La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 9081 depositata il 6 aprile 2025, intervenendo in tema licenziamento disciplinare, ha ribadito il principio secondo cui in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nella attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 cod. civ. (Cass. n. 17321/2020; Cass n. 3283/2020; Cass. n. 13865/2019), mentre è vincolante la previsione della contrattazione collettiva se, invece, per il fatto addebitato sia prevista, in modo tipizzato ovvero desunta attraverso l’interpretazione di una clausola elastica e generale, l’applicazione di una sanzione conservativa (Cass. n. 8718/2017; Cass. n. 9223/2015; Cass. n. 11665/2022), a meno che il giudice non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 8621/2020; Cass. n. 9223/2015) ovvero quando siano presenti elementi aggiuntivi, estranei o aggravanti rispetto alla previsione contrattuale (Cass. n. 36427/2023).”

La vicenda ha riguardato un dipendente a cui la società datrice di lavoro notificava, a conclusione del procedimento disciplinare il licenziamento. Al lavoratore era stato contestato che reiteratamente e senza autorizzazione alcuna, effettuato pause pranzo di circa due ore (invece dei prescritti 60 minuti) e/o anticipato l’uscita dall’Azienda, conseguentemente riducendo in maniera illegittima il tempo giornaliero di presenza al lavoro. Il dipendente impugnava il provvedimento di espulsione. Il Tribunale adito, nella veste di giudice del lavoro, rigettava il ricorso in opposizione ex lege n. 92 del 2012. Il lavoratore impugnava la decisione. La Corte di appello confermava la pronuncia del Tribunale. Il dipendente, avverso la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi.

I giudici di legittimità rigettavano il ricorso.

Gli Ermellini, in ordine alla all’accertamento della congruenza del licenziamento hanno riaffermato che la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012)

Nel respingere anche la contestazione sulla proporzionalità del provvedimento, il Supremo consesso ribadiva che In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità – Cass. n. 26010/2018””