La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 27391 depositata il 6 dicembre 2013 intervenendo in materia di danno da licenziamento ha statuito che non ha diritto al risarcimento per il danno all’immagine il lavoratore al quale è stato comunicato il licenziamento con la lettera raccomandata, ritenendo privi di fondamento i danni lamentati dalla lavoratrice in ragione dell’illegittimità del licenziamento e dell’asserita condotta discriminatoria del datore di lavoro. Inoltre, per configurare il danno all’alterazione psico-fisica deve essere provato che il dipendente sia affetto da una vera e propria patologia psichica causata o aggravata dal recesso illegittimo.
La vicenda ha riguardato un dipendente di una banca a cui era stato comunicato il licenziamento mediante raccomandata. Il provvedimento di espulsione veniva impugnato dal lavoratore l’autorità giudiziaria adita dichiarava l’inefficacia del licenziamento era dipesa dal fatto che la comunicazione inoltrata dalla Banca agli enti competenti ai sensi dell’art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 si era rivelata illegittima, in quanto dalla stessa il giudice di merito non aveva potuto trarre gli elementi necessari per constatare se tutti i lavoratori in possesso dei requisiti erano stati inseriti in una delle categorie da scrutinare, né se vi era stata corretta applicazione dei criteri di valutazione comparativa.
Il dipendente citava in giudizio il datore di lavoro per il danno danno all’immagine, alla professionalità, alla salute ed alla vita di relazione subito Il giudice di primo grado accoglieva la domanda ed concedeva l’emissione del decreto ingiuntivo col quale le era stato intimato il pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni maturate dal dipendente nel periodo aprile – agosto 2004. Il datore di lavoro ricorreva avverso la decisione del Tribunale, in veste di giudice del lavoro, inanzi alla Corte di Appello che accoglieva l’impugnazione proposta dalla società revocando il decreto ingiuntivo emesso dal predetto giudice.
Il dipendente per la cassazione della pronuncia dei giudici di appello proponeva ricorso, basato su ventisette motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini respingono il ricorso del dipendente ritenendo le motivazioni infondate. In particolare i giudici di legittimità ribadiscono il principio di diritto secondo cui alla stregua di una interpretazione letterale e logicosistematica dell’art. 2118 cod. civ., nel contratto di lavoro a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale – che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine – ma efficacia obbligatoria. Ne consegue che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso”. (Cass. Sez. lav. n. 22443 del 4/11/2010)
I giudici del palazzaccio ritengono la decisione dei giudici di merito congrua ed esente da vizi di carattere logico-giuridico in quanto alla domanda di condanna al risarcimento del danno professionale non era stato allegato, né provato, quale danno concreto allo sviluppo di carriera ed all’aggiornamento professionale sarebbe derivato dal licenziamento.
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