La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 7819 depositata il 20 marzo 2019 intervenendo in tema di accertamento analitico-induttivo ha statuito che “in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 24, comma 5, della l. n. 88 del 2009, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dall’art. 35, comma 3, del d.l. n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi, in tal modo ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”, l’accertamento di un maggiore reddito derivante dalla cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni O.M.I., ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”
Per i giudici del palazzaccio i valori O.M.I. e quelli relativi al mutuo stipulato dall’acquirente sono elementi sufficienti per accertare il valore di cessione dei beni.
In particolare per gli Ermellini, accogliendo il ricorso dall’Agenzia delle Entrate, hanno precisato che l’accertamento emesso dall’Amministrazione “non è fondato sui soli valori O.M.I., ma poggia su una serie di elementi di riscontro probatorio, tutti volti ad evidenziare una ‘disomogeneità’ tra i prezzi dichiarati negli atti di cessione ed il valore effettivo dei beni”.
La vicenda ha riguardato una società a cui veniva notificato un avviso di accertamento con cui si rettificavano i ricavi dichiarati dalla società derivanti dalla vendita di unità immobiliari. La contribuente avverso l’atto impositivo proponeva ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale. I giudici di merito di primo grado accoglievano parzialmente le doglianze della società ricorrente.
Avverso la decisione dei giudici di primo grado la società contribuente proponeva ricorso dinnanzi alla Commissione Tributaria Regionale. I giudici di appello accolsero il ricorso della società.
L’Agenzia delle Entrate avverso tale decisione della CTR proponeva ricorso in cassazione fondato su un unico motivo. I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria. I giudici Supremi hanno puntualizzato che la Commissione Tributaria Regionale “non ha adeguatamente preso in esame tutti gli elementi offerti dall’Ufficio che, costituendo un quadro di circostanze astrattamente suscettibile, per gravità, precisione e concordanza, di legittimare la determinazione induttiva del reddito e, quindi, di orientare diversamente il giudizio, imponeva di esplicitare in modo più esaustivo e puntuale il percorso logico-giuridico seguito per addivenire alla decisione”.
Inoltre affermano i giudici della Corte di Cassazione “anche a voler escludere ogni rilevanza ai valori 0.M.I., a fondare l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla cessione di beni immobili è sufficiente, come ribadito costantemente da questa Corte, anche soltanto lo scostamento tra il minor prezzo indicato nell’atto di compravendita e l’importo del mutuo erogato all’acquirente, ciò non comportando alcuna violazione delle norme in materia di onere della prova ”.
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