La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 17713 del 19 luglio 2013 interviene in tema di licenziamenti ed afferma che non può essere licenziato il lavoratore che si rifiuta si svolgere un compito che non gli compete. La Corte Suprema chiarisce quando il dipendente può legittimamente dire di no al suo datore di lavoro.
Nella fattispecie il lavoratore poteva opporre il suo rifiuto il ricorrente che aveva declinato l'”invito” a fare il direttore di un supermercato, spaventato dalle responsabilità penali connesse all’incarico.
Gli Ermellini hanno ribaltato il verdetto della Corte d’Appello che aveva considerato meritata la massima punizione per insubordinazione. Per la Corte Suprema i giudici di merito avevano sottovalutato le motivazioni del ricorrente, in particolare per quanto riguardava il timore di controversie legali, negando il rischio di subire condanne «per reati commessi da altri».
I giudici di legittimità ricordano che le norme comunitarie sul settore alimentare, hanno esteso, a tutela dei consumatori, la platea dei potenziali responsabili, tra cui c’è il direttore del punto vendita che risponde, ad esempio, anche della scadenza delle merci. Le paure del ricorrente non erano, poi, solo preventive. In passato il lavoratore – che aveva già fatto il direttore malgrado la qualifica di business controler e non quella richiesta di Capo settore – aveva avuto guai giudiziari connessi proprio al suo ruolo. Un secondo errore i giudici di merito lo commettono dando un peso assoluto, al “mansionario” aziendale. La Cassazione ricorda che, al pari di tutti i documenti formati dal datore e utilizzati in suo favore, il mansionario ha un’efficacia probatoria limitata, e può essere contestato ricorrendo anche alle specifiche deduzioni dell’avvocato. Sbagliano ancora i giudici di appello ad attribuire il valore di confessione giudiziale alle dichirazioni rese dal diretto interessato. Quanto detto dal lavoratore in sede di interrogatorio libero può servire al giudice solo come elemento sussidiario di convincimento. La prova della buona fede del dipendente era nella sua storia professionale.
“Ne consegue che deve considerarsi legittimo il rifiuto opposto da un dipendente di una società che si occupa del commercio e della vendita di alimenti e bevande, e che è articolata sul territorio in più punti vendita, di svolgere il ‘servizio di permanenza di direzione’ di uno di questi punti vendita – servizio che comporta l’assunzione del ruolo di responsabile del punto vendita stesso, nei suoi riflessi anche penalistici – se non è dimostrato che si tratta di un compito rientrante nella qualifica di competenza del lavoratore e che questi ha conoscenze adeguate per il relativo svolgimento”.
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