La Corte Costituzionale con la sentenza n. 128 depositata il 16 luglio 2024 è intervenuta, per l’ennesima volta, in tema di tutela reintegratoria, dichiarando “… l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore; …”

La vicenda riguardava un dipendente assunto nel 2018 da una agenzia di somministrazione con contratto a tempo indeterminato, a cui veniva notificato il licenziamento irrogatogli per giustificato motivo oggettivo. Il lavoratore impugnava giudizialmente il provvedimento di espulsione. Il Tribunale adito, in veste di giudice del lavoro, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui esclude la tutela reintegratoria laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.), a differenza di quanto previsto per il licenziamento disciplinare fondato su di un addebito insussistente.

I giudici delle leggi hanno preliminarmente evidenziato che “… Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo resta, ancora oggi, disciplinato dalla seconda parte dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966; esso – determinato «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» – si configura ogni qual volta il licenziamento sia motivato da esigenze aziendali, in riferimento a ragioni economiche relative all’impresa o a situazioni che, pur facendo capo al lavoratore, attengono a vicende personali che possono incidere sul regolare funzionamento dell’azienda; la sua connotazione “economica” presuppone che la soppressione di un determinato posto di lavoro sia necessitata da una scelta organizzativa correlata all’attività produttiva, con la precisazione che la ragione produttiva e organizzativa non si identifica con la soppressione del posto di lavoro, ma ne deve costituire la causa giustificatrice.

Le scelte gestionali dell’azienda, in quanto espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., sono rimesse alle valutazioni del datore di lavoro, e al giudice spetta esclusivamente la verifica della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, in quanto «[i]l vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio» (sentenza n. 59 del 2021).

Il controllo opera sull’effettività e concreta esistenza della ragione organizzativa e/o produttiva, ma non deve sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità, precluso tra l’altro, dall’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro). …”

Per i giudici costituzionali “… secondo una nozione più restrittiva divenuta diritto vivente (a partire da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201), ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 gennaio 2023, n. 752).

In definitiva, il fatto posto a base del recesso si deve identificare con la decisione economica organizzativa con la quale il datore di lavoro intende giustificare l’interruzione del contratto di lavoro, sicché costituiscono elementi fondamentali del giustificato motivo, sia la soppressione di un posto di lavoro, sia il nesso causale tra la soppressione del posto e il lavoratore licenziato; prive di rilievo sono, invece, le ragioni economiche o produttive che sono a monte della soppressione del posto occupato dal lavoratore licenziato e che quindi non possono essere oggetto di sindacato del giudice.

(…) La legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo resta anche condizionata dalla necessità che il datore di lavoro dimostri l’impossibilità di collocare il dipendente da licenziare in un posto di lavoro diverso da quello soppresso.

L’onere di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse (cosiddetto repêchage), sebbene non costituisca un requisito espresso a livello normativo, è stato elaborato dalla giurisprudenza sulla base del principio generale secondo cui il recesso datoriale deve rappresentare sempre una scelta necessitata e trova la sua giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro, che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanze 30 gennaio 2024, n. 2739 e 13 novembre 2023, n. 31561, nonché Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 24 settembre 2019, n. 23789). …”

Nella sentenza in commento viene precisato che “… Il licenziamento, salvo particolari e nominate ipotesi, non può essere senza causa, ossia acausale (ad nutum). Esso – per speciale prescrizione imperativa – deve fondarsi su una causa, declinata come «giusta causa» (ex art. 2119 cod. civ.) – tale essendo una inadempienza «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto» – oppure come «giustificato motivo» (ex art. 3 della legge n. 604 del 1966), consistente in «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» oppure in «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».

È questa una garanzia specifica del lavoro subordinato, espressione della più generale tutela del lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» (art. 35, primo comma, Cost.). Il principio costituzionale della necessaria giustificazione del licenziamento, che rinviene la sua legittimazione nel «diritto al lavoro» di cui all’art. 4, primo comma, Cost. e che è rafforzato dalla «tutela» del lavoro riconosciuta art. 35, primo comma, Cost., ha trovato attuazione proprio nell’art. 1 della legge n. 604 del 1966, secondo il quale il licenziamento va considerato illegittimo se non è sorretto da una «giusta causa» o da un «giustificato motivo».

(…) la reintegrazione non costituisce il solo e indefettibile modello di tutela del prestatore a fronte dell’illegittimità del licenziamento, che sia compatibile con la garanzia costituzionale del lavoro (art. 35 Cost.); il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, può operare una diversa scelta della disciplina di contrasto dei licenziamenti illegittimi sempre che risulti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva. Questa Corte ha, infatti, più volte affermato che la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza n. 125 del 2022, che richiama le sentenze n. 59 del 2021 e n. 46 del 2000), in quanto «molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato» (sentenza n. 254 del 2020). …”

In particolare i giudici della Corte Costituzionale hanno ricordato che “… la radicale irrilevanza, a questo fine, dell’insussistenza del fatto materiale nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a determinare un difetto di sistematicità che ridonda in una irragionevolezza della differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Se il “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento non sussiste, è violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale. Il licenziamento regredisce a recesso senza causa, quale che sia la qualificazione che il datore di lavoro dia al “fatto insussistente”, vuoi contestandolo al lavoratore come condotta inadempiente che in realtà non c’è stata, vuoi indicandolo come ragione di impresa che in realtà non sussiste (perché, ad esempio, il posto non è stato soppresso). Il “fatto insussistente” è neutro e la differenziazione secondo la qualificazione che ne dà il datore di lavoro è artificiosa; in ogni caso manca radicalmente la causa del licenziamento, il quale è perciò illegittimo.

(…) La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su ‟un fatto insussistente”, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare. La conseguenza, in termini di garanzia per il lavoratore illegittimamente licenziato, non può che essere la stessa: la tutela reintegratoria attenuata prevista per l’ipotesi del licenziamento che si fondi su un “fatto materiale insussistente”, qualificato dal datore di lavoro come rilevante sul piano disciplinare.

(…) quanto alla rilevanza della “insussistenza del fatto” su cui si fonda il licenziamento nell’uno e nell’altro caso, ha così escluso che possa esserci una ragione che giustifichi una regola differenziata, a fronte del principio di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.). È stato quindi rimosso, con pronunce di illegittimità costituzionale, il duplice trattamento differenziato già presente nella legge n. 92 del 2012: rispettivamente, tutela reintegratoria attenuata “obbligatoria” versus tutela reintegratoria attenuata “facoltativa” e presupposto del “fatto insussistente” versus quello della “manifesta insussistenza del fatto”. …”

In conclusioni la Corte afferma “… l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore. …”

Pertanto la tutela della reintegra deve trovare applicazione anche per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del recesso da parte del datore, escludendo, però, le ipotesi in cui il fatto materiale addotto come motivo oggettivo di licenziamento sussiste, ma non giustifica il recesso per violazione dell’obbligo di repêchage.