La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17177 del 11 luglio 2013 interviene in materia di licenziamento ha chiarito che qualora l’azienda provveda ad attivare la procedura per licenziamento collettivo prevista dalla Legge n. 223/1991, quest’ultimo potrà considerarsi valido solo nel caso in cui abbia preso in considerazione tutte le sedi operative dell’azienda.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha precisato che la necessaria considerazione di tutte le sedi operative ai fini dell’applicazione della disciplina dei licenziamenti collettivi, non può essere evitata con l’esclusione a priori che i dipendenti possano accettare un eventuale trasferimento.
La vicenda ha avuto origine con l’impugnazione del licenziamento da parte di due dipendenti, inanzi al Tribunale, in esito ad una procedura di licenziamento collettivo e motivata dalla chiusura del centro estetico di Torino, via G. n. 7/A, dove le ricorrenti prestavano la loro attività, in qualità di estetista la P. e in qualità di receptionist la B..
Il ricorso, respinto in primo grado, viene accolta dalla Corte di appellp, che ravvisava la violazione dell’art. 5 legge n. 223/1991 per avere la società limitato la scelta delle dipendenti da licenziare alle sole unità produttive soppresse di Torino e di Catania senza procedere ad alcuna comparazione con i dipendenti delle restanti sedi di Bergamo, Brescia, Mestre e Bari, pur in presenza di professionalità del tutto fungibili.
Nella fattispecie era mancato un accordo con le 00.SS. sui criteri di scelta dei lavoratori e dunque trovava applicazione l’art. 5, primo comma, della legge n. 223 del 1991 (carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative, criteri operanti “in concorso tra loro”).
Nel caso in cui il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in via esclusiva ad uno o più reparti, la comparazione dei lavoratori può essere più ristretta rispetto all’ intero complesso aziendale, ma ciò può avvenire solo se gli addetti al reparto soppresso siano portatori di specifiche professionalità non omogenee a quelle dei restanti reparti, che ne rendano impraticabile in radice qualsiasi comparazione.
La tesi del datore di lavoro – secondo cui la comparazione estesa ai dipendenti presenti sull’intero territorio nazionale avrebbe comportato conseguenze non sostenibili sia per i lavoratori, costretti a trasferirsi in città lontane dal luogo di residenza, sia per l’azienda, costretta ad una onerosa revisione della propria organizzazione – non era condivisibile, muovendosi su un piano interpretativo di sostanziale abrogazione dell’art. 5 legge n. 223/1991.
Avverso la sentenza della Corte di Appello il datore di lavoro propone ricorso per cassazione.
Gli Ermellini hanno ritenuto la decisione assunta dalla Corte territoriale è in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte.
Secondo tale giurisprudenza, il doppio richiamo operato dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1, alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative (“l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico- produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti dai contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’art. 4, comma 2 ovvero, in mancanza dì questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative”), assume il seguente significato: al primo di essi è attribuibile la funzione di individuare l’ambito aziendale entro il quale dovranno operare i criteri di scelta veri e propri, tra i quali, ove siano applicabili quelli legali, va considerato anche il criterio delle esigenze tecnico produttive e organizzative.
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