La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 25072 depositata il 7 novembre 2013 intervenendo in materia di malattia professionale ha chiarito che tale caratteristica legata all’assenza del lavoratore non risulta di per sé idonea ad escludere la computabilità dei periodi di assenza del prestatore stesso dal comporto. Pertanto ha ritenuto nullo il licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto conteggiando anche le assenze per malattia professionale. Precisando che ai fini della non computabilità dei periodi di assenza per malattia professionale è necessario che il lavoratore, dopo aver richiesto al datore di lavoro di intervenire in relazione al disagio manifestato, risulti da un lato il mancato intervento e dall’altro un aggravamento dello stato di salute del prestatore legato alla mansione dallo stesso svolta.
La vicenda ha visto protagonista un dipendente a cui la società datrice di lavoro comunicava il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Il dipendente impugnava il provvedimento di licenziamento inanzi al Tribunale, nella sua veste di giudice di lavoro, che respingeva la domanda del ricorrente. Il lavoratore impugnava la decisione del giudice di prime cure inanzi alla Corte di Appello che riformava la sentenza di primo grado dichiarando la nullità del licenziamento intimato per superamento del comporto per malattia ordinandone la reintegra e condannava l’appellata, s.r.l. J.P., a risarcire alla predetta il danno subito, mediante corresponsione della indennità di legge. Osservava la Corte territoriale che la natura professionale delle patologie dedotte dall’appellante non era sufficiente ad escludere le assenze derivatene da quelle computabili per il comporto e che era necessaria, ai fini considerati, l’imputabilità delle stesse a responsabilità datoriale.
Nel caso di specie emergeva, anche dalla c.t.u. espletata, che il tipo di lavoro svolto era stato concausa delle patologie e che le assenze dal lavoro, erano riconducibili, come emergeva dai certificati acquisiti agli atti di causa determinata dalle condizioni di lavoro .
Avverso la sentenza della corte distrettuale, la società datrice di lavoro, ricorre alla Corte Suprema.
Gli Ermellini rigettano il ricorso del datore di lavoro evidenziando che l’adempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica del lavoratore imposto dall’art. 2087 cod. civ. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d’attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore dai rischi connessi tanto all’impiego d’attrezzi e macchinari quanto all’ambiente di lavoro, e deve essere verificato, nel caso di malattia derivante dall’attività lavorativa svolta, esaminando le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per prevenire l’insorgere della patologia.
Pertanto con tale principio le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità sia comunque imputabile a responsabilità dello stesso, in dipendenza della nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro, che egli abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza o di specifiche norme, incombendo, peraltro, sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale fra la malattia e il carattere morbigeno delle mansioni espletate .
La non computabilità delle assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto si ispira, infatti, allo stesso principio di tutela dell’integrità fisica del lavoratore, che non consente di valutare secondo i normali criteri il periodo di assenza dal lavoro prolungato oltre i limiti consentiti, nelle ipotesi in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e, comunque, presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma, altresì, quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie – secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata .
I giudici di legittimità hanno ritenuto che la Corte del merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, non limitandosi a considerare la natura professionale della malattia, ma doverosamente accertando la riconducibilità della stessa a colpa datoriale. Inoltre, in relazione alla responsabilità del datore di lavoro per violazione degli obblighi di sicurezza, ex art. 2087 cod.civ., l’onere probatorio a carico del lavoratore non è limitato alla prova dell’evento lesivo, ma comprende anche la prova del nesso causale tra tale evento e l’attività svolta; in quest’ambito, peraltro, è possibile la scomposizione del nesso causale in relazione a diversi periodi dell’attività lavorativa, in quanto determinate mansioni (nella specie, sollevamento carichi), in sé faticose ma inizialmente non rischiose né particolarmente usuranti per le modalità con le quali vengono svolte, possono, tuttavia, divenire concausa dell’aggravamento di una malattia preesistente a fronte dell’aggravarsi della situazione fisica del lavoratore, portata a conoscenza del datore, il quale avrebbe dovuto rideterminare il contenuto delle mansioni del lavoratore, e dei propri obblighi di protezione, esentandolo dal compimento dell’attività divenuta rischiosa .
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