifica della clientela (ult. agg. luglio 2011), in www.commercialisti.it.
(2) Così si legge nella circolare n. 83607 del 19 marzo 2012, Prevenzione e contrasto del riciclaggio, del finanziamento del terrorismo e dei traffici transfrontalieri di valuta, a cura del Comando Generale della Guardia di Finanza.
(3) Il riferimento è alla nota di chiarimenti del MEF n. 28108 del 6 aprile 2009, indirizzata alla Confederazione Nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa.
(4) Cfr. art. 15, comma 1, lettere c) e d); art. 16, comma 1, lettere d) ed e); art. 17, comma 1, lettere c) e d) del d.lgs. 231/2007.
(5) Sul punto ritengono necessario interpretare in modo restrittivo tutte quelle disposizioni che sembrano voler attribuire al professionista un ruolo di tipo investigativo A. De Vivo, M. Gallucci, Antiriciclaggio. Nuova disciplina e problematiche applicative per i dottori commercialisti e gli esperti contabili, cit., p. 46.
(6) Introdotti dall’art. 36 del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito nella l. 30 luglio 2010, n. 122).
(7) Per una dettagliata disamina delle condizioni oggettive e soggettive necessarie per l’adempimento degli obblighi secondo le modalità semplificate previste dall’art. 25 si veda CNDCEC, Antiriciclaggio (D.Lgs. 231/2007): Linee guida per l’adeguata verifica della clientela, cit.
(8) Per “persone politicamente esposte” si intendono le persone fisiche cittadine di altri Stati comunitari o di Stati extracomunitari che occupano o hanno occupato importanti cariche pubbliche come pure i loro familiari diretti o coloro con i quali tali persone intrattengono notoriamente stretti legami, individuate sulla base dei criteri di cui all’allegato tecnico del d.lgs. 231/2007. Ponendo rimedio all’evidente carenza dell’attuale disciplina antiriciclaggio, la proposta di quarta Direttiva antiriciclaggio formulata dalla Commissione Europea estende le disposizioni in materia di persone politicamente esposte (cosiddette PEP) anche ai cittadini residenti in ciascuno degli Stati attuatori: in altre parole, oltre alle persone fisiche cittadine di altri Stati comunitari o di Stati extracomunitari, potranno essere ritenute “politicamente esposte” anche quelle nazionali.
(9) Sono terzi “qualificati” ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.lgs. 231/2007:
a) intermediari di cui all’art. 11, comma 1, nonché le loro succursali insediate in Stati extracomunitari che applicano misure equivalenti a quelle della direttiva 2005/60/Ce;
b) enti creditizi ed enti finanziari di Stati membri dell’Unione europea, così come definiti nell’art. 3, paragrafi 1 e 2, lett. b), c), e d), della direttiva;
c) banche aventi sede legale e amministrativa in Stati extracomunitari che applicano misure equivalenti a quelle della direttiva;
d) professionisti di cui agli artt. 12, comma 1, e 13, comma 1, lettera b), nei confronti di altri professionisti.
(10) UIC, Chiarimento n. 13, in Chiarimenti vari per i professionisti, 21 giugno 2006.
(11) UIC, Chiarimento n. 18, in Chiarimenti vari per i professionisti, 21 giugno 2006.
(12) UIC, Chiarimenti all’Associazione dei Dottori Commercialisti, in Italia Oggi, 27 marzo 2007.
(13) Sul punto A. De Vivo, Ispezioni antiriciclaggio negli studi, nel mirino della GdF la registrazione dei dati, in www.eutekne.info, 26 aprile 2012.
(14) Nel silenzio della normativa, importati indicazioni circa il contenuto del fascicolo della clientela sono fornite dal CNDCEC nelle citate Linee Guida.
(15) Del tutto diversa è la possibilità, pacificamente ammessa, che il fascicolo della clientela sia tenuto anche con modalità informatiche (vd. d.l. n. 185/2009 circa la validità legale ai fini civilistici dei documenti informatici). Sul punto, le Linee Guida del CNDCEC hanno cura di precisare che, ove il documento conservato mediante modalità informatiche debba avere validità probatoria ai fini dei procedimenti giudiziari, il professionista dovrà procedere all’apposizione della firma digitale e, ove sia necessaria la data certa, anche della marca temporale.
(16) UIC, Chiarimento n. 4, in Chiarimenti vari per i professionisti, 21 giugno 2006.
(17) CNDCEC, Antiriciclaggio: d.lgs. 25 settembre 2009, n. 151, Nota esplicativa dell’11 novembre 2009, in www.commercialisti.it.
(18) Comando Generale della Guardia di Finanza, circolare n. 83607/2012, cit., p. 33 ss.
(19) L’elenco è quello riportato nella circolare sopra citata (p. 34-35).
(20) Dall’interpretazione comunemente accolta discendono, infatti, evidenti profili di criticità per i dottori commercialisti e per gli esperti contabili (ex multis, I. Caraccioli, Riciclaggio e reati tributari, in Il Fisco/Le Guide, Obblighi antiriciclaggio per i professionisti, ottobre 2012, p. 17 ss.).
(21) Comma così modificato dall’art. 36 del D.L. 78/2010 (convertito dalla L. 122/2010), recante “disposizioni antifrode”. Sul punto si veda anche la circolare MEF 11 ottobre 2010, n. 297944, nella quale viene chiarito che con l’integrazione dell’art. 41 si è inteso contribuire alla definizione di un indicatore di anomalia che, tuttavia, deve essere considerato nell’ambito di una valutazione complessiva dell’operazione che non può prescindere dai richiamati elementi oggettivi e soggettivi. Dunque, la modifica non trasforma l’impianto generale della norma, essendo più semplicemente finalizzata a “qualificare meglio” i profili di sospetto. È infatti esclusa, a parere del MEF, ogni forma di “oggettivizzazione della segnalazione di operazione sospetta”.
(22) “Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione di operazioni sospette di riciclaggio da parte di talune categorie di professionisti e dei revisori contabili” (in G.U. 3.5.2010, n. 101).
(23) La GdF precisa altresì che l’illecito in questione ha natura oggettiva, dal momento che il divieto sussiste indipendentemente dalla liceità o dalla illiceità dell’operazione alla quale il trasferimento è riferito (circolare n. 83607/2012, p. 43).
(24) MEF, nota 12 giugno 2008, n. 65633.
(25) Vd. MEF, Decreto 17 novembre 2011: “Individuazione delle ragionerie territoriali dello Stato competenti in materia di procedimenti amministrativi sanzionatori antiriciclaggio, relativamente agli articoli 49, 50 e 51 del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231” (in G.U. 29 novembre 2011, n. 278).
(26) Sul punto, la nota MEF 3 ottobre 2012, n. 77009 ha definitivamente chiarito che, al fine di evitare duplicazioni di adempimenti in capo ai soggetti destinatari della normativa, la comunicazione ex art. 51 deve essere inviata alle sole Ragionerie territoriali dello Stato competenti per territorio, le quali provvederanno a trasmettere le comunicazioni medesime alla Guardia di Finanza.
(27) GdF, circolare n. 83607/2012, p. 49.
(28) Ai sensi dell’art. 16, comma 1, della l. 24 novembre 1981, n. 689, “è ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo, oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione”.
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