La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 14017 del 04 giugno 2013 intervenendo in tema licenziamenti disciplinari fornisce un altro importante contributo sul tema della quantificazione e risarcimento del danno esistenziale, contribuendo ulteriormente alla sua configurabilità negli articoli codicistici.
La vicenda ha riguardato un dipendente di una società nei cui confronti sono state irrogate diverse sanzioni disciplinari e per ultimo a licenziamento per giusta causa per motivazioni che la Corte territoriale ritiene infondate per mancanza di idonei elementi probatori, di conseguenza l’organo giudiziario dichiara illegittimi tutti i provvedimenti della società.
I giudici di Appello confermano la misura del risarcimento per l’illegittimo licenziamento determinata dal Tribunale in sei mensilità di retribuzione, tenuto conto della durata del rapporto di lavoro di oltre sei anni e delle dimensioni dell’impresa, di una certa consistenza, pur avendo meno di 16 dipendenti. Mentre avuto riferimento al mobbing ed ai relativi infondati provvedimenti disciplinari, la Corte territoriale esclude la possibilità di liquidare alcuna somma, in via autonoma, a titolo di danno esistenziale dovendo ritenersi tale danno già inserito nelle somme liquidate per danno non patrimoniale e, quindi, considerato che il dipendente aveva comunque sempre continuato a lavorare, determina il risarcimento in favore del lavoratore in una somma complessiva di Euro 21.255,00.
Gli Ermellini con la sentenza in esame confermano un orientamento giurisprudenziale che negli anni si è ormai consolidato. La risarcibilità del cd. Danno non patrimoniale, infatti, è sempre stato, in passato, inquadrato nell’ambito di applicazione del 2059 c.c., configurandosi quale mero risarcimento della “sofferenza” derivante dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, scaturente da una condotta “illecita”. In effetti abbiamo seguito la ventennale giurisprudenza in materia e sappiamo che oggi si assiste sempre più al riconoscimento del danno non patrimoniale slegato dalla illiceità della condotta. Ciò fa sì che lo stesso possa essere inquadrato nell’ambito di applicazione del 2043, con tutte le ovvie conseguenze in ordine all’onere probatorio. Il danno esistenziale difatti dovrà essere dimostrato, non solo in ordine all’elemento oggettivo (condotta, evento, nesso eziologico), ma anche in ordine a quello soggettivo, perché non è una semplice sofferenza valutabile in re ipsa in ordine al patito. Essa deve essere valutata in ordine alla consistenza e legata indissolubilmente alla condotta subita.
La società datrice di lavoro avverso la decisione dei giudici di merito propone ricorso alla Suprema Corte per la cassazione della sentenza basandolo su tre motivazioni.
Gli Ermellini confermano la sentenza della Corte di Appello rigettando sia il ricorso principale che quello incidentale.
I giudici di legittimità chiariscono che nel caso esaminato i giudici di merito non hanno inteso negare l’esistenza del danno esistenziale, sempre risarcibile alla stregua del disposto dell’art. 2043 c.c. violandosi un diritto della persona anche se la condotta offensiva non costituisce reato, ma lo ha inteso includere nel danno biologico applicando un criterio liquidativo complessivo ed equitativamente determinato (pari ad Euro 16,25 al giorno) che risulta aver tenuto conto anche dei criteri soggettivi, avendo fatto riferimento alla specifica posizione lavorativa del dipendente che non aveva cessato di lavorare dando così prova di aver conservato integra la maggior parte del proprio stato di salute.
La stessa Corte di Cassazione ritiene corretta anche la liquidazione degli accessori al danno liquidato globalmente fino alla sentenza, in quanto il giudice d’appello ha con una formula generale (rivalutazione monetaria ed interessi legali decorrenti dalla data della sentenza) indicato un criterio di quantificazione che lungi da intendersi come disapplicativo dei principi più volte, sul punto, ribaditi dalla giurisprudenza circa la decorrenza della rivalutazione monetaria dal verificarsi del fatto in caso di debito di valore quale quello in esame, deve, invece, leggersi come rispettoso di tali principi avendo la Corte manifestato di aver valutato il danno complessivamente determinato all’epoca della sentenza (i fatti si riferiscono invece agli anni 1997/1998) già comprensivo di detti accessori.
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