La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 19096 del 9 agosto 2013 intervenendo in tema di licenziamenti ha statuito che è legittimo il provvedimento di licenziamento, per la violazione dell’obbligo di fedeltà, del dipendente che presenti una condotta di mera predisposizione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro, anche solo potenzialmente produttiva di danno.
La vicenda ha riguardato un lavoratore subordinato licenziato per aver sottoscritto una partecipazione in una società svolgente attività concorrenziale rispetto a quella del datore. Infatti il lavoratore era dipendente di un laboratorio di analisi ed aveva partecipato a una Srl costituita allo scopo di svolgere attività medico associata.
Per gli Ermellini, nel caso di specie, si è trattato della violazione dell’art. 2105 c.c., in base al quale il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poterle recare pregiudizio.
La Corte Suprema ha confermato la sentenza della Corte d’appello, contro la quale il lavoratore aveva presentato ricorso, affidato a due motivi, ritenendo infondati sia il vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c. – con riguardo alla proporzionalità della sanzione disciplinare e alla valutazione dell’elemento soggettivo della condotta contestata – sia la violazione dell’art. 2106 c.c., perché rientrerebbe nel potere del giudice di legittimità indicare la corretta interpretazione del dovere di fedeltà e non concorrenza e, dunque, condurre un sindacato sulle “norme elastiche”.
I giudici di legittimità spiegano che l’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato va collegato ai principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Tale obbligo, quindi, impone al dipendente di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore, astenendosi da qualunque atto che possa nuocergli, anche potenzialmente.
Inoltre, come già sottolineato (si veda, tra le altre, Cass. n. 6654/2004), integra violazione del dovere di fedeltà ed è potenzialmente produttiva di danno la costituzione, da parte di un dipendente, di una società per lo svolgimento della stessa attività economica del datore di lavoro.
Pertanto alla luce di quanto statuito dalla Cassazione il lavoratore non deve porre in essere i comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma anche evitare qualsiasi altra attività che, per la natura e le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, compresa la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro, potenzialmente produttiva di danno.
Per cui per la Corte Suprema dal collegamento dell’obbligo di fedeltà con i citati principi generali di correttezza e buona fede ne consegue l’obbligo di astensione anche da qualsiasi altra condotta in contrasto con i doveri legati all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, o che crei situazioni di conflitto con finalità e interessi della stessa o che, ancora, possa ledere irrimediabilmente il pressuposto fiduciario del rapporto (cfr. Cass. nn. 6957/2005 e 14176/2009).
L’obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato va collegato ai principi generali di correttezza e buonafede (articoli 1175 e 1375 del codice civile) e impone di tenere un comportamento leale nei confronti del proprio datore di lavoro, astenendosi da qualsiasi atto idoneo a nuocergli anche potenzialmente
Sulla base di questi presupposti, i giudici di legittimità ritengono che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, estendere la violazione dell’art. 2105 c.c. ad attività solo potenzialmente lesive non costituisca un processo alle intenzioni. Per valutare l’osservanza dell’obbligo di fedeltà, infatti, non conta solo la concreta attività e la sua lesività attuale, ma anche la sua natura sintomatica di un atteggiamento mentale del dipendente in contrasto con la leale collaborazione, essenza del rapporto di lavoro subordinato.
In altri termini, gli estremi dell’intenzionalità dell’infrazione sono integrati anche solo dalla previsione che possano verificarsi effetti dannosi per gli interessi del datore, vale a dire la consapevolezza della potenzialità lesiva della condotta del lavoratore.
In conclusione, la Corte Suprema, ha ritenuto che nel momento stesso in cui il lavoratore costituisce una società con il medesimo oggetto sociale e sede contigua rispetto a quella di cui è dipendente, per il lavoratore può prefigurarsi che la propria condotta sia potenzialmente lesiva.
Per questo l’obbligo di fedeltà deve considerarsi infranto anche in caso di attività «solo progettuali per la costituzione di una società operante in concorrenza con l’impresa del datore di lavoro».
Pertanto è del tutto indifferente che, nel caso di specie, il ricorrente abbia dismesso la propria partecipazione nella neocostituita società dopo la sospensione cautelare, mentre la condotta posta in essere prima era consistita in atti solo preparatori, non suscettibili di recare danno alla società datrice di lavoro, poiché, a essere determinante e non più emendabile è l’effetto rappresentato dal venir meno del rapporto fiduciario, dopo che il datore ha rilevato nel proprio dipendente una propensione a non curare gli interessi della sua impresa.
Altrettanto ininfluente era stato dichiarare sia di aver agito inconsapevolmente, sia di essersi limitato a atti meramente preparatori non idonei a recare danno alla società dalla quale dipendeva.
Per sicurezza aveva aggiunto, a sua discolpa, di essere certo che la nuova società concorrente non avrebbe mai operato. Giustificazioni del tutto inutili. Le azioni messe in atto, spiegano i giudici, rivelavano un atteggiamento mentale in contrasto con la leale collaborazione che costituisce l’essenza del rapporto di lavoro subordinato. Il rimedio per l'”errore” commesso non può essere la dismissione della partecipazione. Un gesto tardivo che non evita la fine del rapporto fiduciario, irrimediabilmente compromesso dopo la scoperta che il dipendente aveva una propensione a non curare gli interessi dell’azienda per cui lavorava. Anzi attivandosi per farle concorrenza.
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