La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 10550 del 07 maggio 2013 ha affermato, in tema di licenziamento ed applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970, che la Riforma Fornero (legge 92/2012) non può trovare applicazione alle cause concernenti i provvedimenti di licenziamento in corso alla data del 18 luglio 2012, anche per la mancanza di una disciplina transitoria.
Nel caso di specie il licenziamento irrogato nel 2001 da una nota azienda telefonica per abuso del telefono cellulare aziendale (assegnato per ragioni di servizio) veniva dichiarato illegittimo in secondo grado, con conseguente applicazione della disciplina dell’art. 18, St. lav., anteriore alla legge n. 92/2012.
Adìto il Collegio Supremo, la società ricorrente, in sede di memoria ex art. 378 c.p.c. – invocando la «mancanza di disposizioni transitorie» – chiedeva «l’applicazione del nuovo testo dell’art. 18 introdotto con la legge n. 92/2012», vale a dire «l’immediata applicabilità del nuovo regime sanzionatorio».
Domanda vagliata come inammissibile in sede di legittimità per i motivi che andiamo ad illustrare.
In merito al punto di determinare la efficacia temporale della Riforma dell’art. 18, si ricorda quanto stabilito, in merito alla legge 300/1970, dalla giurisprudenza di legittimità – a mente del disposto dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile (cd. «Preleggi») secondo cui, come noto, «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo» – si espresse da subito e univocamente nel senso di negare l’efficacia retroattiva delle previsioni dell’art. 18 che aveva, per la prima volta, imposto «all’imprenditore di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo»: quella norma, infatti, «avendo efficacia innovativa e non interpretativa rispetto all’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, sui licenziamenti individuali, ed essendo di carattere sanzionatorio, non è suscettiva di applicazione retroattiva rispetto ai licenziamenti intimati prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori». Dunque: «non può applicarsi immediatamente a detti licenziamenti quale ius superveniens (Cass. 4 gennaio 1979, n. 10).
La Corte Suprema, sempre univocamente, ha ribadito questo principio anche all’indomani dell’entrata in vigore delle previsioni introdotte dalla legge n. 108/1990: «gli effetti di un licenziamento intimato prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1990 sono regolati dalla normativa previgente, a norma dell’art. 11, disp. prel. c.c., anche riguardo alle eventuali implicazioni delle modificazioni dell’art. 18 della legge n. 300/1970», trattandosi «di effetti sostanziali di una fattispecie già perfetta su cui non incide lo ius superveniens (Cass. 27 gennaio 1998, n. 809).
Ancor più espressamente, è stato affermato che «la norma dell’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108» di modifica dell’art. «18 della legge n. 300/1970» ha «carattere innovativo e perciò, ai sensi dell’art. 11 delle Preleggi, non può incidere su situazioni sostanziali prodottesi nel vigore della normativa precedente» (Cass. 3 aprile 1992, n. 4103; nello stesso senso, Cass. 12 febbraio 1994, n. 1400).
In altre parole, «la disciplina degli effetti del licenziamento illegittimo introdotta dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108 trova applicazione solo per il licenziamento adottato nel vigore di tale legge, non essendo sufficiente la vigenza della stessa al momento in cui deve adottarsi la decisione sugli effetti medesimi» (Cass. 29 maggio 1995, n. 5995).
Il percorso svolto dagli ermellini nella sentenza in esame per rigettare l’istanza della società ricorrente si snoda, invece, attraverso le norme relative al «giusto processo».
Come recita la massima riportata in epigrafe «con la legge n. 92/2012 è stata introdotta una nuova, complessa ed articolata disciplina dei licenziamenti che àncora le sanzioni irrogabili per effetto dell’accertata legittimità del recesso a valutazioni di fatto incompatibili non solo con il giudizio di legittimità ma anche con un’eventuale rimessione al giudice di merito che dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo».
Con la conseguenza che, prosegue la sentenza, «una diversa interpretazione (…) risulterebbe in contrasto, in primo luogo, con il principio di ragionevole durata del processo sancito, oltre che direttamente dalla Carta costituzionale (art. 111 Cost. ), anche dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo , nonché dall’art. 47 della Carta europea dei diritti fondamentali ».
