Elemento essenziale il principio di tempestività della contestazione secondo gli Ermellini che con la sentenza della Cass., sez. lav., 8 febbraio 2013, n. 3058 che nel licenziamento per giusta causa il principio di immediatezza esprime un’esigenza di continuità cronologica tra la mancanza del lavoratore e la contestazione dell’addebito da parte del datore di lavoro, ed è posto a garanzia del corretto esercizio del potere disciplinare del secondo e della possibilità di un’efficace difesa da parte del primo; lo stesso principio costituisce, poi, estrinsecazione dell’obbligo datoriale di buona fede, dovendosi adeguatamente tener conto del giusto affidamento del prestatore, in caso di ritardo della contestazione in oggetto, che il fatto incriminabile possa non aver assunto rilievo disciplinare; con l’ulteriore precisazione che la valutazione del detto principio di immediatezza va effettuata in base al criterio della relatività, nel senso che deve essere considerata la situazione concreta ed i motivi oggettivi che possano aver giustificato il prolungamento delle indagini accertative da parte del datore di lavoro, avuto anche riguardo al momento in cui quest’ultimo possa ragionevolmente essere venuto a compiuta conoscenza del fatto.
Nella vicenda in esame la Corte d’appello, in riforma della pronuncia del Tribunale di primo grado che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato ad un lavoratore con tutte le consequenziali statuizioni reintegratorie e risarcitorie, aveva rigettato l’appello proposto dal dipendente.
A sostegno della propria decisione la Corte d’appello aveva ritenuto che il licenziamento fosse avvenuto nel pieno rispetto delle regole procedurali di cui alla legge n. 300/1970, art. 7, sia sotto il profilo dell’immediatezza fra fatti denunciati e contestazione disciplinare, sia sotto quello della tutela del diritto di difesa del lavoratore riguardo alla dedotta disattesa richiesta di audizione orale.
Inoltre, quanto al merito della contestazione, a parere della Corte d’appello i fatti contestati dovevano ritenersi provati, sia perché non erano stati oggetto di puntuale disconoscimento, sia perché la documentazione prodotta e le deposizioni raccolte in primo grado avevano dimostrato la sussistenza di un inadempimento contrattuale di particolare gravità, tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro. In particolare, l’istruttoria espletata aveva consentito di accertare che il lavoratore aveva messo in atto, quando era responsabile della filiale della società, una gestione superficiale e spregiudicata, consistita, ad esempio, in movimentazioni di conti correnti non giustificati alla luce del fatturato o del reddito del beneficiano, giro di assegni con sconfinamento dell’affidamento concesso, addebito di operazioni su conti correnti di clienti diversi da quelli che avevano negoziato l’assegno, superamento dei limiti di autonomia previsti dalla banca, concessioni arbitrarie ed indebite di linee di credito ecc.
Peraltro, l’elevato numero delle posizioni anomale rivelavano, da un lato, un’assoluta carenza di diligenza del lavoratore in ordine alle sue specifiche mansioni di responsabile di filiale e, dall’altro, una scarsa attenzione al rispetto delle più elementari norme di prudenza nel settore bancario.
Per la cassazione di tale pronuncia proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore sulla base di due motivi.
Con il primo motivo di ricorso il lavoratore, denunciando violazione e falsa applicazione della legge n. 300/1970, art. 7, reiterava la propria tesi relativa alla tardività della contestazione disciplinare, in quanto la lettera di contestazione gli era stata consegnata oltre due mesi dopo il termine delle indagini ispettive disposte dalla società.
Tale motivo a parere della Suprema Corte è infondato.
La Corte territoriale aveva infatti osservato al riguardo che, al fine di escludere la dedotta tardività andavano prese in adeguata considerazione le seguenti circostanze, che inducevano a ritenere non sussistente alcuna ingiustificata dilatazione temporale: a) la complessità dell’organizzazione aziendale, essendo la società una grande banca, articolata in una pluralità di autonome direzioni, con diversi livelli decisionali e diffusa nel territorio italiano; b) l’avvenuto accertamento dei fatti mentre le direzioni interessate del licenziamento (ispettorato e personale) risiedevano a Milano; c) l’elevato numero delle infrazioni acclarate, molte delle quali avevano richiesto approfondite elaborazioni, analisi e chiarimenti in sede centrale; d) la sospensione cautelare del lavoratore che dimostrava l’insussistenza di qualsiasi acquiescenza della banca, e anzi una pronta reazione del datore di lavoro ed una permanente volontà di irrogare (eventualmente) la sanzione espulsiva.
