La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 24205  depositata il 9 settembre 2024, intervenendo in tema doppia imposizione per i redditi esteri, ha statuito il seguente principio di diritto secondo cui L’obbligo incondizionato, previsto dalle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi, di detrarre, entro determinati limiti, dall’imposta da versare al fisco italiano l’imposta versata al fisco estero, si applica anche nel caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata, in quanto la norma interna (art. 165, comma 8, Tuir) non può legittimamente limitare l’efficacia precettiva delle norme internazionali pattizie o porsi in contrasto con esse (art. 117, comma 1, Cost.), premurandosi lo stesso ordinamento interno, tramite le disposizioni di cui all’art. 75 del P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 169 del d.P.R. n. 917 del 1986 (quest’ultima nella parte in cui afferma implicitamente la prevalenza del diritto internazionale pattizio nel caso in cui sia più favorevole al contribuente), di attribuire alle norme interne il carattere della cedevolezza rispetto alle norme internazionali pattizie più favorevoli al contribuente

La vicenda ha riguardato un pilota di aerei che aveva lavorato alle dipendenze di una compagnia aerea, con sede in Gran Bretagna e direzione effettiva in Portogallo. I redditi di lavoro dipendente percepiti dal ricorrente venivano assoggettati a ritenuta fiscale in Portogallo. Ai sensi dell’art. 15 della Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Portogallo, il ricorrente ritenne di non dichiarare i citati redditi di lavoro dipendente al fisco italiano. Successivamente, il contribuente presentò istanza di adesione alla procedura di collaborazione volontaria, ai sensi della legge n. 186 del 2014 (“voluntary disclosure”) per regolarizzare alcune attività finanziarie detenute all’estero e non indicate nelle dichiarazioni dei redditi. Per l’Agenzia delle Entrate andavano assoggettati a tassazione anche in Italia i redditi percepiti dal ricorrente in Portogallo, visto che la Convenzione italo-portoghese all’art. 15 non prevede l’esclusività della tassazione in Portogallo dei redditi percepiti dal contribuente. Inoltre ritenne di non riconoscibile il credito per le imposte pagate dal ricorrente in Portogallo, in quanto il relativo reddito percepito all’estero non era stato indicato nella dichiarazione presentata. Il contribuente avverso l’atto impositivo proponeva ricorso. I giudici di prime cure accolsero il ricorso. L’Agenzia delle entrate proponeva appello. I giudici di secondo grado riformarono integralmente la sentenza di primo grado. Il contribuente proponeva, avverso la sentenza di appello, ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

I giudici di legittimità accolsero il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbiti il terzo e il quarto.

Per gli Ermellini ” con la Convenzione bilaterale sulla doppia imposizione citata nei motivi di ricorso, lo Stato italiano, nel caso in cui assoggetti a imposizione elementi di reddito imponibili in Portogallo, si è obbligato nei confronti dello Stato portoghese a “dedurre dalle imposte così calcolate l’imposta sui redditi pagata in Portogallo, ma l’ammontare della deduzione non può eccedere la quota di imposta italiana attribuibile ai predetti elementi di reddito nella proporzione in cui gli stessi concorrono alla formazione del reddito complessivo”.

Il termine “deduzione” utilizzato dalla Convenzione è atecnico: il meccanismo con cui si evita la doppia imposizione, in realtà, non è la deduzione dalla base imponibile, ma la detrazione dell’imposta assolta all’estero da quella complessivamente (sul “reddito complessivo”) dovuta allo Stato italiano.

L’obbligo che lo Stato italiano ha assunto nei confronti dello Stato portoghese è un obbligo incondizionato: proprio perché, in subiecta materia, non è lo Stato italiano che, motu proprio, nella sua sovranità, concede al residente, suo contribuente, un credito d’imposta, quest’ultimo (quale strumento tecnico utilizzato per assicurare la detrazione) non può essere subordinato ad oneri da parte del contribuente. 

Per i giudici di piazza Cavour, in altri termini con la Convenzione bilaterale l’Italia si è obbligata, nei confronti del Portogallo, a limitare la sua sovranità in tema di imposizione fiscale; si è obbligato a far sì che i contribuenti che paghino le tasse al fisco portoghese in relazione ad elementi di reddito posti in essere in Portogallo, nel caso in cui siano assoggettati a tassazione anche in Italia in relazione a quegli stessi elementi di reddito, non subiscano una doppia imposizione.