In relazione al primo rilievo, se ne comprende il fondamento considerata la funzione di nomofilachia del grado di giudizio avanti la Corte di cassazione: sicché non è dato in alcun modo entrare nel merito delle singole vicende per farne conseguire una corretta applicazione della nuova e articolata disciplina sanzionatoria.
Sul punto, però, ciò che attira l’attenzione è il cenno relativo alla «qualificazione del fatto (giuridico)» con il quale la Suprema Corte sembra (seppur indirettamente) condividere ed aderire ad un’applicazione del quarto comma come delineata con la prima e nota ordinanza che ha dato attuazione al nuovo disposto dell’art. 18, Stat. lav.
Confidiamo che si tratti di un’erronea valutazione di chi scrive, giacché come ricordato da un noto Autore, proprio in relazione a quel provvedimento, «si tratta di una grave confusione tra fatto e qualificazione giudiziale del fatto. Il nuovo regime esclude la tutela reale per la semplice ingiustificatezza del licenziamento disciplinare, ammettendola solo nelle due ipotesi di insussistenza del fatto contestato o di tipizzazione dello stesso come meritevole di sanzione conservativa da parte del contratto collettivo o del codice disciplinare. Queste due ipotesi sono accomunate dall’intrinseca irrilevanza della valutazione del giudice sulla gravità del fatto, poiché in un caso l’inesistenza del fatto ne esclude ogni valutazione e nell’altro caso la valutazione rilevante è solo quella preventiva effettuata dalle fonti ricordate ».
Nel caso di cui alla sentenza in commento, peraltro, il fatto storico era pacifico tra le parti, al punto che «il lavoratore si era sempre dichiarato disponibile» a risarcire il danno «per un costo complessivo di £ 3.216.960» [valutato in grado di appello «non (…) così grave»]: come dire, forse è stato proprio in virtù di questo dato oggettivo che la società ricorrente (mutuando nel diritto civile un principio di diritto penale) ha tentato di ottenere l’applicazione della sanzione meno grave.
Come abbiamo visto, tuttavia, la Corte non ritiene percorribile una siffatta strada perché ciò significherebbe, inter alia, allungare ingiustamente i tempi del giudizio (che nel caso di specie, peraltro, si è concluso in sede di legittimità dopo ben dodici anni), giacché la modifica dell’art. 18 – il cui contenuto viene esemplificato dalla Corte – ha comportato «un evidente stravolgimento» del sistema di allegazioni e prove nel processo, che non è limitato ad una modifica della sanzione irrogabile (come nel caso, pur opinabile, delle modifiche introdotte dall’art. 32 della legge n. 182/2010) ma si collega ad una molteplicità di ipotesi diverse di condotte giuridicamente rilevanti cui si connettono tutele tra di loro profondamente differenti.
Un sistema unico che non incide sul solo apparato sanzionatorio ma impone un approccio diverso alla qualificazione giuridica dei fatti incompatibile con una sua immediata applicazione ai processi in corso».
Conclusioni
La via argomentativa utilizzata nella sentenza oggetto di commento pare quasi essere stata scelta col fine di manifestare un certo scetticismo verso le modifiche legislative che negli ultimi anni hanno interessato alcune delle norme fondamentali del diritto del lavoro: l’ulteriore cenno alla «pur opinabile» modifica del regime sanzionatorio introdotto dall’art. 32 del cd. Collegato lavoro sembrerebbe esserne la conferma.
Diversamente, sarebbe bastato un richiamo de plano all’art. 11 delle Preleggi e a quanto la stessa Corte Suprema di cassazione aveva già avuto modo di esprimere in passato.
Tutto è certamente perfettibile ma occorrerebbe un percorso meno ondivago anche da parte degli interpreti per procedere in tale senso.
L’applicazione coerente dei princìpi generali dell’ordinamento avrebbe semplificato la questione dando maggiore certezza: e a ben considerare non solo dell’art. 11 delle Preleggi, bensì anche del successivo art. 12.
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