Nell’operare la relativa valutazione, la Corte territoriale si è conformata alla giurisprudenza di legittimità alla cui stregua il principio di immediatezza esprime un’esigenza di continuità cronologica tra la mancanza del lavoratore e la contestazione dell’addebito da parte del datore di lavoro, ed è posto a garanzia del corretto esercizio del potere disciplinare del secondo e della possibilità di un’efficace difesa da parte del primo; lo stesso principio costituisce, poi, estrinsecazione dell’obbligo datoriale di buona fede, dovendosi adeguatamente tener conto del giusto affidamento del prestatore, in caso di ritardo della contestazione in oggetto, che il fatto incriminabile possa non aver assunto rilievo disciplinare (ex plurimis, Cass. n. 11100/2006); con l’ulteriore precisazione che la valutazione del detto principio di immediatezza va effettuata in base al criterio della relatività, nel senso che deve essere considerata la situazione concreta ed i motivi oggettivi che possano aver giustificato il prolungamento delle indagini accertative da parte del datore di lavoro, avuto anche riguardo al momento in cui quest’ultimo possa ragionevolmente essere venuto a compiuta conoscenza del fatto (ex plurimis, Cass. n. 22066/2007).
In questa prospettiva, la Corte di merito ha rilevato che la lettera di contestazione, su cui si era basato l’intimato licenziamento, era datata 13 maggio 2003, mentre i principali fatti imputati al dipendente erano stati accertati mediante un’ispezione, presso la filiale di cui quest’ultimo era direttore, iniziata il 17 febbraio 2003 e conclusasi il 27 marzo 2003.
La sentenza della Corte di appello ha inoltre accertato che in data 3 aprile 2003 la banca aveva cautelarmente sospeso dal servizio il lavoratore, così cristallizzando la situazione e dimostrando, in modo assolutamente inequivocabile, che essa intendeva esercitare i propri diritti disciplinari (eventualmente risolutori).
Così argomentando, la Corte d’appello ha mostrato ancora una volta di adeguarsi alla costante giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui la sospensione cautelare cristallizza la situazione, impedisce ogni acquiescenza ed esclude ogni tardività (tra le tante, Cass. 19 agosto 2004, n. 16291).
A parere della Suprema Corte risulta infondato anche il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente lamentava la propria mancata audizione, nonostante esplicita richiesta al datore di lavoro, prima dell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva.
In proposito la Corte d’appello ha osservato che dalla documentazione versata in atti si evinceva che: a) a seguito della lettera di contestazione degli addebiti il lavoratore non aveva presentato giustificazioni scritte ma aveva chiesto di essere ascoltato di persona in presenza di un rappresentante sindacale; b) la banca, aderendo a tale richiesta, aveva convocato per ben quattro volte il lavoratore ma l’invocata audizione non era mai avvenuta a causa dell’indisponibilità ripetuta dell’istante per motivi di salute (attestata da certificati medici inviati al datore di lavoro).
In tale contesto, quindi, nulla si poteva addebitare alla società appellante, che si era mostrata sempre disponibile affinché l’appellato potesse esercitare il diritto di difesa contemplato dalla legge n. 300/1970, articolo 7, da esercitarsi secondo opportune modalità e precisi limiti, in modo tale da non paralizzare, mediante l’uso di mezzi dilatori, il potere disciplinare del datore di lavoro; a ciò era da aggiungersi la considerazione che la malattia denunciata (stato depressivo) non appariva, in concreto, aver impedito fisicamente al lavoratore di effettuare il colloquio, né di ragguagliare adeguatamente il rappresentante sindacale sulle giustificazioni da fornire riguardo ai fatti contestati.
La Suprema Corte di cassazione ha quindi deciso il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore della società.
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