La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 27053 depositata il 3 dicembre 2013 intervenendo in tema di licenziamento ha statuito che la reazione “forse scomposta” ma “comprensibile” del dipendente che ha subito un provvedimento ingiusto non può dar luogo al licenziamento in quanto non rompe il vincolo fiduciario con l’azienda.
La vicenda ha riguardato un dipendente licenziato per motivi disciplinari, in applicazione dell’art. 41 del c.c.n.l. relativo al personale dirigente dell’Area VI, dell’Agenzia delle Entrate nei cui confronti venivano presi dei provvedimenti datoriale per una serie gravi episodi di aggressione verbale e fisica nei confronti di alcuni dipendenti dell’Ufficio di Frosinone e del precedente titolare della struttura, episodi cui la stampa locale aveva dato ampia rilevanza e che avevano contribuito a determinare un insostenibile clima di tensione all’interno dell’ufficio.
Il lavoratore impugna, dinanzi al Tribunale, il provvedimento di espulsione. La pronuncia del giudice di prime cure, che aveva rigettato la domanda del lavoratore, veniva impugnata inanzi alla Corte di Appello i cui giudici in riforma della sentenza di primo grado dichiaravano l’illegittimità del licenziamento intimato e ne ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze in termini di risarcimento del danno. In particolare ritenendo “fosse emersa una rinuncia datoriale a sanzionare i comportamenti del dipendente e che, in ogni caso, i fatti contestati non fossero risultati provati”.
L’Agenzia delle Entrate avverso la pronuncia della Corte Territoriale proponeva ricorso, basato su nove motivi di censura, alla Corte Suprema.
Gli Ermellini hanno respinto il ricorso dell’Agenzia delle entrate. I giudici di legittimità hanno condiviso il ragionamento dei giudici distrettuali. In merito al primo punto il datore di lavoro, in una missiva, ammetteva che pur essendo “in presenza di elementi atti a giustificare l’irrogazione di gravi, incisivi provvedimenti sul piano sanzionatorio, l’Amministrazione riteneva in quel momento di dare soluzione alla vicenda…”.
Con riferimento al secondo punto, è caduto l’intero quadro probatorio basato su di una serie di testimonianze sfarinatesi in appello (ed anche nel parallelo procedimento penale), portando i giudici a concludere “con motivazione logica e coerente”, nel senso della “insussistenza degli estremi dell’insubordinazione”. Non provata, dunque, la supposto pronuncia di parole offensive o aggressive né di un generale atteggiamento intimidatorio. Semmai, da parte del dirigente, vi era stata “una reazione forse scomposta, ma comprensibile”, pertanto “con un giudizio espresso tenendo conto della natura e della qualità del rapporto, del vincolo di fiducia a questo connesso, dell’entità della violazione commessa e dell’intensità dell’elemento soggettivo”, il licenziamento non era più giustificato dall’assunta lesione del vincolo fiduciario.
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