La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 900 depositata il 17 gennaio 2014 intervenendo in tema di licenziamento ha affermato che il giudice civile ha la possibilità di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, non comporta alcuna preclusione per detto giudice di utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito con sentenza passata in giudicato e di fondare il proprio giudizio su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine al diretto esame del contenuto del materiale probatorio ovvero ricavandoli dalla sentenza penale o, se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da individuare esattamente i fatti materiali accertati per poi sottoporli a proprio vaglio critico svincolato dalla interpretazione e dalla valutazione che ne abbia dato il giudice penale.
La vicenda ha riguardato un dipendente, sottoposto a indagini penali ed a misura restrittiva della libertà personale, a cui il datore di lavoro aveva comunicato il suo licenziamento. Il lavoratore proponeva ricorso avverso il provvedimento di espulsione inanzi al Tribunale, in veste di Giudice del lavoro, che, però, rigettava la domanda del dipendente. L’attore impugnava la decisione del giudice di prime cure dinanzi alla Corte di Appello che confermava la sentenza impugnata.
Per la cassazione della decisione del giudice di seconde cure il dipendente, per il tramite del suo difensore, propone ricorso, basato su nove motivi di censura, alla Corte Suprema. Gli Ermellini accoglievano il nono motivo cassando la sentenza limitatamente alla motivazione accolta e rinviando alla Corte di Appello.
I giudici di Appello, in sede di rinvio, dopo aver disposto d’ufficio l’acquisizione degli atti del procedimento penale di primo e secondo grado a carico del dipendente, rigettava la domanda dal medesimo proposta, rilevando che gli addebiti di cui alla contestazione disciplinare avevano trovato riscontro nelle risultanze di quel procedimento ed in particolare nelle dichiarazioni rese da alcuni testi, dalle quali era emerso che la condotta posta in essere dal dipendente aveva integrato la giusta causa del licenziamento, per essere venuto meno l’elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.
Il dipendente riproponeva ricorso alla Corte di Cassazione affidandosi a due motivi di censura. La corte di Cassazione rigetta il ricorso ritenendo entrambe le motivazioni infondate. Inoltre da quanto affermato nelle motivazioni della sentenza deriva da quanto precede che ben poteva il giudice d’appello utilizzare, ai fini del suo convincimento, le dichiarazioni testimoniali rese in quel procedimento, procedendo direttamente all’esame del loro contenuto ed alla valutazione della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento.
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