L’adempimento di tale obbligo internazionale non può subire, sul piano della normativa interna, limitazioni non concordate tra gli Stati parti della Convenzione, con la conseguenza che all’odierno ricorrente, che pretende di non subire una doppia imposizione in relazione agli elementi di reddito assoggettati a tassazione sia in Portogallo che in Italia, l’Agenzia delle Entrate non può opporre l’inadempimento degli oneri formali di cui all’art. 165, comma 8, Tuir, perché così facendo esporrebbe lo Stato italiano ad una violazione del diritto internazionale pattizio.

Peraltro, l’ordinamento tributario interno, nell’ambito delle imposte sui redditi, contiene delle disposizioni che attribuiscono prevalenza agli accordi internazionali conclusi dall’Italia.

In questi termini depone l’art. 75 del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre l’art. 169 Tuir, nell’attribuire generale prevalenza agli accordi internazionali contro la doppia imposizione, fa salva l’applicazione delle norme dello stesso Tuir solo se concretamente più favorevoli al contribuente, con la conseguenza che all’odierno contribuente, per negargli la detrazione d’imposta contro la doppia imposizione (o il rimborso della quota di imposta versata in Italia in assenza del riconoscimento del credito per l’imposta versata all’estero) non può opporsi l’omessa presentazione della dichiarazione o l’omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata.

Pertanto per il Supremo consesso in presenza di un obbligo internazionale incondizionato dello Stato italiano di evitare la doppia imposizione al contribuente residente il cui reddito sia assoggettato ad imposizione sia nello Stato in cui sia prodotto e percepito, sia in Italia, l’art. 165, comma 8, Tuir non può applicarsi, mentre può generalmente applicarsi al contribuente residente i cui redditi siano stati prodotti e tassati (anche) in uno Stato con il quale l’Italia non ha concluso una Convenzione contro la doppia imposizione (o in uno Stato verso il quale l’Italia non abbia, comunque, l’obbligo giuridico di neutralizzare la doppia imposizione nei confronti del contribuente suo residente).

E’ appena il caso di osservare, sul piano nomofilattico, che statuendo nei sensi di cui supra questa Corte non si pone in contrasto con la sua precedente giurisprudenza.

Il tema del rapporto tra convenzione internazionale contro la doppia imposizione e l’art. 165, comma 8, Tuir, infatti, non è stato mai oggetto di specifica indagine in sede di legittimità (le sentenze n. 5524, 5550, 5558, 5563 e 5595 del 2024, infatti, sul presupposto del concorso tra la potestà impositiva dello Stato italiano e quello dello Stato estero che con il primo abbia concluso una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni, hanno genericamente affermato che il divieto della doppia imposizione viene assicurato tramite il “meccanismo del credito d’imposta” di cui all’art. 165 Tuir; nella fattispecie esaminata dall’ordinanza n. 23190 del 2023, invece, la convenzione internazionale evocata era irrilevante ratione temporis ai fini della risoluzione del caso concreto).

(…)

La giurisprudenza di questa Corte ha recentemente precisato che vi sono rilevanti differenze tra l’accertamento con adesione previsto e disciplinato dal d.lgs. n. 218 del 1997 e quello previsto e disciplinato nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui alla legge n. 186 del 2014 (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 2964 del 01/02/2023, Rv. 667069 – 01), differenze che risiedono principalmente, ai fini che in questa sede interessano, nella circostanza che, contrariamente a quanto accade nell’accertamento con adesione di cui al d.lgs. n. 218 del 1997, nell’accertamento con adesione “incastonato” nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria di cui alla legge n. 186 del 2014 l’iniziativa procedimentale appartiene inderogabilmente al contribuente il quale, mentre nell’accertamento con adesione tout court di cui al d.lgs. n. 218 del 1997, subendo un atto impositivo del fisco, definisce bonariamente con quest’ultimo una pretesa erariale con effetti premiali sull’ammontare delle sanzioni ma con lo “svantaggio” della irretrattabilità della definizione, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria mette a conoscenza il fisco di attività finanziarie e patrimoniali di cui quest’ultimo era completamente all’oscuro e, qualora egli sia stato leale in tale attività di disclosure, conserva il diritto ad una imposizione secondo legge (e secondo le norme di diritto internazionale pattizio) delle attività disvelate, con la conseguenza che, dopo aver corrisposto all’erario, in seguito all’accertamento con adesione, per godere dei benefici premiali assicurati dall’istituto della collaborazione volontaria, quanto liquidato dall’amministrazione a definizione della procedura, non gli è precluso il diritto al rimborso delle somme eventualmente corrisposte in eccesso o per un titolo non dovuto (cfr., seppur con riferimento al diverso ambito della cd. “euroritenuta”, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 738 del 12/01/2023, Rv. 667070 – 01). “