La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31561 depositata il 13 novembre 2023, intervenendo in tema di licenziamento e del rispetto dell’obbligo di repêchage, ha ribadito che “… nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva non può rappresentare una circostanza muta di significato, ma, anzi, costituisce un elemento che il giudice dovrà valutare per accertare in concreto se chi è stato licenziato fosse o meno in grado – sulla base di circostanze oggettivamente verificabili addotte dal datore ed avuto riguardo alla specifica formazione ed alla intera esperienza professionale del dipendente – di espletare le mansioni di chi è stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in livello inferiore …”
La vicenda ha riguardato una lavoratrice che svolgeva, in un bar, le mansioni di cassiera a cui veniva comunicato il licenziamento a seguito della soppressione della sua posizione lavorativa. La dipendente impugnava il provvedimenti di espulsione. Il Tribunale adito accoglieva le doglianze della lavoratrice con provvedimento reso all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012. Avverso la decisione dei giudici di prime cure il datore di lavoro si appellava. La Corte Territoriale riformava la decisione impugnata ritenendo da un lato, provata la reale soppressione del posto di lavoro della ricorrente e, dall’altro lato, la mancanza di competenze della stessa per essere adibita alle altre mansioni rimaste dopo la riorganizzazione aziendale. Avverso la decisione di appello la dipendente proponeva ricorso in cassazione fondato su quattro motivi.
Gli Ermellini accolgono i primi due motivi di ricorso e dichiara assorbiti gli altri.
I giudici di legittimità riaffermano il principio secondo cui “… spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (ab imo: Cass. n. 5592 del 2016); trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (cfr. Cass n. 10435 del 2018); usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v. Cass. n. 6497 del 2021, con la giurisprudenza ivi citata al punto 6);
[…]
sin da Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998, poi, è stato sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; l’arresto riposa sull’assunto razionale dell’oggettiva prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale, ravvisandosi le medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (Cass. n. 21579 del 2008; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019);
è stato, così, stabilito che il datore, prima di intimare il licenziamento, è tenuto a ricercare possibili situazioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al prestatore il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore (cfr. Cass. n. 10018 del 2016; v. pure Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019); …”
Per il Supremo consesso “… secondo l’attuale formulazione dell’art. 2103 c.c., scomparso dal testo statutario il parametro di giudizio dell’equivalenza, “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto […] ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” (comma 1), di modo che l’area delle mansioni esigibili dall’imprenditore nei confronti del lavoratore è delimitata per relationem dal livello di inquadramento individuato sulla base della disciplina collettiva applicabile, oltre che dalla categoria legale;
analogamente con quanto già accaduto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni (tra molte v. Cass. n. 29624 del 2019), il livello di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva diventa lo strumento di determinazione della mobilità orizzontale, consentendo al datore di mutare le mansioni del dipendente purché “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”;
inoltre, l’art. 2103 c.c. novellato, al comma 2, stabilisce che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”; si consente l’assegnazione a mansioni inferiori, anche a prescindere dal consenso del lavoratore, nel caso di modifiche organizzative tra le quali non può certo escludersi la soppressione del posto che incide sulla posizione di un determinato lavoratore tanto da candidarlo al licenziamento; …”
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